sabato 12 novembre 2016

Un regalo o una proposta ideologica?

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 di Costanza Miriano 
Oggi mia figlia è malata. Alle 8 ero sotto la redazione, avevo trovato parcheggio con solo una decina di rosario, e infatti mi sembrava che ci fosse qualcosa di strano sotto. Appunto. Chiama mio marito: la figlia numero tre (di quattro) ha la febbre. Si mette in moto la macchina dei soccorsi. La task force, valutate circa quindici variabili, decide che conviene non prendere un giorno di malattia bambino, costa troppo (zero stipendio, zero contributi). Si elaborano piani di riserva, si spostano appuntamenti, si chiama la tata A, la B, si chiede un cambio di orario al direttore (possibile solo perché non avevo troupe o interviste fissate). Si lascia a malincuore il  parcheggio e si torna, dopo una confortevole oretta nel traffico, a casa, da dove, tra termometri e tè caldi, si lavora anche fuori dall’orario. Ma se fossi stata una commessa? Una barista? Un’operaia? Un medico di turno all’ospedale?
Non è previsto che a una mamma lavoratrice si ammali un figlio. Se succede, sono fatti suoi. Se succede molto perché i figli sono molti, i fatti sono molto suoi. Perché tutta la logica del mondo del lavoro rispetto a quello femminile è: donne, se volete (dovete) lavorare, prego. Se ci riuscite, queste sono le nostre regole di maschi. Sennò, fatti vostri. Quanto alla maternità, si vuole liberare le donne dal fardello in modo che possano lavorare presto e molto. Insomma, che le mamme siano lavoratrici. Ma che le lavoratrici siano prima di tutto mamme, e che i figli non siano un fardello ma la loro felicità non è previsto.
Invece la donna non è un uomo, e deve poter lavorare (sarebbe bello che lo scegliesse, e non fosse costretta dalla necessità economica) con i suoi tempi e i suoi modi e i suoi ritmi.
La più grande, dolorosa violenza che ho subito nella mia vita, e per ben due volte, l’ho vissuta quando sono dovuta tornare al lavoro – allora precario – quando i miei primi due figli avevano quattro mesi. Avete presente un bambino di quattro mesi? Quanto è piccolo? Qualcuno dei legislatori ha chiara la nozione di medicina di base, che un bambino a quell’età si nutre esclusivamente di latte materno? Che se una mamma vuole proteggerlo dalle malattie e dal distacco si deve mungere come una mucca di notte e lasciare il suo latte in frigo?
Ora, tutto questo è completamente rimosso dal discorso collettivo sulle madri che lavorano. A una donna che desidera stare con i suoi bambini, e sottolineo che lo desidera con tutta se stessa, e che come me non è ricca, è impedito.
In questo contesto culturale arriva la proposta del presidente dell’Inps, Tito Boeri: costringere i padri a stare a casa quindici giorni quando nasce un bimbo. Co-strin-ge-re. Altrimenti c’è una non meglio specificata multa. Insomma una scelta obbligatoria, che peraltro è un ossimoro. In un mondo del lavoro che va verso la deregolamentazione sempre più selvaggia, la flessibilità, il precariato, questo regalo d’altri tempi sa un po’ di polpetta avvelenata. Mi sembra evidente che si tratti di una proposta che ha molto, molto più un carattere culturale e ideologico che pratico. Se c’è un momento in cui la presenza costante, notte e giorno, del padre è irrilevante, è proprio in quei quindici giorni iniziali, quando il bambino neanche vede nettamente, non si interessa al mondo esterno, e vive in simbiosi esclusiva con la mamma. È chiaro che se qualcuno aiuta la mamma è meglio per lei, ma tra tutti i problemi che presenta il lavoro femminile, questo è veramente l’ultimo.
Se ci sono fondi (ma già il governo mette le mani avanti), che si diano alle mamme perché possano rimanere quindici giorni in più a casa. O magari quindici mesi, che sarebbe il minimo secondo natura. Che si diano quei giorni liberi ai padri quando un figlio diciassettenne si affaccia al mondo e decide del suo futuro, che un uomo grande lo porti a spaccare la legna o a cacciare nel bosco. Un padre non è indispensabile a togliere il moncone del cordone ombelicale al neonato, lo è quando un figlio diventa uomo, quando una giovane donna in erba si ribella e ha bisogno di un ascolto speciale e di molti no decisi. Un padre insegna a giocare (cosa che a quindici giorni i neonati non fanno), insegna la realtà, insegna a morire, cioè insegna il limite. La mamma insegna la vita.
Che la proposta sia ideologica (ma il presidente dell’Inps ha figli?) me lo confermano le motivazioni: serve, dice, a togliere potere contrattuale agli uomini. A questi uomini messi continuamente e ovunque in discussione. È parte dunque di un disegno che vuole l’uguaglianza nel mondo del lavoro non a partire dalla differenza ma dall’uniformazione. Vogliono che le donne siano maschi, e solo se maschi fanno carriera.
La maternità invece è un master che ti insegna a fare le cose diversamente, in modo accogliente, ottimizzando, tagliando i tempi morti che affliggono molto del lavoro maschile, le chiacchiere, le lotte per il potere. Ripensiamo il mondo del lavoro, rendiamolo flessibile come orari e variabile nel tempo (a sessanta anni sarò liberissima di lavorare quindici ore al giorno). E se vogliamo aiutare una famiglia, facciamo guadagnare di più il padre, in modo che la mamma che lo desidera possa stare di più con i suoi bambini. Se a tre mesi è costretta a lasciarli, come è previsto oggi, pensate che soffra di meno perché nei primi quindici giorni il padre ha lavato le tutine di spugna?
fonte: La Verità