martedì 29 novembre 2016

Card. Gerard Müller: Presentazione di Kiko Argüello, "Annotazioni 1988-2014". Integrale.

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Riflessioni sul volume di
Kiko Argüello, Annotazioni 1988-2014
di Gerhard Card. Müller
Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede
In data 15 maggio 2016, la Congregazione per la dottrina della fede, con l’approvazione di Papa Francesco, ha pubblicato la lettera Juvenescit ecclesia, sulla relazione tra doni gerarchici e carismatici per la vita e la missione della Chiesa. La lettera, indirizzata ai vescovi della Chiesa cattolica, riprende una formula della Costituzione Dogmatica Lumen gentium (art. 4), affermando che lʼinterazione tra ministeri e carismi andrebbe compresa solamente nellʼambito dellʼintegrale concezione sacramentale della Chiesa come popolo di Dio, Corpo di Cristo e tempio dello Spirito Santo.
Le reazioni dei vescovi, degli ordini religiosi e delle comunità spirituali sono state, per la maggior parte, positive, constatando che la Juvenescit ecclesia poteva essere considerata non solo utile, ma anche auspicabile.
Durante la conferenza stampa di presentazione del documento magisteriale, solo uno degli interlocutori ha sollevato una domanda curiosa, chiedendo per quale motivo la Congregazione per la Dottrina della Fede ha scelto proprio quel momento per rivolgersi al pubblico e verso chi intendeva puntare il dito. Con ciò, chi poneva la domanda voleva dunque affermare che il vero messaggio non era né il contenuto né la comprensione della dottrina della Chiesa, ma che, sullo sfondo di tutto questo, ci sarebbe un gioco politico di potere e influenza. A mio parere, però, qui subentra lʼermeneutica fatale del sospetto, che non riesce ad afferrare la verità, ritenendo che essa serva soltanto in funzione di una lotta di potere diplomaticamente “camuffata”. Nella Chiesa, però, si tratta della verità in senso teologico, e non del potere in senso politico. Solo la verità di Dio rende liberi. Le ideologie degli uomini invece schiavizzano altri uomini, mirando al controllo dei loro pensieri. E questo accade quando lʼuomo “finito” oppure un partito, crede di dover elevare la sua limitata conoscenza a misura assoluta per i suoi simili, ignorando che solo il Dio che è in Cristo è la verità che ci illumina e ci libera dai limiti di tutto ciò che è finito, conducendoci alla pienezza della vita.
Il Magistero del Papa, però, che egli esercita anche tramite la Congregazione per la Dottrina della Fede, è orientato solamente ed esclusivamente verso la verità della Rivelazione, avendo come scopo lʼeterna salvezza dei fedeli e il bene comune di tutta la Chiesa. La Chiesa, nella sua forma sacramentale e nella sua vita di grazia sorretta dai doni dello Spirito Santo, non fu istituita da Cristo, Figlio di Dio, diventando Suo Corpo, per inseguire ambizioni terrene come potere e ricchezza, o soddisfare la vanagloria di alcuni, «bensì per diffondere, anche col suo esempio, l’umiltà e l’abnegazione» (LG 8).
Con le sue affermazioni e prese di posizione, il magistero vuole dunque ricordare i contenuti e i principi della fede rivelata, affinché possano portare frutto nella vita attuale della Chiesa. Il primo capitolo della Lumen gentium, che parla dei doni gerarchici e carismatici, è incentrato sul mistero della Chiesa come tale. San Cipriano di Cartagine definisce la Chiesa come «un popolo adunato dallʼunità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo» (De orat. Dom., 23). L’iniziativa salvifica di adunare il popolo dellʼAlleanza, parte dal Padre e diventa realtà storica nellʼincarnazione della Parola in Gesù Cristo, Figlio del Padre. Ed è per questo che la Chiesa di Cristo è segno e strumento dellʼintima unione degli uomini con Dio e dellʼunità di tutto il genere umano nellʼamore divino (LG 1). Compiuta lʼopera salvifica di Dio nella storia, Egli mandò il Paraclito, lo Spirito del Padre e del Figlio, affinché potesse continuamente santificare la Chiesa e far sì che noi, tramite il Figlio, avessimo sempre accesso al Padre. Lʼintera opera santificante della Chiesa, che si realizza nellʼannuncio della Parola, nella celebrazione dei sacramenti e nella guida dei fedeli ad opera dei pastori istituiti da Dio, nonché nella loro missione rivolta allʼesterno, attinge forza divina dallo Spirito Santo. La triplice azione della Chiesa, e cioè martyrialeiturgia e diakonia, non è dunque mera attività umana, in grado solo di indicare un Dio lontano, ma piuttosto espressione della cooperazione tra Dio e gli uomini, affinché Dio possa agire tramite noi, e anche noi, nelle nostre attività umane – e cioè nella preghiera, nel pensiero e nellʼazione – possiamo agire per il Regno di Dio, assumendoci la piena responsabilità nella nostra qualità di collaboratori della Sua grazia e verità. Perciò, la Chiesa non è soltanto – per dirla in termini protestanti – creatura della Parola di Dio, oggetto passivo del Suo agire nella giustificazione dei peccatori o nel dichiarare loro giusti, perché ciò permetterebbe che la distanza infinita tra il Dio santo e il peccatore esista per sempre. La Chiesa è piuttosto – per dirla in termini cattolici – purificata e santificata in Cristo. Essendo il Suo Corpo, la Chiesa vive in eterna unione con Cristo, suo Capo. Nonostante Capo e Corpo siano due cose diverse, essi formano unʼunità organica di vita. «Al contrario, − afferma San Paolo − vivendo secondo la verità nella carità, cerchiamo di crescere in ogni cosa verso di lui, che è il Capo, Cristo dal quale tutto il Corpo, ben compaginato e connesso, mediante la collaborazione di ogni giuntura, secondo l’energia propria di ogni membro, riceve forza per crescere in modo da edificare se stesso nella carità» (Ef 4,15s). La Chiesa, quindi, non solo viene santificata, ma, nellʼannuncio e soprattutto nei sacramenti, essa comunica la vita santa della grazia, in modo che il peccatore possa essere chiamato “giustificato” ed esserlo veramente, e noi non fossimo solo chiamati figli di Dio, ma esserlo realmente (1 Gv 3,1). La Chiesa non è solo oggetto, ma anche strumento dellʼopera salvifica di Dio, e perciò con Cristo, suo Capo, essa è anche soggetto della mediazione della salvezza che è soltanto opera di Cristo. La Chiesa, quale sacramento della salvezza del mondo in Cristo, è vera mediatrice della salvezza degli uomini. Per cui, «lo Spirito dimora nella Chiesa e nei cuori dei fedeli come in un tempio (cfr. 1 Cor 3,16; 6,19) e in essi prega e rende testimonianza della loro condizione di figli di Dio per adozione (cfr. Gal 4,6; Rm 8,15-16 e 26). Egli introduce la Chiesa nella pienezza della verità (cfr. Gv 16,13), la unifica nella comunione e nel ministero, la provvede e dirige con diversi doni gerarchici e carismatici, la abbellisce dei suoi frutti (cfr. Ef 4,11-12; 1 Cor 12,4; Gal 5,22). Con la forza del Vangelo la fa ringiovanire, continuamente la rinnova e la conduce alla perfetta unione col suo Sposo. Poiché lo Spirito e la sposa dicono al Signore Gesù: Vieni (cfr. Ap 22,17)» (LG 4).
La distinzione tra doni gerarchici e doni carismatici non corrisponde alla distinzione tra chierici e laici, in quanto lʼessere cristiani di tutte le membra del Corpo di Cristo, che è la Chiesa, ha un fondamento sacramentale. Attraverso il Battesimo e la Cresima veniamo inseriti nel mistero della santa Chiesa; attraverso i sacramenti della Penitenza e dellʼEucaristia la vita in Cristo viene purificata e nutrita, mentre nel matrimonio i coniugi vengono fortificati con la grazia di Cristo. Tutti partecipano completamente alla vita santa e allʼazione santificante della Chiesa, e cioè a tutte le principali attività della messa, della sollecitudine per la salvezza di tutti e della carità. È ciò che noi chiamiamo apostolato dei laici, che è l’esercizio del sacerdozio comune, regale e profetico del popolo di Dio, ma anche la vocazione di tutti i cristiani alla santità.
Il sacerdozio sacramentale dei pastori della Chiesa non si colloca in contrapposizione alla partecipazione di tutti i battezzati alla missione della Chiesa in forza di Cristo, maestro, sacerdote e re della Nuova Alleanza, ma è indissolubilmente legato ad essa. Esso viene esercitato nei gradi gerarchici dellʼepiscopato e del presbiterato, assistiti dai diaconi. Tutti i fedeli e i loro pastori, a loro volta, sono affidati alla cura pastorale universale del successore di Pietro: il Papa, vescovo di Roma. A tutti i fedeli e pastori vengono elargiti, oltre il mandato sacramentale per lʼinsegnamento e la guida della Chiesa, anche i doni personali dello Spirito Santo. Ogni prete, per esempio, ha la potestà di conferire ai malati gravi o ai moribondi il sacramento dellʼunzione degli infermi. Ci possono essere casi, però, in cui il vescovo sceglie di affidare il compito di cappellano ospedaliero a un’altra persona che si è dimostrata particolarmente sensibile nel relazionarsi con le persone malate. O, per fare un altro esempio ancora: fermo restando che i laici non possono esercitare lʼautentico magistero del Papa, dei vescovi e dei sacerdoti ordinati, che viene conferito soltanto mediante il sacramento dell’ordinazione, nulla impedisce, invece, che un fedele riceva, dallo Spirito Santo, il carisma dell’insegnamento. Nel capitolo 12 della sua Lettera ai Romani, San Paolo elenca i doni che lo Spirito Santo ha elargito ad alcuni di loro: il dono della profezia, dellʼinsegnamento, del servizio, della carità e dellʼesortazione, che, però, servono all’edificazione della Chiesa, in verità e amore solo nella misura della fede (Rm 12,6-8). Contrariamente agli apostoli, ai profeti e ai maestri che Dio ha posto nella Chiesa (1Cor 12,28), il cui ufficio viene esercitato, nella Chiesa postapostolica, dai vescovi e dai sacerdoti, i laici che hanno il carisma dello Spirito possono insegnare e vivere la fede, dando un esempio agli altri, per esempio con una catechesi in famiglia o nella comunità.
E mentre il popolo santo di Dio partecipa dellʼufficio profetico di Cristo per mezzo di una vita di fede e di carità (LG 12), lo Spirito Santo dona carismi da quelli più semplici a quelli “più straordinari” – come quelli dei fondatori di ordini, famiglie o movimenti religiosi, i quali, “siccome sono soprattutto adatti alle necessità della Chiesa e destinati a rispondervi, vanno accolti con gratitudine e consolazione” (LG 12). Perciò, per far sì che la Chiesa non venga frammentata nei suoi vari uffici, ministeri e carismi, ma ricomposta nella sua varietà per formare ed edificare lʼunità in Cristo, sullʼunità di tutto il popolo di Dio, espressa nella varietà delle vocazioni e dei carismi, vegliano, per la Chiesa universale, il magistero ecclesiale affidato al Papa, e, per le chiese locali, il magistero dei vescovi. «Il giudizio sulla genuinità dei carismi e sul loro uso ordinato appartiene a coloro che detengono l’autorità nella Chiesa; ad essi spetta soprattutto di non estinguere lo Spirito, ma di esaminare tutto e ritenere ciò che è buono (cfr. 1 Ts 5,12 e 19-21)» (LG 12).
Nell’esercizio del mandato conferito loro da Cristo, i papi hanno analizzato, accompagnato e promosso il Cammino Neocatecumenale in varie fasi. Fu Papa Benedetto XVI che, in data 11 maggio 2008, diede ai loro statuti lʼapprovazione canonica, riconoscendo così anche il carisma dei fondatori come azione dello Spirito Santo rivolta all’edificazione spirituale e pastorale della Chiesa e approvando questo cammino di evangelizzazione del mondo e di nuova evangelizzazione per i cattolici battezzati.
Il punto dolente nelle Chiese di antica cultura cattolica è proprio questo: tante di loro, pur essendo “sacramentalizzate”, non sono “evangelizzate”; hanno una conoscenza teoretica della loro fede, ma senza essere radicate spiritualmente ed esistenzialmente in essa e senza essere completamente permeate dallʼamore di Dio e del prossimo. Naturalmente non sarebbe giusto giudicare le persone solamente sulla base di questa contrapposizione, che è una caratterizzazione generale dello stato del cristianesimo nella civiltà europeo-americana. E siccome qui non si tratta del catecumenato degli adulti prima del loro battesimo, ma di destare, sostenere e fortificare la fede secondo il modello del catecumenato pre-battesimale, esso viene sinteticamente chiamato “neocatecumenato”.
Non si deve – e non si vuole – sostituire l’insegnamento ufficiale della fede nelle parrocchie e nelle scuole. Si tratta di fare esperienza personale di una vita con il Dio Trinitario santo e santificante, da condividere con un gruppo di compagni di viaggio; di intraprendere un itinerario mistagogico e catechetico che rende capaci di seguire il Signore crocifisso e risorto, configurandoci e unendoci a Lui nell’amore. Parola di Dio, liturgia e comunità sono i tre elementi fondamentali del Cammino Neocatecumenale.
La catechesi non vuole soltanto trasmettere la conoscenza della dottrina della fede. Infatti, qui subentra la consapevolezza che soltanto una sufficiente conoscenza della Parola di Dio contenuta nelle Sacre Scritture, del credo e dellʼinsegnamento della Chiesa rendono la fede possibile. Perché la fede è partecipazione alla conoscenza che Dio ha di se stesso, in quanto lʼessere di Dio sta nel Suo riconoscere se stesso nel Verbo (Gv 1,1), che si fece carne nella pienezza del tempo e nella storia (Gv 1,14; Gal 4,4; Fil 2,6-11). Dio è amore nella comunione del Padre e del Figlio nello Spirito Santo (1Gv 4,8.12), che ci è stato dato e riversato nei nostri cuori (Rm 5,5). La fede non è contraria alla sapienza, come ritengono ingiustamente i razionalisti. Colui che crede sa anche di più, perché il Figlio ci ha rivelato ogni cosa che gli è stata affidata dal Padre (Lc 10,21s), e proprio per questo la fede è conoscenza di Dio che supera infinitamente tutta la conoscenza del mondo che lʼuomo possa mai avere. Nella sua lettera “alla Chiesa di Dio che è in Corinto” (1Cor 1,2), San Paolo scrive: “La mia parola e il mio messaggio non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza, perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio” (1Cor 2,4s). Perciò, la catechesi non è né comunicazione astratta di conoscenze, né mera stimolazione di sentimenti emotivi. Il Concilio Vaticano II, dal cui spirito scaturì il carisma del Cammino Neocatecumenale, afferma: «L’insegnamento del catechismo ha lo scopo di ravvivare tra gli uomini la fede e di renderla cosciente e attiva, per mezzo di un’opportuna istruzione» (CD 14).
Ciò che la fede ci insegna oggettivamente, deve trasformarsi in esperienza spirituale ed esistenziale personale. Il Cammino Neocatecumenale va inteso come introduzione spirituale al cristianesimo, come educazione permanente nella fede. Il suo carisma è frutto del Concilio Vaticano II, che mirò a un ampio rinnovamento della Chiesa in Cristo. Senza lʼintima e viva vicinanza di Dio, lʼuomo è infelice e deplora il proprio destino, che lo vede in balìa delle potenze della cupidigia, della supremazia, delle passioni, dellʼegoismo e della voglia di abbandonarsi al proprio desiderio, che egli fa diventare suoi idoli, rendendosi loro schiavo. Per questo, il primo incontro con Cristo, è l’esperienza della liberazione dal peccato e dalla malvagità del cuore, che ci conduce verso lʼilluminazione dello spirito con la Sua luce e verità. Così, nellʼintima vicinanza di Dio saremo colmati del Suo amore, diventando uno con Lui. È nella libertà e nella gloria dei figli di Dio che cogliamo il nostro mandato e così esercitiamo la missione della Chiesa di andare e ammaestrare tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo (Mt 28,19s). Perché siamo tutti invitati alla mensa del Signore che Egli ha preparato per noi già adesso nell’Eucaristia e, un giorno e per sempre, nel Banchetto celeste.
Nel 1964 Kiko Argüello iniziò e fondò, assieme a Carmen Hernández, tra i poveri ed emarginati della periferia di Madrid di Palomeras Altas, il cammino di un catecumenato per persone in cerca di Cristo e bisognose di Lui. E da allora, la piccola piantina è diventata un albero gigante. Le migliaia di comunità nate in centinaia di diocesi in tutto il mondo, attestano la fecondità spirituale del carisma dellʼevangelizzazione che nutre lʼattività del Cammino Neocatecumenale. Un carisma che viene dallo Spirito Santo e che non smette mai di ricordarci la discrepanza tra la grandezza del mandato e la nostra debolezza, la nostra misera umana. La grazia non ci viene data come possesso, qualcosa di cui vantarsi davanti a Dio e al mondo, o per poter avanzare delle pretese nella Chiesa. La grazia non è la nostra garanzia per una vita tranquilla, libera da ostilità esterne e tentazioni interne. E laddove la grazia opera in modo fecondo, Dio chiede anche la disponibilità di partecipare alla kenosis di Suo Figlio che per amore nostro si fece deridere, beffare, accusare, flagellare, incoronare di spine e crocifiggere: LUI, che è «lʼautore della vita» (At 3,15), il cui cuore venne trafitto dalla lancia quando era già morto, affinché la malvagità diabolica potesse soffocare anche lʼultimo soffio di vita. Dʼaltronde, è la storia della Chiesa stessa a dimostrarci che se i più grandi santi potevano configurarsi a Cristo, fu proprio grazie ai loro fratelli tuttʼaltro che amorevoli.
Infatti, furono i propri confratelli che rinchiusero San Giovanni della Croce, nella notte tra il 2 e il 3 dicembre 1577, nella prigione del convento dei Carmelitani Scalzi di Toledo, sottoponendo colui che venne ritenuto “ostinato e ribelle”, a umiliazioni e flagellazioni, convinti di fare del bene a lui a alla Chiesa. “La notte oscura dell’anima” è l’esperienza comune a tutti coloro che cercano Cristo crocifisso e amano Cristo nei crocifissi del loro tempo.
Le Annotazioni 1988-2014, raccolte da Kiko Argüello e contenute nel libro qui presente, non offrono riflessioni sistematiche o frammentarie sui temi della fede e della teologia. Esse sono invece la testimonianza di un cammino interiore dellʼanima e degli sforzi per ottenere la fiducia in Dio, nonché lʼunione con il Signore crocifisso e sofferente. Il cuore desidera disfarsi di ogni cosa che vorrebbe prendere il posto di Dio, allargandosi in modo tale da far sì che la pienezza del Suo amore possa prenderne dimora.
Si tratta di 506 piccoli e medi aforismi, preghiere, esperienze e conoscenze, massime, ricordi e appunti, raccolti in ordine cronologico, i quali, nella profondità dellʼesperienza mistica di Dio, illustrano il cammino spirituale percorso dallʼautore, assieme a Carmen Hernández e a Don Mario Pezzi, negli ultimi 30 anni. Il lettore che pensa di trovare elementi di una biografia o di un cammino interiore, rimarrà deluso. E sarà altrettanto deluso chi pensa di imbattersi in affermazioni adatte ad essere strumentalizzate, alla maniera della psicologia del profondo, in senso positivo o negativo, a scopo di propaganda. E se lʼautore ha accantonato così a lungo lʼidea di pubblicare le sue note, lo ha fatto per pudore e per timore che non fosse altro che una pretesa della sua vanità. Alla fine, fu lʼinsistenza di tanti a fargli cambiare idea – e il ricordo delle parole di un vecchio prete che gli aveva detto: “Non lasciare mai di fare il bene per paura della vanità, perché questo viene dal demonio!”.
Ma quanto bene si può fare con questo libro! Come dice Kiko Argüello: “Proclamare la gloria di Dio, dando testimonianza del suo amore gratuito e della sua fedeltà incondizionata a me che, come si potrà comprovare, sono inadeguato, indegno, inutile, infedele […] Se queste annotazioni possano aiutare qualcuno, sia benedetto Dio. Ciò che, sì, spero è che il lettore, per intercessione della Santissima Vergine Maria, che ha ispirato e guida il Cammino Neocatecumenale, mi raccomandi alla misericordia di nostro Signore Gesù Cristo, perché mi salvi.”. E lʼautore chiude la sua introduzione rivolgendosi ai lettori con la richiesta di una preghiera e con la sua commovente motivazione: “Pregate per me, che sono un peccatore”. È questa la chiave per comprendere la sua pietà incentrata su Cristo, in completa armonia con san Paolo. Perché Cristo è morto per noi peccatori, affinché noi potessimo morire al peccato, resuscitando con il Signore risorto a nuova vita. Ci consideriamo come figli di Dio, ed è per questo che, nella vita come nella morte, poniamo la nostra speranza soltanto in Cristo.
A causa della sua particolare forma letteraria, non è possibile fare un riassunto di questo libro. E non avrebbe neanche senso leggerlo come un sistematico trattato teologico, tutto dʼun fiato, dalla prima allʼultima pagina. Questo lʼho fatto solo io, perché stasera ho lʼonore di presentarvelo.
Ogni piccola unità offre una comprensione logica, sulla quale ognuno può riflettere da solo, lasciandosi condurre dallʼautore e assieme a lui, sempre più nelle profondità del mistero del Signore sofferente e risorto. Nessuno di noi deve avere la sensazione di vedere la sua vita, i suoi doni e talenti, le sue sofferenze e le sue umiliazioni svanire nel nulla; ognuno deve sentirsi completamente accettato e amato da Dio, in modo da poter abbracciare la frase chiave della mistica paolina: «In realtà mediante la legge io sono morto alla legge, per vivere per Dio. Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,19s).
La profondità mistica del libro emerge soprattutto dalle preghiere che non hanno solo bellezza poetica, ma sono rivestite anche di grande forza e densità religiosa. È una teologia e spiritualità che, attingendo alle Sacre Scritture è profondamente permeata dalla Parola di Dio. Qui abbiamo, oltre le citazioni e i riferimenti ai Padri del deserto, agli autori mistici e al Talmud, più di 400 citazioni delle Scritture! Un ruolo centrale spetta ai Salmi, che, rispecchiando la condizione dellʼuomo davanti a Dio, danno testimonianza del fatto che lʼorante, in tutte le sue sofferenze e speranze, si rivolge unicamente al Dio buono e giusto.
I misteri centrali della fede cristiana non sono costrutti teologici che si collocano accanto alla spiritualità. La pietà si muove piuttosto allʼinterno del mistero del Dio trinitario e della figliolanza divina, con Dio che dimora nel cuore di colui che è giustificato, per via della missione del Figlio che si è compiuta nellʼincarnazione, nellʼinvio e nellʼeffusione dello Spirito Santo nei cuori dei fedeli. Il mistero della redenzione nella Croce si rivelerà a noi quando moriremo con Cristo al peccato, risuscitando con Lui a nuova vita, come scrive san Paolo nel capitolo 6 della Lettera ai Romani: «O non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte? Per mezzo del battesimo siamo dunque stati sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova. […] Sappiamo bene che il nostro uomo vecchio è stato crocifisso con lui, perché fosse distrutto il corpo del peccato, e noi non fossimo più schiavi del peccato […] Così anche voi consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio, in Cristo Gesù» (Rm 6,3-11).
Pur non potendo soffermarmi qui sulle singole massime e sui testi, credo comunque di individuare un filo rosso che collega il tutto: tutto si evolve prima intorno alla conversione, poi allʼessere colmati di grazia e infine all’unione dell’uomo con il Dio dellʼamore trinitario, quando Dio viene a dimorare nell’uomo e l’uomo in Dio. È la mistica e ascesi cattolica, fondata sulla Bibbia, sviluppata dai Padri della Chiesa e approfondita dai grandi mistici tedeschi, olandesi e spagnoli, che, accanto alla scolastica, e cioè alla teologia scientifica, ancora oggi influisce largamente sulla pietà cattolica.
Nella mistica cristiana, l’intima unione dell’anima con Dio, basata sulla grazia che ci viene comunicata per mezzo della Chiesa e dei sacramenti, si sviluppa su tre piani. Piani, nei quali dovremmo entrare sempre di nuovo nel corso del cammino della nostra vita che ci conduce dalle ombre, dalle paure e dalle avversità, alla luce e alla consolazione, finché non saremo giunti alla Patria celeste, dove ci troveremo al cospetto di Dio. La prima condizione per questo è la via purgativa e cioè la conversione interiore e il rifiuto del peccato. Chi commette il peccato viene dal diavolo, come ci dice la prima lettera di Giovanni, ma ora il Figlio di Dio è apparso per distruggere le opere del diavolo e dei suoi discepoli nelle sembianze dellʼanticristo e dei suoi apostoli, ed erigere il Regno divino dell’amore e della pace (cfr. 1 Gv 3,8).
Il secondo piano è quello dell’illuminazione grazie alla luce di Cristo, alla sua grazia e verità: la via illuminativa. E poi segue il piano più alto, che già indica, anzi anticipa, la vita eterna: la via unitiva e cioè la piena comunione tra l’uomo e Dio nell’amore. Con la prima lettera di Giovanni, possiamo dire: «Quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo. […] Questo è il messaggio che abbiamo udito da lui e che ora vi annunziamo: Dio è luce e in lui non ci sono tenebre. Se diciamo che siamo in comunione con lui e camminiamo nelle tenebre, mentiamo e non mettiamo in pratica la verità. Ma se camminiamo nella luce, come egli è nella luce, siamo in comunione gli uni con gli altri, e il sangue di Gesù, suo Figlio, ci purifica da ogni peccato» (1Gv 1,3-7).
Al lettore attento e sensibile non sfuggirà un tema che ricorre spesso e cioè quello dellʼumiltà e il suo contrario: la superbia. Anche questo ha un suo fondamento nella Bibbia, in quanto il peccato, e con esso la miseria umana, scaturisce dalla superbia. “Voler essere come Dio” – eritis sicut Deus (Gen 3,5) –: il voler vantarsi di se stessi, anziché della nostra creaturalità, il voler elevarsi a creatori di noi stessi e di ciò che riusciamo a compiere, invece di ringraziare Dio per la vita e per tutti i doni che abbiamo ricevuto da Lui, è lʼinizio della storia di tutte le disgrazie dell’umanità, alla quale solo Cristo ha dato la definitiva svolta verso la salvezza. Mediante la sua kenosis, Egli ha mortificato la nostra superbia. Colui che era senza peccato, ha preso i nostri peccati su di Lui e li ha espiati con la sua morte sulla Croce. Nell’incarnazione, Colui che è il Creatore, si è inserito nella schiera delle creature, diventando uomo come noi, per ricondurci alla comunione con il Padre suo. Perché Egli, nella sua persona, in cui vi sono due nature, quella umana e quella divina, unite ma non confuse tra loro, è «la via, la verità e la vita» (Gv 14,6).
Kiko Argüello non si stanca mai di dire: “Sono un peccatore”. E qui colpisce che anche Papa Francesco, quando parla di sé, usa spesso questa espressione. Certo, per noi cristiani è normale confessare i nostri peccati e rivolgerci a Maria, la Madre di Dio, nell’Ave Maria, dicendo: “Prega per noi peccatori, adesso e nellʼora della nostra morte.” Ma questa formula esprime anche una certa pietà mistica. E qui subentra lʼesperienza testimoniata dalla Bibbia, che noi, dopo aver fatto quanto dovevamo fare, non possiamo dire altro che questo: Sono soltanto un servo inutile. Non possiamo vantarci di noi stessi, perché tutto ciò che facciamo, anche le nostre opere più grandi, i lavori più stupendi, li abbiamo compiuti soltanto con lʼaiuto di Dio. «Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare» (Lc 17,10).
È l’esperienza esistenziale dello smarrimento che prova il peccatore quando guarda se stesso; un’esperienza indissolubilmente legata al conforto del cuore che sa di potersi affidare a Dio, che non solo ci dona tutto ciò che noi chiediamo, ma anche se stesso. Prima di tornare al Padre, Gesù, nella “preghiera sacerdotale”, dice ai discepoli: «Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete. In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre e voi in me e io in voi. Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi mi ama. Chi mi ama sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui» (Gv 14,19-21).
E anche se confessiamo di essere poveri peccatori che aspettano tutto da Dio, bisogna mantenere l’equilibrio tra l’esperienza esistenziale della realtà oggettiva della creaturalità degli uomini e la reale redenzione dalla forza del peccato.
L’uomo è stato creato in uno stato di santità e giustizia. La natura umana – mente e corpo – è positività pura, in quanto chiamata all’esistenza dall’essere di Dio e perché consiste, si muove ed esiste nella volontà di Dio riguardo ad essa. Il peccato originale di Adamo ci ha privati della grazia santificante, ha ferito la natura dellʼuomo, senza però distruggerla o farla diventare strumento del male. Essa rimane eucaristicamente orientata verso la riconciliazione con Dio, attendendo la sua elevazione nella grazia e il suo compimento nella gloria dellʼamore trinitario di Dio. Il Battesimo ci fa diventare figli di Dio. Ciò che rimane sono solo la disposizione e lʼinclinazione al peccato, che però, più che peccato è invito a deporre lʼuomo vecchio che è in noi e far sì che lʼabito nuziale della grazia venga preservato dalla macchia del peccato. Dobbiamo distinguere tra il sentimento creaturale e i morsi della coscienza che, per colpa del peccato realmente commesso, non ci danno pace. La consapevolezza, propria della creatura, della sua finitezza e cioè della distanza infinita che la divide dallʼessere pura e dalla santità di Dio, non ha niente a che fare con il peccato. Infatti, per definizione formale, il peccato non è altro che il libero atto della volontà di agire contro il bene, che è Dio stesso, o in cui Dio comunica la sua bontà alle creature. Non dobbiamo vergognarci né della nostra creaturalità, né della nostra corporeità, della nostra storicità, della nostra finitezza o mortalità. Perché Dio ci ha resi liberi, rendendoci partecipi del suo essere nell’amore. Creandoci a sua immagine e somiglianza, non perde nulla della sovranità del suo amore, che Egli è e che prova verso di noi. Non gli siamo indifferenti, come i mortali lo sono agli dei immortali nei miti greci, o come il Dio aristotelico dell’essere assoluto che rimane irraggiungibile per noi, e non c’è neanche un rapporto dialettico tra uomo e Dio che sia basato sulla limitatezza e concorrenza reciproca.
E la grazia del perdono dei nostri peccati non è neanche solo grazia divina che ci lascia così come siamo, un luogo dove ripararsi sempre di nuovo, malgrado la nostra restante condizione peccatrice e la nostra contrarietà alla volontà di Dio. In verità, la grazia ha fatto sì che lʼuomo sia pienamente giustificato, diventando un uomo nuovo nella giustizia e nella santità di Cristo. Dobbiamo cercare di non perderci né in esagerate fantasie di perdizione, né nei vanti, davanti a Dio, di ciò che abbiamo compiuto. Perché abbiamo deposto l’uomo vecchio, rivestendo l’uomo nuovo, creato secondo il suo Creatore e rinnovato per poterlo conoscere (cfr. Ef 4,24).
E qui valgono le parole di San Paolo che scrive «ai santi e fedeli fratelli in Cristo dimoranti in Colossi» (Col 1,2): «Rivestitevi dunque, come amati di Dio, santi e diletti, di sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza; sopportandovi a vicenda e perdonandovi scambievolmente, se qualcuno abbia di che lamentarsi nei riguardi degli altri. [..] Al di sopra di tutto poi vi sia la carità, che è il vincolo di perfezione» (Col 3,12-14).
Essere consapevoli del fatto che anche il cristiano battezzato ha la disposizione al peccato – o che lo ha già commesso – non vuol dire rassegnazione o tormento. Come anche la consapevolezza della nostra reale redenzione non comporta arroganza nei confronti dei non-credenti o persino pretenziosità nei confronti di Dio e della Chiesa.
L’essere redenti in Cristo ci dona un equilibrio interiore tra la nostra finitezza e la nostra speranza in Dio. Siamo creature e figli di Dio. Le piaghe di Cristo ci avvolgono con tutte le nostre fatiche e sofferenze, affinché possiamo vivere con gioia nel Signore risorto, affinché la morte corporale non possa distruggerci.
Ringrazio il nostro fratello Kiko Argüello che ha avuto il coraggio di fare del bene, pubblicando le sue annotazioni e conducendo i suoi lettori nella profondità spirituale della fede cristiana e dellʼamore per Gesù Cristo, suo Figlio. «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna» (Gv 3, 16).