sabato 31 dicembre 2016

EL NIÑO DEL TAMBOR



Letra de la canción

El camino que lleva a Belén
baja hasta el valle que la nieve cubrió.
Los pastorcillos quieren ver a su Rey,
le traen regalos en su humilde zurrón
(ro pom pom pom, ro pom pom )

Ha nacido en un portal de Belén
el Niño Dios

Yo quisiera poner a tu pies
algún presente que te agrade Señor,
mas Tú ya sabes que soy pobre también,
y no poseo más que un viejo tambor.
(ro pom pom pom, ro pom pom pom)
¡En tu honor frente al portal tocaré 
con mi tambor!

El camino que me lleva a Belén
yo voy marcando con mi viejo tambor,
nada mejor hay que te pueda ofrecer,
su ronco acento es un canto de amor
(ro pom pom pom, ro pom pom pom)

Te Deum laudo per mio marito




di Costanza Miriano
Te Deum laudo per mio marito, che è rimasto ancora quest’anno con me, nonostante dopo centomila chilometri di corsa le giunture di una vecchia signora andrebbero rottamate per legge.
Te Deum laudo per come tronca le mie lamentele, ascoltandomi solo quando serve (va be’, qualche volta anche un po’ meno, tipo quando gli parlo dei prof dei figli, e adesso non sappiamo con quale insegnante ha parlato: l’ho mandato da quella di latino e mi è tornato riferendomi di un tema di italiano che lui non ha mai fatto, e comunque lo sconosciuto ragazzo di cui parlava quella signora – chi sarà stata? – ha preso 8 e mezzo).
Te Deum laudo per le volte in cui invece le mie lamentele le ascolta, e cerca una soluzione pratica e si dimentica sempre che io invece volevo un complimento, ti lodo perché ha ragione lui, i complimenti non mi servono, le soluzioni pratiche moltissimo, i complimenti sono gratis, le soluzioni pratiche costano, i complimenti alimentano solo la mia vanità, le soluzioni pratiche fanno il mio vero bene.
Te Deum laudo per come mi conosce anche nei lati peggiori – quasi tutti – e continua ad amarmi.
Te Deum laudo perché mi spiega quello che succede nel mondo, tutte le cose che io non ho voglia di sforzarmi a capire, e così quando mi intervistano posso chiamarlo e chiedergli cosa penso della guerra in Siria, risparmiando un sacco di neuroni.
Te Deum laudo per come gioca con i figli, parla con loro, si ricorda i loro gusti e le passioni, amandoli come figli unici. Ti ringrazio perché sa dire i no che servono, mettendo muri e limiti, un po’ perché è figura dell’autorità di Dio Padre, un po’ perché a ‘na certa non ne può più e a differenza della mamma smonta dal servizio e non ce n’è più per nessuno.
Te Deum laudo perché anche a me vorrebbe insegnare a dire no (non ce la farà mai), perché mi indica i rami da potare (non ce la farò mai), perché ignora i miei capricci.
Te Deum laudo perché gli ho ceduto in appalto tutta la gestione del comparto ansie materne, e ho deciso che posso preoccuparmi solo quando mi autorizza lui, cioè praticamente mai.
Te Deum laudo per quanto è diverso da me, e mi esonera dall’interessarmi a parti interessantissime del mondo che io ignoro completamente (sono troppo presa dalle persone, dalle loro vite, dai fatti delle mie amiche, e delle amiche delle amiche fino al nono grado), tipo la musica il cinema la politica la storia la scienza e la tecnologia.
Te Deum laudo perché mi ha promesso che non morirà all’improvviso, e che prima di farlo mi spiegherà come si accende Sky.
Te Deum laudo per la sua solidità silenziosa (troppo!), concreta, fattiva.
Te Deum laudo per tutto quello che di lui mi fa arrabbiare, l’orsaggine, la poca voglia di parlare e la fatica che mi tocca fare per capirlo, la rudezza di modi, la scorbuticità – conio il termine – perché sono occasioni di conversione, perché se amare fosse facile non sarebbe la via per diventare santi.

Te Deum laudo perché nella differenza feconda con lui, così altro da me, si apre la via per il totalmente Altro, che è Dio, lo Sposo che si nasconde dietro la sua faccia.

Affidiamo commossi la nostra vita a Maria

Maria Madre di Dio

di padre Piero Gheddo

1) L’anno nuovo 2017 ci dice che il tempo passa, la vita fugge, l’eternità si avvicina.  Anzitutto ringraziamo Dio del tempo che ci dà. La vita vale sempre la pena di essere vissuta, fin che Dio vuole, anche ammalati o disabili: serviamo il Signore con la sofferenza, l’umiltà di accettare le malattie.
Padre G. B. Tragella è stato il mio educatore e modello della vita di un prete e missionario. Era un sant’uomo, mi insegnava a spendere bene tutto il mio tempo e mi ha educato al giornalismo impegnato per il Vangelo. E’ morto a Roma a 84 anni. Pochi giorni prima che morisse sono andato da Milano a Roma per un ultimo saluto e mi diceva che non capiva perché il buon Dio ci fa vivere così poco! Io ero sui trent’anni e non capivo. Adesso capisco bene!
2) Bellissimo e commovente il Vangelo di oggi: i pastori corrono a vedere Gesù! Anche la nostra vita ricomincia da capo alla grotta di Betlemme! Che bello incominciare l’anno nuovo con Maria, Madre di Dio e madre nostra! Anno nuovo, vita nuova, il nostro cammino ricomincia da zero.
Chiediamo la grazia di commuoverci, di stupirci di fronte ai fatti della vita. Guai a chi pensa di aver visto tutto, di sapere tutto: si chiude in se stesso e non avanza più in sapienza umana e cristiana. La grazia della commozione è indispensabile come l’immagine che deve accompagnarci in questi giorni.
Il 1° gennaio immagino che Maria sia qui accanto a me, all’inizio del nuovo anno 2017. Mi prende per mano e mi dice: “Pierino, vieni, ti accompagno io”. Grazie a Dio, io ho 87 anni, ma siamo rimasti tutti bambini. Dobbiamo affidarci alla Mamma del Cielo, se vogliamo fare un buon anno.
Il Vangelo di oggi ci dice che “Maria conservava tutte queste cose nel suo cuore, meditandole assieme”: la stessa frase che San Luca ripete dopo il Vangelo col racconto del ritrovamento di Gesù al tempio (Luca, 2, 52). Cioè Maria meditava i fatti della vita attraverso cui Dio si manifestava. Ma cosa aveva da meditare la mamma di Gesù? Era senza peccato, aveva dato alla luce il Salvatore e lo teneva fra sue braccia, era “benedetta fra tutte le donne” e “tutti i popoli la diranno beata”…. Eppure meditava: anche lei, era chiamata a “crescere in sapienza e grazia”, come il Vangelo dice di Gesù quando la famiglia ritorna a Nazareth, dopo che Giuseppe e Maria lo ritrovano fra i dottori nel tempio. Maria educava Gesù e Gesù educava lei!

Maria cresceva anche lei in età e grazia ed esperienze di vita che la avvicinano sempre più a Dio, Padre e Creatore. Anche noi dobbiamo crescere sempre nell’amore di Dio, chiedere a Dio il dono della santità. Perché la santità, cioè l’imitazione di Cristo, “è il desiderio della santità” scrive S. Agostino. E’ una sentenza profonda, meditiamola pregando.
Nella vita spirituale è sbagliato pensare che siamo in pensione, che abbiamo fatto tanto, adesso è il momento di riposarci. Spiritualmente siamo sempre in cammino, possiamo sempre crescere in santità e sapienza, come Maria.
Ringraziamo Dio per i doni che ci ha dato e ci dà e ci darà. Maria è umile, sa di essere una piccola e povera ragazzina e riconosce il grande dono di Dio che l’ha scelta per dare a Gesù un corpo simile al nostro: “Sono la serva del Signore, si compia in me la sua volontà…L’anima mia magnifica il Signore”.
3) Maria Regina della Pace. Il Messaggio di Papa Francesco per la Pace di quest’anno 2017 è intitolato: “La non violenza come stile di una politica per la pace”. 
La pace non si costruisce solo con la diplomazia, i patti internazionali, l‘azione dell’ONU, ma riconoscendo la dignità di ogni creatura umana e convertendo il nostro cuore a sentimenti di pace. Maria Regina della pace perché ha dato alla luce Gesù, che porta la pace al mondo. Ogni bambino che nasce porta la pace nei cuori.
Nei giorni dopo il Natale 2006 sono in Libia, a Sebha, città a 900 km. a sud di Tripoli, nel deserto del Sahara. Il prete padovano Vanni (Giovanni) Bressan lavora da 16 anni come medico dell’ospedale governativo. E’ gradito a tutti e ha fondato la prima parrocchia del deserto libico. Mi dice: “Sono giunto qui nel 1991, c’erano solo due piccoli gruppi cattolici di indiani e sudanesi, ci incontravamo in case private. Da una decina d’anni sono arrivati tanti neri dai paesi a sud del deserto (Camerun, Nigeria, Ciad, Benin, Togo, Burkina Faso), con viaggi avventurosi. Oggi, nella regione di Sebha, su 200.000 libici, i neri sono circa 40.000, forse più della metà cristiani. C’è molto lavoro per i neri: in agricoltura (c’è acqua), come meccanici, falegnami, muratori, ecc. Si fermano qui due-tre anni, quando hanno 3-4mila dollari vanno sulla costa libica per venire in Italia, rischiando la vita”. 
Bressan continua: “La parrocchia l’hanno fatta loro, organizzata loro. Io dò solo la copertura e l’assistenza spirituale, ma fanno tutto loro, si organizzano, inventano servizi ecclesiali e sociali. Io sono l’unico prete, ho 75 anni e faccio anche il medico. La parrocchia ha gruppi diversi: canti, catechismo, assistenza agli anziani, visite delle famiglie e degli ammalati, scuola e oratorio per i bambini, aiuto ai poveri, gruppo biblico, visita ai lontani per ricondurli alla Chiesa, ecc. Sono attivi perché entusiasti della fede. Appartengono alla Legione di Maria e ai carismatici cattolici. Diversi protestanti pentecostali entrano nella Chiesa. Sanno organizzarsi da soli senza prete. Sarebbero una risorsa per la Chiesa italiana. Anni fa sono stato a Londra, un pastore anglicano mi diceva: “Alcune nostre parrocchie si sono rinvigorite perché sono arrivati tanti africani giovani ed entusiasti della fede”. 
Ho avuto la gioia di celebrare il battesimo di un bambino di nigeriani che venivano dal deserto. Mi sono commosso fino alle lacrime per la festa, le preghiere, i canti, le danze, la dolce atmosfera di famiglia che si era creata in quell’unica chiesa del deserto libico. La giovane donna era arrivata pochi mesi prima portando già in seno il bambino. Ha partorito in condizioni di estrema povertà, come la Madonna nel Natale di Gesù. E quel bambino africano mi sembrava proprio Gesù.
         “Pastori, chi avete visto?
          Chi è apparso sulla terra?
          Abbiamo visto  un bambino.
          E gli Angeli che lodavano il Signore”.
(Antifona delle Lodi nel tempo post-natalizio)

Chi non grida piu perde pure Dio



«Quando troverai sopra un albero o per terra un nido con uccellini o uova e la madre che sta a covare, non prenderai la madre sui figli, lascia andar via la madre. Perché tu sia felice e goda lunga vita» (Deut. 22,6-7) – è la stessa promessa fatta a chi “onora il padre e la madre”. Si narra che rabbì Elishà ben Avujà una volta vide un uomo salire in cima a una palma, di sabato, e prendere dal nido la madre insieme con i piccoli. E lo vide scendere illeso. Un altro uomo, invece, dopo il sabato, salì sulla palma, prese i piccoli, e lasciò volar via la madre. Scese, un serpente lo morse e lui morì. Disse Elishà: «Non c'è giustizia, non c'è Giudice». E abiurò. E come fece Elishà a mostrare che aveva perso la fede? Non costruì una filosofia atea: in un giorno di sabato sradicò un ciuffo
d'erba.
Paolo de Benedetti, Uomini e profeti, Radio3
La memoria non è semplice ricordo del passato. Il passato salva solo se è sostenuto dal presente. Il lamento nella Bibbia è preghiera perché il passato non sia morto per sempre. E anche un solo acino d’uva può salvare l’intero grappolo, se riusciamo a vedere la benedizione che contiene
Un’anima profonda della cultura dell’Occidente è il risultato dell’incontro e della tensione vitale tra l’umanesimo greco e quello biblico. Tra il genio filosofico dei greci, indagatore della verità in una libertà assoluta e sciolta daqualsiasi riferimento al passato, alla tradizione o a testi sacri, e l’ethos biblico, più orientato alla vita che alla verità, che guarda avanti, ma non è libero né sciolto dal legame con l’inizio, perché ancorato a un primo Patto e a una promessa imprescindibili. L’origine legava, il futuro slegava, e insieme sostenevano la terra occidentale. Questa cultura plurale, legata e libera, è entrata in una crisi profonda con la modernità, quando ha iniziato a perderecontatto con l’origine e quindi con la storia.
Si è così aperta una stagione inedita di futuro senza radice, che non è approdata, per ora, a una nuova terrapromessa degli uomini liberi, ma al consumismo nichilista del solo presente, senza passato e quindi senza futuro.
«“Chi è costui che viene da Edom, da Bosra con le vesti tinte di rosso, splendido nella sua veste, che avanza nella pienezza della sua forza?”. “Sono io, io che parlo con giustizia, io il grande salvatore”. “Perché rossa è la tua veste e i tuoi abiti come quelli di chi pigia nel torchio?”. “Nel tino ho pigiato da solo”» (Isaia 63,1-3).
Qualcuno passa sotto le mura, vuole entrare a Gerusalemme. La sentinella fa il suo mestiere e grida: “Chi va là?”. Il viandante risponde: “Sono io”. La sentinella è il profeta; chi passa sotto le mura con il vestito insanguinato, come quello chi ha pestato con gli zoccoli l’uva rossa nel tino, è YHWH: “Sono io, Io sono”. È Dio stesso che entra nella città, e il profeta, l’amico di YHWH, gli chiede di rivelare la sua identità. Sono molti i significati nascosti in questo incipit, unico nel suo genere letterario, di uno degli ultimi capitoli del libro di Isaia. Vi è forse l’eco di antichi racconti medio-orientali di duelli tra dei, del dio guerriero, delle sue lotte contro i grandi mostri. La metafora della vigna è, invece, costante in tutto il libro di Isaia, e in generale nella Bibbia. È immagine, prima di tutto, del popolo, delle sue fedeltà e ribellioni. Dio è il vignaiolo, colui che la edifica e coltiva con amore, ed è colui che l’abbandona quando si inselvatichisce.
YHWH con l’abito insanguinato dice alla sentinella di aver combattuto e sconfitto, da solo, i suoi nemici (63,3-6). Ma la sentinella sa che i nemici non sono stati sconfitti, perché sono dentro le mura e dominano il suo popolo. Nella sua Gerusalemme occupata, YWHW non è un Dio vincitore, è un Dio sconfitto, assente, che sembra essersi dimenticato del suo patto e della sua promessa: «Dov'è colui che lo fece salire dal mare con il pastore del suo gregge? Dov'è colui che gli pose nell'intimo il suo santo spirito?» (63, 11-12). «Guarda dal cielo e osserva: Dove sono il tuo zelo e la tua potenza?» (63,15). Dov’è, allora, la tua vittoria? Quale è, per noi, il premio del sangue versato? In questo salmo di lamentazione collettiva, il più potente di tutta la Bibbia, il Dio d’Israele dal nome impronunciabile prende il nome del “padre”: «Tu sei nostro padre, poiché Abramo non ci riconosce e Israele non si ricorda di noi. (…) Tu sei nostro padre; noi siamo argilla e tu colui che ci plasma» (63,16; 64,7).
Diversamente dai popoli vicini, Israele non usava per Dio la parola “padre”, perché troppo forte era il bisognoteologico di distinguere la sua fede diversa e spirituale da quelle naturali e dai riti della fertilità. Ma quel grande dolore collettivo, divenuto preghiera, mise sulla bocca del profeta quella splendida parola del primo lessicofamiliare dell’umanità - che dice, tra l’altro, quanto profondo sia il legame tra i Vangeli e la tradizione biblica, e che cristianesimo senza tutta “la Legge e i profeti” è incomprensibile o solo gnosi. Quella lamentazione collettiva vuole raggiungere direttamente Dio-padre, non le bastano più Abramo né Giacobbe (Israele). La tradizione non è efficace per la fede se è solo ricordo della fede di ieri. La fede biblica è fede storica, si fonda sul passato. Ma YHWH è il “Dio dei vivi”, non il dio dei morti, e quindi è il Dio del qui e ora. La verità della promessa fatta ai patriarchi stanell’esperienza del Dio che è presente e opera oggi. Se YHWH è un Dio vivo e vero, e non un personaggio di racconti lontani e mitologici, è ora che deve dimostrare la sua provvidenza. Israele deve ricordare, ma nessun ricordo, nemmeno il più grande e potente, può sostituire l’incontro personale e comunitario con il Dio presente. Nessuna fede dura se è solo fede ricordata e non attuale, concreta. Nella Bibbia il passato non è semplice ricordo: èmemoria, e la memoria non è nostalgia di una realtà felice, ma persa per sempre. Ogni fede muore quando la memoria diventa ricordo o nostalgia. Nella Bibbia il passato è vivo, non muore per poter diventare presente, ed è l’esperienza della presenza di YHWH, ora, che rende il passato vero. La chioma vive grazie alla radice e la vivificanell’incontro con la luce. È la presenza di YHWH oggi la garanzia che quanto abbiamo vissuto ieri – i dolori, gli amori, i volti – è ancora vivo, anche se “uscito dalla scena di questo mondo”. La fede biblica è allora la corda (fides)che lega nel presente passato e futuro.
Il modo più efficace, forse l’unico possibile, di continuare a credere in una liberazione durante l’oppressione e la disperazione, per poter credere a Dio durante la sua assenza, è l’uso della memoria per provare a rivivere lo stesso“miracolo” del tempo della prima alleanza. La lamentazione è una forma che assume nella Bibbia l’esercizio della memoria. Tramite la lamentazione, gridando e chiedendo ragione a Dio dell’abbandono e della sua assenza nel mondo, si cerca di restare aggrappati a quella corda. Non ci sono limiti alla lamentazione, si può dire e gridare tutto. È tanto più radicale ed estrema quanto più radicale ed estrema è l’esperienza dell’assenza – chi ha paura delle grandi lamentazioni e delle loro angosce non conosce i canti religiosi più sublimi, anche quando ci appaiono maledizione o bestemmia. Finché rimproveriamo Dio per le nostre sventure, finché litighiamo con lui, siamoancora dentro l’orizzonte di quella fede. È la fine del grido che segna l’inizio dell’ateismo muto – il grido di abbandono di Gesù in croce ha fatto dei “perché” senza risposta i fili più robusti di quella stessa fede-corda: «Oh, se squarciassi il cielo e scendessi!» (63,19).
Finché gridiamo e protestiamo perché la vita adulta ci appare tradimento delle promesse del primo incontro della giovinezza, siamo ancora fedeli alla prima vocazione.
Quella grande lamentazione-preghiera collettiva si è appena conclusa, ed ecco arrivare un’altra meravigliosa immagine, presa ancora dalla cultura/coltura della vigna: «Dice il Signore: “Come quando si trova succo in un grappolo, si dice: ‘Non distruggetelo, perché qui c'è una benedizione’. Così io farò per amore dei miei servi”» (65,8). Qui il profeta utilizza un bellissimo detto popolare (“non gettar via un grappolo d’uva se qualche suo acino ha ancora succo, perché in quel poco succo si nasconde un dono di Dio, una benedizione”), e lo incastona nel cuore del suo canto. L’intero grappolo si salva e non viene gettato via grazie alla vita presente in un suo piccolo resto: «Io farò uscire una discendenza da Giacobbe, da Giuda un erede dei miei monti» (65,9).
I grappoli, le vigne, le comunità, si possono salvare grazie alla benedizione di un resto vivo e che ha saputo conservare il suo succo-spirito. Per salvarli dobbiamo solo riuscire a vedere dove si trova il poco succo vivo, guardarlo, e poi attendere la benedizione. Un umile proverbio popolare, simile ai molti che venivano raccontati dalla nostra gente contadina, quelli che ci hanno insegnato i nostri nonni per trasmetterci il valore e il rispetto del pane, delle piante, degli uccellini. Della vita che va salvata sempre, dall’inizio e fino alla fine. La Bibbia è un tesoro dall’immenso valore antropologico anche per queste incastonature, per questi
cammei di umanità, parole semplici e preziose di contadini, pastori, poveri, che diventano parole di YHWH.
Benedizione (Brk) è quella che l’angelo di Dio dona a Giacobbe-Israele ferito dopo il grande combattimento dello Yabbok (Genesi 32). Benedizione è quella donata a chi salva il grappolo d’uva rinsecchito, ma ancora vivo, grazie al succo nascosto in pochi acini, forse in uno solo. La stessa benedizione. Non incontriamo tutti i giorni angeli che ci combattano e poi ci benedicano – e quando li incontriamo non li riconosciamo (quasi) mai. Ma tutti possiamo salvare, ogni giorno, un “grappolo d’uva” se riusciamo a vedere il resto di vita che permane in mezzo a ciò che appare secco e morto, dentro e attorno a noi. Avremo finalmente imparato il mestiere del vivere il giorno in cui scopriremo che la benedizione che si nasconde nelle ferite che ci insegnano la vita, gli uomini, Dio, è la stessa benedizione dell’acino d’uva salvato. Buon anno a tutti!

Primi Vespri della Solennità di Maria Santissima Madre di Dio e “Te Deum” di ringraziamento per l’anno trascorso. Omelia di Papa Francesco


Buon Anno
Happy New Year
Bonne Année
Feliz Año Nuevo
Feliz Ano Novo

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 In Cristo Dio non si è mascherato da uomo, si è fatto uomo e ha condiviso in tutto la nostra condizione.

Dans le Christ, Dieu ne s’est pas déguisé en homme, il s’est fait homme et a partagé en tout notre condition. 


In Christ, God did not put on a human mask; instead he became man and shared completely in our human condition. 


Dios no se disfrazó de hombre, se hizo hombre y compartió en todo nuestra condición. 


 Em Cristo, Deus não Se mascarou de homem, fez-Se homem e partilhou em tudo a nossa condição.

***

Primi Vespri della Solennità di Maria Santissima Madre di Dio e “Te Deum” di ringraziamento per l’anno trascorso. Papa Francesco: "Abbiamo creato una cultura che, da una parte, idolatra la giovinezza cercando di renderla eterna, ma, paradossalmente, abbiamo condannato i nostri giovani a non avere uno spazio di reale inserimento, perché lentamente li abbiamo emarginati dalla vita pubblica obbligandoli a emigrare o a mendicare occupazioni che non esistono o che non permettono loro di proiettarsi in un domani" 

[Text: Italiano, Français, English, Español, Português]
Alle ore 17 di oggi, nella Basilica Vaticana, il Santo Padre Francesco presiede i primi Vespri della Solennità di Maria Santissima Madre di Dio, cui fa seguito l’esposizione del Santissimo Sacramento, il canto del tradizionale inno Te Deum di ringraziamento a conclusione dell’anno civile, e la Benedizione Eucaristica.

Omelia del Santo Padre
"Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge, per riscattare quelli che erano sotto la Legge, perché ricevessimo l’adozione a figli" (Gal 4,4-5).
Risuonano con forza queste parole di san Paolo. In modo breve e conciso ci introducono nel progetto che Dio ha per noi: che viviamo come figli.

Tutta la storia della salvezza trova eco qui: colui che non era soggetto alla legge decise, per amore, di perdere ogni tipo di privilegio (privus legis) ed entrare attraverso il luogo meno atteso per liberare noi che, sì, eravamo sotto la legge. E la novità è che decise di farlo nella piccolezza e nella fragilità di un neonato; decise di avvicinarsi personalmente e nella sua carne abbracciare la nostra carne, nella sua debolezza abbracciare la nostra debolezza, nella sua piccolezza coprire la nostra. In Cristo Dio non si è mascherato da uomo, si è fatto uomo e ha condiviso in tutto la nostra condizione. Lungi dall’essere chiuso in uno stato di idea o di essenza astratta, ha voluto essere vicino a tutti quelli che si sentono perduti, mortificati, feriti, scoraggiati, sconsolati e intimiditi. Vicino a tutti quelli che nella loro carne portano il peso della lontananza e della solitudine, affinché il peccato, la vergogna, le ferite, lo sconforto, l’esclusione non abbiano l’ultima parola nella vita dei suoi figli.
Il presepe ci invita a fare nostra questa logica divina. Una logica non centrata sul privilegio, sulle concessioni, sui favoritismi; si tratta della logica dell’incontro, della vicinanza e della prossimità. Il presepe ci invita ad abbandonare la logica delle eccezioni per gli uni ed esclusioni per gli altri. Dio viene Egli stesso a rompere la catena del privilegio che genera sempre esclusione, per inaugurare la carezza della compassione che genera l’inclusione, che fa splendere in ogni persona la dignità per la quale è stata creata. Un bambino in fasce ci mostra la potenza di Dio che interpella come dono, come offerta, come fermento e opportunità per creare una cultura dell’incontro.
Non possiamo permetterci di essere ingenui. Sappiamo che da varie parti siamo tentati di vivere in questa logica del privilegio che ci separa-separando, che ci esclude-escludendo, che ci rinchiude-rinchiudendo i sogni e la vita di tanti nostri fratelli.
Oggi, davanti al bambin Gesù, vogliamo ammettere di avere bisogno che il Signore ci illumini, perché non sono poche le volte in cui sembriamo miopi o rimaniamo prigionieri di un atteggiamento marcatamente integrazionista di chi vuole per forza far entrare gli altri nei propri schemi. Abbiamo bisogno di questa luce, che ci faccia imparare dai nostri stessi errori e tentativi al fine di migliorarci e superarci; di questa luce che nasce dall’umile e coraggiosa consapevolezza di chi trova la forza, ogni volta, di rialzarsi e ricominciare.
Mentre un altro anno volge al termine, sostiamo davanti al presepe, per ringraziare di tutti i segni della generosità divina nella nostra vita e nella nostra storia, che si è manifestata in mille modi nella testimonianza di tanti volti che anonimamente hanno saputo rischiare. Ringraziamento che non vuole essere nostalgia sterile o vano ricordo del passato idealizzato e disincarnato, bensì memoria viva che aiuti a suscitare la creatività personale e comunitaria perché sappiamo che Dio è con noi. 
Dio è con noi.
Sostiamo davanti al presepe per contemplare come Dio si è fatto presente durante tutto questo anno e così ricordarci che ogni tempo, ogni momento è portatore di grazia e di benedizione. Il presepe ci sfida a non dare nulla e nessuno per perduto. Guardare il presepe significa trovare la forza di prendere il nostro posto nella storia senza lamentarci e amareggiarci, senza chiuderci o evadere, senza cercare scorciatoie che ci privilegino. Guardare il presepe implica sapere che il tempo che ci attende richiede iniziative piene di audacia e di speranza, come pure di rinunciare a vani protagonismi o a lotte interminabili per apparire.
Guardare il presepe è scoprire come Dio si coinvolge coinvolgendoci, rendendoci parte della sua opera, invitandoci ad accogliere con coraggio e decisione il futuro che ci sta davanti.
Guardando il presepe incontriamo i volti di Giuseppe e di Maria. Volti giovani carichi di speranze e di aspirazioni, carichi di domande. Volti giovani che guardano avanti con il compito non facile di aiutare il Dio-Bambino a crescere. Non si può parlare di futuro senza contemplare questi volti giovani e assumere la responsabilità che abbiamo verso i nostri giovani; più che responsabilità, la parola giusta è debito, sì, il debito che abbiamo con loro. Parlare di un anno che finisce è sentirci invitati a pensare a come ci stiamo interessando al posto che i giovani hanno nella nostra società.
Abbiamo creato una cultura che, da una parte, idolatra la giovinezza cercando di renderla eterna, ma, paradossalmente, abbiamo condannato i nostri giovani a non avere uno spazio di reale inserimento, perché lentamente li abbiamo emarginati dalla vita pubblica obbligandoli a emigrare o a mendicare occupazioni che non esistono o che non permettono loro di proiettarsi in un domani. Abbiamo privilegiato la speculazione invece di lavori dignitosi e genuini che permettano loro di essere protagonisti attivi nella vita della nostra società. Ci aspettiamo da loro ed esigiamo che siano fermento di futuro, ma li discriminiamo e li “condanniamo” a bussare a porte che per lo più rimangono chiuse.
Siamo invitati a non essere come il locandiere di Betlemme che davanti alla giovane coppia diceva: qui non c’è posto. Non c’era posto per la vita, per il futuro. Ci è chiesto di prendere ciascuno il proprio impegno, per poco che possa sembrare, di aiutare i nostri giovani a ritrovare, qui nella loro terra, nella loro patria, orizzonti concreti di un futuro da costruire. Non priviamoci della forza delle loro mani, delle loro menti, delle loro capacità di profetizzare i sogni dei loro anziani (cfr Gl 3,1). Se vogliamo puntare a un futuro che sia degno di loro, potremo raggiungerlo solo scommettendo su una vera inclusione: quella che dà il lavoro dignitoso, libero, creativo, partecipativo e solidale (cfr Discorso in occasione del conferimento del Premio Carlo Magno, 6 maggio 2016).
Guardare il presepe ci sfida ad aiutare i nostri giovani perché non si lascino disilludere davanti alle nostre immaturità, e stimolarli affinché siano capaci di sognare e di lottare per i loro sogni. Capaci di crescere e diventare padri e madri del nostro popolo.
Davanti all’anno che finisce, come ci fa bene contemplare il Dio-Bambino! È un invito a tornare alle fonti e alle radici della nostra fede. In Gesù la fede si fa speranza, diventa fermento e benedizione: «Egli ci permette di alzare la testa e ricominciare, con una tenerezza che mai ci delude e che sempre può restituirci la gioia» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 3).
Traduzione in lingua francese
«Lorsqu’est venue la plénitude des temps, Dieu a envoyé son Fils, né d’une femme et soumis à la loi de Moïse, afin de racheter ceux qui étaient soumis à la Loi et pour que nous soyons adoptés comme fils» (Ga 4, 4-5).
Ces paroles de saint Paul résonnent avec force. De manière brève et concise, elles nous introduisent dans le projet que Dieu a pour nous: que nous vivions comme fils. Toute l’histoire du salut trouve ici un écho: celui qui n’était pas sujet de la loi décida, par amour, de perdre tout type de privilège (privus legis) et d’entrer par le lieu le moins attendu pour nous libérer nous qui, oui, étions sous la loi. Et la nouveauté est qu’il décida de le faire dans la petitesse et dans la fragilité d’un nouveau-né ; il décida de s’approcher personnellement et, dans sa chair d’embrasser notre chair, dans sa faiblesse d’embrasser notre faiblesse, dans sa petitesse de couvrir la nôtre. Dans le Christ, Dieu ne s’est pas déguisé en homme, il s’est fait homme et a partagé en tout notre condition. Loin d’être enfermé dans un état d’idée ou d’essence abstraite, il a voulu être proche de tous ceux qui se sentent perdus, mortifiés, blessés, découragés, affligés et intimidés. Proche de tous ceux qui dans leur chair portent le poids de l’éloignement et de la solitude, afin que le péché, la honte, les blessures, le découragement, l’exclusion n’aient pas le dernier mot dans la vie de ses enfants.
La crèche nous invite à faire nôtre cette logique divine. Une logique qui n’est pas centrée sur le privilège, sur les concessions, sur les favoritismes ; il s’agit de la logique de la rencontre, du voisinage et de la proximité. La crèche nous invite à abandonner la logique des exceptions pour les uns et des exclusions pour les autres. Dieu vient lui-même rompre la chaîne du privilège qui produit toujours l’exclusion, pour inaugurer la caresse de la compassion qui produit l’inclusion, qui fait resplendir en toute personne la dignité pour laquelle elle a été créée. Un enfant dans les langes nous montre la puissance de Dieu qui interpelle comme don, comme offrande, comme ferment et opportunité pour créer une culture de la rencontre.
Nous ne pouvons pas nous permettre d’être naïfs. Nous savons que de différentes parts nous sommes tentés de vivre dans cette logique du privilège qui nous sépare-en séparant, qui nous exclue-en excluant, qui nous enferme-en enfermant les rêves et la vie de tant de nos frères.
Aujourd’hui, devant l’enfant de Bethléem, nous voulons admettre d’avoir besoin que le Seigneur nous éclaire, parce que souvent nous semblons myopes ou nous demeurons prisonniers de l’attitude intégrationniste bien marquée de celui qui veut par force faire entrer les autres dans ses propres schémas. Nous avons besoin de cette lumière, qui nous fait apprendre de nos propres erreurs et tentatives afin de nous améliorer et de nous dépasser; de cette lumière qui naît de l’humble et courageuse conscience de celui qui trouve la force, chaque fois, de se relever et de recommencer.
Alors qu’une année de plus arrive à son terme, arrêtons-nous devant la crèche, pour remercier de tous les signes de la générosité divine dans notre vie et dans notre histoire, qui s’est manifestée de mille manières dans le témoignage de nombreux visages qui, anonymement, ont su risquer. Remerciement qui ne veut pas être nostalgie stérile ou vain souvenir du passé idéalisé et désincarné, mais bien mémoire vivante qui aide à susciter la créativité personnelle et communautaire parce que nous savons que Dieu est avec nous.
Arrêtons-nous devant la crèche pour contempler comment Dieu s’est fait présent durant toute cette année et nous rappeler ainsi que chaque époque, chaque moment est porteur de grâce et de bénédiction. La crèche nous provoque à ne donner rien ni personne pour perdu. Regarder la crèche signifie trouver la force de prendre notre place dans l’histoire sans nous plaindre et nous attrister, sans nous fermer ou nous évader, sans chercher de faux-fuyants qui nous privilégient. Regarder la crèche implique de savoir que le temps qui nous attend demande des initiatives pleines d’audace et d’espérance, ainsi que de renoncer à vouloir vainement être le premier ou à des luttes interminables pour paraître.
Regarder la crèche c’est découvrir comment Dieu s’implique en nous associant, en nous rendant partie prenante de son oeuvre, en nous invitant à accueillir avec courage et décision l’avenir qui est devant nous.
Regardant la crèche nous rencontrons les visages de Joseph et de Marie. Visages jeunes chargés d’espérance et d’aspirations, chargés de questions. Visages jeunes qui regardent en avant avec la tâche difficile d’aider l’Enfant-Dieu à grandir. On ne peut parler d’avenir sans contempler ces visages jeunes et assumer la responsabilité que nous avons envers nos jeunes ; plus que responsabilité, la parole juste est dette, oui, la dette que nous avons envers eux. Parler d’une année qui finit c’est nous sentir invités à penser comment nous nous sommes intéressés à la place que les jeunes ont dans notre société.
Nous avons créé une culture qui, d’une part, idolâtre la jeunesse cherchant à la rendre éternelle; mais, paradoxalement, nous avons condamné nos jeunes à ne pas avoir d’espace de réelle insertion, parce que nous les avons lentement marginalisés de la vie publique, les obligeant à émigrer ou à mendier des occupations qui n’existent pas ou qui ne leur permettent pas de se projeter dans un lendemain. Nous avons privilégié la spéculation au lieu de travaux dignes et honnêtes qui leur permettent d’être des protagonistes actifs dans la vie de notre société. Nous attendons d’eux et exigeons qu’ils soient ferment d’avenir, mais nous les discriminons et les «condamnons» à frapper à des portes qui de plus demeurent fermées.
Nous sommes invités à ne pas être comme l’aubergiste de Bethléem qui devant le jeune couple disait: ici il n’y a pas de place. Il n’y avait pas de place pour la vie, pour l’avenir. Il nous est demandé de prendre chacun notre engagement, même s’il semble peu de chose, d’aider nos jeunes à retrouver, ici sur leur terre, dans leur patrie, des horizons concrets d’un avenir à construire. Ne nous privons pas de la force de leurs mains, de leurs esprits, de leurs capacité de prophétiser les rêves de leurs anciens (cf. Jl 3, 1). Si nous voulons viser un avenir qui soit digne d’eux, nous ne pourrons l’atteindre qu’en pariant sur une vraie inclusion : celle qui donne le travail digne, libre, créatif, participatif et solidaire (cf. Discours à l’occasion de la remise du Prix Charlemagne, 6 mai 2016). Regarder la crèche nous provoque à aider nos jeunes pour qu’ils ne se laissent pas décevoir devant nos immaturités, et les stimuler afin qu’ils soient capables de rêver et de lutter pour leurs rêves. Capables de grandir et de devenir pères et mères de notre peuple.
Devant l’année qui finit, comme cela fait du bien de contempler l’Enfant-Dieu! C’est une invitation à revenir aux sources et aux racines de notre foi. En Jésus la foi se fait espérance, elle devient ferment et bénédiction : « Il nous permet de relever la tête et de recommencer, avec une tendresse qui ne nous déçoit jamais et qui peut toujours nous rendre la joie» (Exhot. Apost. Evangelii gaudium, n. 3).
Traduzione in lingua inglese
When the time had fully come, God sent forth his Son, born of a woman, born under the law, to redeem those who were under the law, so that we might receive adoption as sons” (Gal 4:4-5).
These words of Saint Paul are powerful. In a brief and concise way, they introduce God’s plan for us: he wants us to live as his sons and daughters. The whole of salvation history echoes in these words. He who was not subject to the law chose, out of love, to set aside every privilege and to appear in the most unexpected place in order to free us who were under the law. What is so surprising is that God accomplishes this through the smallness and vulnerability of a newborn child. He decides personally to draw near to us and in his flesh to embrace our flesh, in his weakness to embrace our weakness, in his littleness to envelop our littleness. In Christ, God did not put on a human mask; instead he became man and shared completely in our human condition. Far from remaining an idea or an abstract essence, he wanted to be close to all those who felt lost, demeaned, hurt, discouraged, inconsolable and frightened. Close to all those who in their bodies carry the burden of separation and loneliness, so that sin, shame, hurt, despair and exclusion would not have the final word in the lives of his sons and daughters.
The manger invites us to make this divine “logic” our own. It is not a logic centred on privilege, exemptions or favours but one of encounter and closeness. The manger invites us to break with the logic of exceptions for some and exclusion for others. God himself comes to shatter the chains of privilege that always cause exclusion, in order to introduce the caress of compassion that brings inclusion, that makes the dignity of each person shine forth, the dignity for which he or she was created. A child in swaddling clothes shows us the power of God who approaches us as a gift, an offering, a leaven and opportunity for creating a culture of encounter.
We cannot allow ourselves to be naïve. We know that we are tempted in various ways to adopt the logic of privilege that separates, excludes and closes us off, while separating, excluding and closing off the dreams and lives of so many of our brothers and sisters.
Today, before the little Child of Bethlehem, we should acknowledge that we need the Lord to enlighten us, because all too often we end up being narrow-minded or prisoners of all-or-nothing attitude that would force others to conform to our own ideas. We need this light, which helps us learn from our mistakes and failed attempts in order to improve and surpass ourselves; this light born of the humble and courageous awareness of those who find the strength, time and time again, to rise up and start anew.
As another year draws to an end, let us pause before the manger and express our gratitude to God for all the signs of his generosity in our life and our history, seen in countless ways through the witness of those people who quietly took a risk. A gratitude that is no sterile nostalgia or empty recollection of an idealized and disembodied past, but a living memory, one that helps to generate personal and communal creativity because we know that God is with us.
Let us pause before the manger to contemplate how God has been present throughout this year and to remind ourselves that every age, every moment is the bearer of graces and blessings. The manger challenges us not to give up on anything or anyone. To look upon the manger means to find the strength to take our place in history without complaining or being resentful, without closing in on ourselves or seeking a means of escape, looking for shortcuts in our own interest. Looking at the manger means recognizing that the times ahead call for bold and hope-filled initiatives, as well as the renunciation of vain self-promotion and endless concern with appearances.
Looking at the manger means seeing how God gets involved by involving us, making us part of his work, inviting us to welcome the future courageously and decisively.
Looking at the manger, we see Joseph and Mary, their young faces full of hopes and aspirations, full of questions. Young faces that look to the future conscious of the difficult task of helping the God-Child to grow. We cannot speak of the future without reflecting on these young faces and accepting the responsibility we have for our young; more than a responsibility, the right word would be debt, yes, the debt we owe them. To speak of a year’s end is to feel the need to reflect on how concerned we are about the place of young people in our society.
We have created a culture that idolizes youth and seeks to make it eternal. Yet at the same time, paradoxically, we have condemned our young people to have no place in society, because we have slowly pushed them to the margins of public life, forcing them to migrate or to beg for jobs that no longer exist or fail to promise them a future. We have preferred speculation over dignified and genuine work that can allow young people to take active part in the life of society. We expect and demand that they be a leaven for the future, but we discriminate against them and “condemn” them to knock on doors that for the most part remain closed.
We are asked to be something other than the innkeeper in Bethlehem who told the young couple: there is no room here. There was no room for life, for the future. Each of us is asked to take some responsibility, however small, for helping our young people to find, here in their land, in their own country, real possibilities for building a future. Let us not be deprived of the strength of their hands, their minds, and their ability to prophesy the dreams of their ancestors (cf. Jl 2:28). If we wish to secure a future worthy of them, we should do so by staking it on true inclusion: one that provides work that is worthy, free, creative, participatory and solidary (cf. Address at the Conferral of the Charlemagne Prize, 6 May 2016).
Looking at the manger challenges us to help our young people not to become disillusioned by our own immaturity, and to spur them on so that they can be capable of dreaming and fighting for their dreams, capable of growing and becoming fathers and mothers of our people.
As we come to the end of this year, we do well to contemplate the God-Child! Doing so invites us to return to the sources and roots of our faith. In Jesus, faith becomes hope; it becomes a leaven and a blessing. “With a tenderness which never disappoints, but is always capable of restoring our joy, Christ makes it possible for us to lift up our heads and to start anew” (Evangelii Gaudium, 3)
Traduzione in lingua spagnola
«Cuando se cumplió el tiempo establecido, Dios envió a su Hijo, nacido de una mujer y sujeto a la ley, para redimir a los que estaban sometidos a la ley y hacernos hijos adoptivos» (Ga 4,4-5).
Resuenan con fuerza estas palabras de san Pablo. De manera breve y concisa nos introducen en el proyecto que Dios tiene para con nosotros: que vivamos como hijos. Toda la historia de salvación encuentra eco aquí: el que no estaba sujeto a la ley, decidió por amor, perder todo tipo de privilegio (privus legis) y entrar por el lugar menos esperado para liberar a los que sí estábamos bajo la ley. Y, la novedad es que decidió hacerlo en la pequeñez y en la fragilidad de un recién nacido; decidió acercarse personalmente y en su carne abrazar nuestra carne, en su debilidad abrazar nuestra debilidad, en su pequeñez cubrir la nuestra. En Jesucristo, Dios no se disfrazó de hombre, se hizo hombre y compartió en todo nuestra condición. Lejos de estar encerrado en un estado de idea o de esencia abstracta, quiso estar cerca de todos aquellos que se sienten perdidos, avergonzados, heridos, desahuciados, desconsolados o acorralados. Cercano a todos aquellos que en su carne llevan el peso de la lejanía y de la soledad, para que el pecado, la vergüenza, las heridas, el desconsuelo, la exclusión, no tengan la última palabra en la vida de sus hijos.
El pesebre nos invita a asumir esta lógica divina. Una lógica que no se centra en el privilegio, en las concesiones ni en los amiguismos; se trata de la lógica del encuentro, de la cercanía y la proximidad. El pesebre nos invita a dejar la lógica de las excepciones para unos y las exclusiones para otros. Dios viene Él mismo a romper la cadena del privilegio que siempre genera exclusión, para inaugurar la caricia de la compasión que genera la inclusión, que hace brillar en cada persona la dignidad para la que fue creado. Un niño en pañales nos muestra el poder de Dios interpelante como don, como oferta, como fermento y oportunidad para crear una cultura del encuentro.
No podemos permitirnos ser ingenuos. Sabemos que desde varios lados somos tentados para vivir en esta lógica del privilegio que nos aparta-apartando, que nos excluye-excluyendo, que nos encierra-encerrando los sueños y la vida de tantos hermanos nuestros.
Hoy frente al niño de Belén queremos admitir la necesidad de que el Señor nos ilumine, porque no son pocas las veces que parecemos miopes o quedamos presos de una actitud altamente integracionista de quien quiere hacer entrar por la fuerza a otros en sus propios esquemas. Necesitamos de esa luz que nos haga aprender de nuestros propios errores e intentos a fin de mejorar y superarnos; de esa luz que nace de la humilde y valiente conciencia del que se anima, una y otra vez, a levantarse para volver a empezar.
Al terminar otra vez un año, nos detenemos frente al pesebre, para dar gracias por todos los signos de la generosidad divina en nuestra vida y en nuestra historia, que se ha manifestado de mil maneras en el testimonio de tantos rostros que anónimamente han sabido arriesgar. Acción de gracias que no quiere ser nostalgia estéril o recuerdo vacío del pasado idealizado y desencarnado, sino memoria viva que ayude a despertar la creatividad personal y comunitaria porque sabemos que Dios está con nosotros.
Nos detenemos frente al pesebre para contemplar como Dios se ha hecho presente durante todo este año y así recordarnos que cada tiempo, cada momento es portador de gracia y de bendición. El pesebre nos desafía a no dar nada ni a nadie por perdido. Mirar el pesebre es animarnos a asumir nuestro lugar en la historia sin lamentarnos ni amargarnos, sin encerrarnos o evadirnos, sin buscar atajos que nos privilegien. Mirar el pesebre entraña saber que el tiempo que nos espera requiere de iniciativas audaces y esperanzadoras, así como de renunciar a protagonismos vacíos o a luchas interminables por figurar.
Mirar el pesebre es descubrir como Dios se involucra involucrándonos, haciéndonos parte de Su obra, invitándonos a asumir el futuro que tenemos por delante con valentía y decisión.
Mirando el pesebre nos encontramos con los rostros de José y María. Rostros jóvenes cargados de esperanzas e inquietudes, cargados de preguntas. Rostros jóvenes que miran hacia delante con la no fácil tarea de ayudar al Niño-Dios a crecer. No se puede hablar de futuro sin contemplar estos rostros jóvenes y asumir la responsabilidad que tenemos para con nuestros jóvenes; más que responsabilidad, la palabra justa es deuda, sí, la deuda que tenemos con ellos. Hablar de un año que termina es sentirnos invitados a pensar como estamos encarando el lugar que los jóvenes tienen en nuestra sociedad.
Hemos creado una cultura que, por un lado, idolatra la juventud queriéndola hacer eterna pero, paradójicamente, hemos condenando a nuestros jóvenes a no tener un espacio de real inserción, ya que lentamente los hemos ido marginando de la vida pública obligándolos a emigrar o a mendigar por empleos que no existen o no les permiten proyectarse en un mañana. Hemos privilegiado la especulación en lugar de trabajos dignos y genuinos que les permitan ser protagonistas activos en la vida de nuestra sociedad. Esperamos y les exigimos que sean fermento de futuro, pero los discriminamos y «condenamos» a golpear puertas que en su gran mayoría están cerradas.
Somos invitados a no ser como el posadero de Belén que frente a la joven pareja decía: aquí no hay lugar. No había lugar para la vida, para el futuro. Se nos pide asumir el compromiso que cada uno tiene, por poco que parezca, de ayudar a nuestros jóvenes a recuperar, aquí en su tierra, en su patria, horizontes concretos de un futuro a construir. No nos privemos de la fuerza de sus manos, de sus mentes, de su capacidad de profetizar los sueños de sus mayores (cf. Jl 3, 1). Si queremos apuntar a un futuro que sea digno para ellos, podremos lograrlo sólo apostando por una verdadera inclusión: esa que da el trabajo digno, libre, creativo, participativo y solidario (cf. Discurso en ocasión de la entrega del Premio Carlomagno, 6 de mayo de 2016).
Mirar el pesebre nos desafía a ayudar a nuestros jóvenes para que no se dejen desilusionar frente a nuestras inmadureces y estimularlos a que sean capaces de soñar y de luchar por sus sueños. Capaces de crecer y volverse padres de nuestro pueblo.
Frente al año que termina qué bien nos hace contemplar al Niño-Dios. Es una invitación a volver a las fuentes y raíces de nuestra fe. En Jesús la fe se hace esperanza, se vuelve fermento y bendición: «Él nos permite levantar la cabeza y volver a empezar, con una ternura que nunca nos desilusiona y que siempre puede devolvernos la alegría» (cf. Exhort. ap. Evangelii gaudium, 3).
Traduzione in lingua portoghese
«Quando chegou a plenitude do tempo, Deus enviou seu Filho, nascido de uma mulher, nascido sob o domínio da Lei, para resgatar os que se encontravam sob o domínio da Lei, a fim de recebermos a adoção de filhos» (Gal 4, 4-5).
Hoje ressoam com uma força particular estas palavras de São Paulo, que, de forma breve e concisa, nos introduzem no plano que Deus tem para nós: quer que vivamos como filhos. Ecoa aqui toda a história da salvação: Aquele que não estava sujeito à Lei decidiu, por amor, deixar de lado qualquer tipo de privilégio (privus legis) e entrar pelo lugar menos esperado, a fim de nos libertar a nós que estávamos – nós, sim – sob a Lei. E a novidade é que decidiu fazê-lo na pequenez e fragilidade dum recém-nascido; decidiu aproximar-Se pessoalmente e, na sua carne, abraçar a nossa carne; na sua fraqueza, abraçar a nossa fraqueza; na sua pequenez, superar a nossa. Em Cristo, Deus não Se mascarou de homem, fez-Se homem e partilhou em tudo a nossa condição. Longe de se encerrar num estado de ideia ou essência abstrata, quis estar perto de todos aqueles que se sentem perdidos, mortificados, feridos, desanimados, abatidos e amedrontados; perto de todos aqueles que, na sua carne, carregam o peso do afastamento e da solidão, para que o pecado, a vergonha, as feridas, o desconforto, a exclusão não tenham a última palavra na vida dos seus filhos.
O presépio convida-nos a assumir esta lógica divina: não uma lógica centrada no privilégio, em favores, no compadrio; mas a lógica do encontro, da aproximação e da proximidade. O presépio convida-nos a abandonar a lógica feita de exceções para uns e exclusões para outros. O próprio Deus veio quebrar a cadeia do privilégio que gera sempre exclusão, para inaugurar a carícia da compaixão que gera a inclusão, que faz resplandecer em cada pessoa a dignidade para que foi criada. Um menino envolto em panos mostra-nos a força de Deus que interpela como dom, como oferta, como fermento e oportunidade para criar uma cultura do encontro.
Não podemos dar-nos ao luxo de ser ingénuos; sabemos que nos vem, de vários lados, a tentação de viver nesta lógica do privilégio que, ao separar, nos separa; ao excluir, nos exclui; ao confinar os sonhos e a vida de muitos dos nossos irmãos, nos confina.
Queremos hoje, diante do Menino de Belém, admitir a necessidade que temos que o Senhor nos ilumine, pois tantas vezes parecemos míopes ou ficamos prisioneiros da atitude decididamente egocentrista de quem quer forçar os outros a entrar nos próprios esquemas. Precisamos da luz que nos faça aprender com os nossos próprios erros e tentativas, a fim de melhorar e nos vencermos; aquela luz que nasce da consciência humilde e corajosa de quem, todas as vezes, encontra força para se erguer e recomeçar.
Quando chega ao fim mais um ano, paremos diante do presépio para agradecer todos os sinais da generosidade divina na nossa vida e na nossa história, que se manifestou de inúmeras maneiras no testemunho de tantos rostos que anonimamente souberam arriscar. Agradecimento esse, que não quer ser nostalgia estéril nem vã recordação do passado idealizado e desencarnado, mas memória viva que ajude a suscitar a criatividade pessoal e comunitária, pois sabemos que Deus está connosco.
Paremos diante do presépio a contemplar como Deus Se fez presente durante todo este ano, lembrando-nos assim de que cada tempo, cada momento é portador de graça e bênção. O presépio desafia-nos a não dar nada e ninguém como perdido. Ver o presépio significa encontrar a força de ocupar o nosso lugar na história, sem nos perdermos em lamentos nem azedumes, sem nos fecharmos nem evadirmos, sem procurar atalhos que nos privilegiem. Ver o presépio implica saber que o tempo que nos espera requer iniciativas cheias de audácia e esperança, bem como a renúncia a vãos protagonismos ou a lutas intermináveis para sobressair.
Ver o presépio é descobrir como Deus Se envolve envolvendo-nos, tornando-nos parte da sua obra, convidando-nos a acolher com coragem e decisão o futuro que temos à nossa frente.
Ao ver o presépio, deparamo-nos com os rostos de José e Maria: rostos jovens, cheios de esperanças e aspirações, cheios de incertezas; rostos jovens, que perscrutam o futuro com a tarefa não fácil de ajudar o Deus-Menino a crescer. Não se pode falar de futuro sem contemplar estes rostos jovens e assumir a responsabilidade que temos para com os nossos jovens; mais do que responsabilidade, a palavra justa é dívida: sim, a dívida que temos para com eles. Falar de um ano que termina, é sentirmo-nos convidados a pensar como estamos a interessar-nos com o lugar que os jovens têm na nossa sociedade.
Criamos uma cultura que por um lado idolatra a juventude procurando torná-la eterna, mas por outro, paradoxalmente, condenamos os nossos jovens a não possuir um espaço de real inserção, porque lentamente os fomos marginalizando da vida pública, obrigando-os a emigrar ou a mendigar ocupação que não existe ou que não lhes permite projetar o amanhã. Privilegiamos a especulação em vez de trabalhos dignos e genuínos que lhes permitam ser protagonistas ativos na vida da nossa sociedade. Esperamos deles e exigimos que sejam fermento de futuro, mas discriminamo-los e «condenamo-los» a bater a portas que, na maioria delas, permanecem fechadas.
Somos convidados a não ser como o estalajadeiro de Belém que, à vista do jovem casal, dizia: aqui não há lugar. Não havia lugar para a vida, para o futuro. A cada um de nós é pedido para assumir o compromisso próprio – por mais insignificante que possa parecer – de ajudar os nossos jovens a encontrar aqui na sua terra, na sua pátria, horizontes concretos de um futuro a construir. Não nos privemos da força das suas mãos, das suas inteligências, das suas capacidades de profetizar os sonhos dos seus idosos (cf. Jl 3, 1). Se queremos apontar para um futuro que seja digno deles, só o poderemos alcançar apostando numa verdadeira inclusão: a inclusão resultante do trabalho digno, livre, criativo, participativo e solidário (cf. Discurso na atribuição do Prémio Carlos Magno, 6 de maio de 2016).
Ver o presépio desafia-nos a ajudar os nossos jovens para não ficarem desiludidos à vista das nossas imaturidades, e a estimulá-los para que sejam capazes de sonhar e lutar pelos seus sonhos; capazes de crescer e tornar-se pais e mães do nosso povo.
Olhando o ano que acaba, como nos faz bem contemplar o Deus-Menino! É um convite a voltar às fontes e às raízes da nossa fé. Em Jesus, a fé faz-se esperança, torna-se fermento e bênção: «Ele permite-nos levantar a cabeça e recomeçar, com uma ternura que nunca nos defrauda e sempre nos pode restituir a alegria» (Exort. ap. Evangelii gaudium, 3).
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Al termine della Celebrazione dei Vespri in Basilica, è previsto che il Santo Padre compia una breve visita al Presepio allestito all’obelisco in Piazza San Pietro.

1 Gennaio 2017. Maria Santissima Madre di Dio. Commento audio al Vangelo.



Il Verbo, assunto in sé ciò che era nostro, 
lo offrì in sacrificio e lo distrusse con la morte. 
Poi rivestì noi della sua condizione, secondo quanto dice l'Apostolo: 
Bisogna che questo corpo corruttibile si vesta di incorruttibilità 
e che questo corpo mortale si vesta di immortalità.
Veramente umana era la natura che nacque da Maria, secondo le Scritture, 
e reale, cioè umano, era il corpo del Signore; 
vero, perché del tutto identico al nostro; 
infatti Maria è nostra sorella 
poiché tutti abbiamo origine in Adamo.
L'uomo in questa intima unione del Verbo ricevette una ricchezza enorme: 
dalla condizione di mortalità divenne immortale; 
mentre era legato alla vita fisica, divenne partecipe dello Spirito; 
anche se fatto di terra, è entrato nel regno del cielo. 

Sant'Atanasio

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Siamo madri di Cristo quando lo portiamo nel nostro cuore e nel nostro corpo 
per mezzo del divino amore e della pura e sincera coscienza; 
lo generiamo attraverso le opere sante, 
che devono risplendere agli altri in esempio... 
Oh, come è santo e come è caro, piacevole, umile, pacifico, 
dolce, amabile e desiderabile sopra ogni cosa, 
avere un tale fratello e un tale figlio, il Signore Nostro Gesù Cristo!

San Francesco d'Assisi

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