mercoledì 7 dicembre 2016

Il più bello tra i figli dell’uomo




(Inos Biffi) Dio poteva non creare il mondo, e la pienezza del suo essere e della sua beatitudine sarebbe rimasta intatta e inalterata. Il mondo, infatti, non accresce Dio e non colma dei vuoti che, altrimenti, si riscontrerebbero. E tuttavia un preciso motivo anzitutto risalta a illustrare la ragione della creazione. Ed è la gloria di Dio, che dal suo intimo insondabile promana e si manifesta alla nostra ammirata riflessione e contemplazione. Il mondo è la proclamazione di Dio. Come diciamo nel salmo: «I cieli narrano la gloria di Dio, l’opera delle sue mani annuncia il firmamento. Il giorno al giorno ne affida il racconto e la notte alla notte ne trasmette notizia» (Salmi, 19, 2-3).Ma occorre procedere e avvertire che dietro il firmamento e il suo luccicare si trova non un’incontenibile distesa di luce o un anonimo flusso fiammeggiante, ma lo «Splendore della gloria del Padre» — come lo chiama l’inno di sant’Ambrogio all’aurora — cioè la persona del Figlio di Dio, generato eternamente dal Padre come «Luce da Luce». La «Gloria» è un tema fondamentale nella Scrittura, per dire la realtà personale di Dio, per professarne la presenza, che attrae gioiosamente, come avviene della luce. Vengono in mente i versi sublimi de La Pentecoste di Manzoni: «Come la luce rapida / Piove di cosa in cosa, / E i color vari suscita / Dovunque si riposa».
Ora, lo scintillio diffuso nell’universo procede da una fonte dal nome chiaro e inconfondibile, e cioè dal Verbo di Dio, generato dal Padre come aurora fin dall’eternità, fattosi carne, morto sulla croce e quindi trasfigurato per tutti i secoli.
L’universo converge e si ritrova nel Figlio divino, che al mondo di tutti tempi e di tutti gli spazi conferisce bellezza e grazia. Neppure un frammento di bello va trascurato o ignorato, dal momento che in esso è lo stesso Gesù che si ritrova. Certo questo spessore cristico della bellezza è ben altro che un luccicore superficiale, che un estetismo superficialmente emotivo. Accedere a questo campo del bello e concorrere alla sua creazione e farne oggetto di gusto e di fruizione è compito estremamente impegnativo.
Chi vi è riuscito con esito incomparabile e inimitato è stato Dante con il suo Paradiso. Non c’è luogo in cui più sia stata effusa maggiormente la luce della bellezza e in cui essa possa più abbondantemente respirarsi. Ma quanto riconosciamo all’opera letteraria, lo affermiamo non meno per la luce che brilla nelle cattedrali, tra i suoi archi, le sue colonne, le sue policrome vetrate, e anche là dove l’arte si fa scultura e il luccicore assume la forma delle figure. Procedendo per questa via ci imbattiamo nella «scienza divina», dove a primeggiare non è l’argomentazione sul mistero, con la sua logica e le sue connessioni, ma la bellezza del mistero stesso, che provoca stupore e diffonde incanto, insieme suscitando la lode e la preghiera e stimolando la contemplazione. Sullo sfondo di queste riflessioni si comprende perché il culto divino richieda l’ordine; perché sarebbe stridente una liturgia da cui venga bandita la bellezza e il decoro. Indubbiamente, da non confondere con la sfarzosità dell’artifizio, quando l’estrosità diviene capricciosa e incontrollata. Quanto è antico lo stile romanico, eppure, nella sua linearità, non cessa di attrarre e di essere eloquente. Con questo non si vuol fare per nulla l’elogio all’antico permanente nella sua staticità. L’arte nella Chiesa ha conosciuto epoche e stili diversi, ciascuno col suo messaggio e col suo differente dono estetico. Ma sembra che alcuni canoni non possano mutare, senza che venga compromessa la bellezza teologica. Capita non di rado di trovarsi in una chiesa detta moderna, dove l’interpretazione e l’assestamento risulta oscuro e intricato; dove ci si trova, invece che raccolti e inclinati alla preghiera, smarriti e dissipati, specialmente se i segni biblici — dai quali la preghiera del Popolo di Dio è alimentata — siano assenti o complicati o concepiti con tale singolarità e sofisticazione, che solo alcuni spiriti eletti li potrebbero e capire e apprezzare.
Va aggiunto, in ogni caso, che non può mai mancare la catechesi che illustra i santi segni, ne disvela il linguaggio a essi affidato e, così, concorra alla loro comprensione e al loro gusto. E, conclusivamente, a far incontrare e riconoscere in essi «Il più bello tra i figli dell’uomo» (Salmi, 44, 3).

L'Osservatore Romano