domenica 31 luglio 2016

GMG 2019 a PANAMA!!!

<br>


XXXI Giornata Mondiale della Gioventù (27-31 luglio 2016) – La recita dell’Angelus al “Campus Misericordiae” di Kraków. La GMG 2019 sarà in Panamà
Sala stampa della Santa Sede
Cari fratelli e sorelle,
al termine di questa Celebrazione, desidero unirmi a tutti voi nel rendere grazie a Dio, Padre di infinita misericordia, perché ci ha concesso di vivere questa Giornata Mondiale della Gioventù. Ringrazio il Cardinale Dziwisz e il Cardinale Ryłko per le parole che mi hanno rivolto, e soprattutto per il lavoro e la preghiera con cui hanno preparato questo evento; e ringrazio tutti coloro che hanno collaborato per la sua buona riuscita. Un immenso “grazie” va a voi, cari giovani! Avete riempito Cracovia con l’entusiasmo contagioso della vostra fede. San Giovanni Paolo II ha gioito dal Cielo, e vi aiuterà a portare dappertutto la gioia del Vangelo.
In questi giorni abbiamo sperimentato la bellezza della fraternità universale in Cristo, centro e speranza della nostra vita. Abbiamo ascoltato la sua voce, la voce del Buon Pastore, vivo in mezzo a noi. Egli ha parlato al cuore di ciascuno di voi: vi ha rinnovati con il suo amore, vi ha fatto sentire la luce del suo perdono, la forza della sua grazia. Vi ha fatto sperimentare la realtà della preghiera. E’ stata una “ossigenazione” spirituale perché possiate vivere e camminare nella misericordia una volta ritornati ai vostri Paesi e alle vostre comunità.
Qui accanto all’altare c’è l’immagine della Vergine Maria venerata da san Giovanni Paolo II nel Santuario di Calvaria. Lei, la nostra Madre, ci insegna in che modo l’esperienza vissuta qui in Polonia può essere feconda; ci dice di fare come lei: non disperdere il dono ricevuto, ma custodirlo nel cuore, perché germogli e porti frutto, con l’azione dello Spirito Santo. In questo modo ognuno di voi, con i suoi limiti e le sue fragilità, potrà essere testimone di Cristo là dove vive, in famiglia, in parrocchia, nelle associazioni e nei gruppi, negli ambienti di studio, di lavoro, di servizio, di svago, dovunque la Provvidenza vi guiderà nel vostro cammino.
La Provvidenza di Dio sempre ci precede. Pensate che ha già deciso quale sarà la prossima tappa di questo grande pellegrinaggio iniziato nel 1985 da san Giovanni Paolo II! E perciò vi annuncio con gioia che la prossima Giornata Mondiale della Gioventù – dopo le due a livello diocesano – sarà nel 2019 a Panamá.
Con l’intercessione di Maria, invochiamo lo Spirito Santo perché illumini e sostenga il cammino dei giovani nella Chiesa e nel mondo, perché siate discepoli e testimoni della Misericordia di Dio.
Recitiamo ora insieme la preghiera dell’Angelus.


***
Santa Messa per la Giornata Mondiale della Gioventù Indirizzo di saluto al Santo Padre al termine della Celebrazione Eucaristica da parte del Card. Stanisław Ryłko, Presidente del Pontificio Consiglio per i Laici

Santo Padre!
La XXXI Giornata Mondiale della Gioventù volge al termine. Davanti a Lei ci sono schiere di giovani convenuti dagli angoli più remoti del pianeta. È una bellissima icona di una Chiesa giovane, piena di gioia e di entusiasmo missionario. Ecco, Santo Padre, i giovani che hanno accolto il suo invito a partecipare a questa GMG particolare, perché unita alla celebrazione del Giubileo straordinario della misericordia, all’insegna della beatitudine evangelica: “Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia” (Mt 5,7).
Grazie, Santo Padre, di aver scelto proprio Cracovia, come luogo della celebrazione di questa Giornata Mondiale! È la città che ospita il Santuario di Gesù Misericordioso, meta di numerosi pellegrini provenienti da tutto il mondo. È anche la città di due grandi apostoli della Divina misericordia: Santa Faustina Kowalska e San Giovanni Paolo II, che hanno accompagnato spiritualmente e guidato i giovani durante questa GMG.
Santo Padre, qui a Cracovia abbiamo vissuto giornate stupende e indimenticabili. Per i giovani qui presente la GMG ci ha fatto scoprire la misericordia come cuore pulsante del Vangelo e del cristianesimo, perché il cristianesimo e la misericordia sono la stessa cosa! Gesù misericordioso, è passato veramente in mezzo a noi e il suo sguardo pieno di tenero amore ha toccato profondamente i nostri cuori. (...) Quante decisioni importanti sono maturate nei giovani in questi giorni: la scelta di un matrimonio cristiano, del sacerdozio o della vita consacrata! Quanta gioia i giovani hanno sperimentato nello stare insieme come fratelli, testimoniando così al mondo che è bello essere cristiani, che vale la pena seguire Cristo nella propria vita!
Ora, al termine di queste giornate trascorse a Cracovia, con il cuore colmo di gioia, questi giovani desiderano esprimerLe, Santo Padre, la loro filiale devozione e la loro profonda gratitudine. Grazie di aver presieduto questa GMG! Grazie per le parole che ha voluto rivolgere ai giovani, parole che sanno tener desta la speranza e dare a ciascuno rinnovato coraggio. (...)
Santo Padre, è giunto ora il momento dell’invio missionario. Nell’agosto 2002, durante l’inaugurazione del Santuario di Gesù Misericordioso proprio qui a Cracovia, San Giovanni Paolo II disse: “Bisogna accendere questa scintilla di grazia di Dio. Bisogna trasmettere al mondo questo fuoco della misericordia. (...)
 Oggi, in questo “campo della misericordia”, le parole del Santo Pontefice trovano compimento profetico! (...) 
Santo Padre, benedica questo popolo di discepoli e missionari di Cristo. Sono pronti a partire e a portare sino ai confini della terra la fiamma del suo amore misericordioso, simboleggiata dalle fiaccole che ora Lei consegnerà a cinque giovani provenienti dai cinque continenti.
Grazie, Santo Padre!
Card. Stanisław Ryłko
Presidente
Pontificio Consiglio per i Laici

Papa Francesco a Cracovia e la farfalla




La felicità è come una farfalla: se l’insegui non riesci mai a prenderla, ma se ti metti tranquillo può anche posarsi su di te.
(Nathaniel Hawthorne)

Il nome del figlio-speranza



di Luigino Bruni

Esarhaddon, re delle terre, non temere! Io sono Istar di Arbela./ Attendo di consegnare i tuoi nemici in mano tua./ Io sono Istar di Arbela. Cammino davanti a te e dietro di te./ Non temere.
Oracolo cuneiforme babilonese, VII sec. a.C.

I profeti sono uomini e donne dell’insuccesso. La loro parola e la loro esistenza ci donano una mappa etica e spirituale per orientarci nell’ora del fallimento. Ci ricordano che l’insuccesso è la nostra condizione ordinaria. Le conquiste che otteniamo sono sempre troppo piccole e passeggere. Noi tendiamo a consolarci coi traguardi raggiunti, a ridimensionare le domande e gli ideali per accomodarli dentro i confini del nostro possibile. E così smettiamo di crescere e di far crescere il mondo.

I profeti no: continuano ad annunciare salvezze più grandi e più giuste di noi, e preferiscono il proprio insuccesso, e persino quello di Dio, all’addomesticamento della verità della parola che devono annunciare. Nessuna terra raggiunta è la terra promessa, nessun figlio avvera in nostri sogni (guai a noi se li avverasse!) e stiamo ancora aspettando di veder arrivare chi ci ha promesso che un giorno sarebbe tornato. È questa la speranza non-vana offertaci dai profeti, che non è vana proprio perché è più grande dei nostri successi, e dei loro.
Lo splendido racconto dell’incontro tra Isaia e Ahaz, re di Giuda, avviene quando l’impero Assiro stava conquistando il regno del Nord (Israele o Efraim) e gli altri piccoli regni vicini, e minacciava anche Gerusalemme. Ci troviamo quindi dentro una guerra, una gravissima crisi politica. Isaia profetizza al re l’insuccesso del tentativo di occupazione dei suoi nemici («Ciò non avverrà e non sarà!»: 7,7).

Lo invita a credere. E lo rassicura: «Non temere e il tuo cuore non si abbatta» (7,4). «Non temere…», altra splendida espressione che ci porta nel cuore di Isaia, e nel cuore del Vangelo. Molto importante nell’economia di questo racconto è il "segno" (’ôt) che YHWH invita Ahaz a chiedergli. I segni che accompagnano la missione dei profeti sono cose molto serie. Non hanno nulla a che vedere con i "segni" che le donne e gli uomini religiosi hanno sempre chiesto e continuano a chiedere, espressione di magia o idolatria e, nel migliore dei casi, di una fede immatura.

Il segno è invece un elemento fondamentale della vocazione e dell’attività del profeta. La profezia è sempre un fatto storico, si compie all’interno della vita ordinaria del popolo. In mezzo alla crisi, alle catastrofi, alle gioie, alla politica, all’economia del proprio tempo. I segni dicono la concretezza della profezia, che usa anche le parole dei fatti, perché le parole parlate non bastano.

Questi segni non sono scommesse con Dio, né tecniche per dimostrare al pubblico il proprio talento profetico, che invece erano e sono il principale esercizio dei falsi profeti e i "Simone mago" di tutti i tempi. Il falso profeta manipola il sentimento religioso della gente, perché il "Dio" di tutti i falsi profeti è solo uno strumento di lavoro, un mezzo per ottenere guadagni e potere. I segni dei profeti sono l’opposto di tutto ciò. I veri profeti non amano dare i segni che il popolo reclama sempre, perché sanno che la gente finisce per trasformare il profeta nell’autore dei segni, che è la morte più comune dei veri profeti.
«Il Signore parlò ancora ad Ahaz: "Chiedi per te un segno"» (7,11). Il segno profetico è un atto di fede, quindi un rapporto di fiducia. Non chiederlo non è quindi espressione di umiltà né di pietà - è soltanto mancanza di fede. Ahaz per giustificare il suo rifiuto invoca il divieto di "tentare Dio" (Esodo 17,2). Ricorre alla stessa parola di YHWH per cercare di trasformare la sfiducia in fede.

Atteggiamento, questo, molto diffuso, in particolare nei momenti di prova e di crisi. È comunissimo nei capi e nei responsabili di comunità, che citano la Legge, il Vangelo, gli Statuti per coprire scelte che nascono soltanto dalla sfiducia verso una persona o verso la stessa comunità, e così non si assumono responsabilità e costi. Isaia vede subito l’intenzione vera del re, e lo rimprovera con le parole migliori: «Non vi basta stancare gli uomini, perché ora vogliate stancare [molestare] anche il mio Dio?» (7,13).

Come a dirgli: tu non stai solo offendendo me ("gli uomini") trattandomi da falso profeta; stai anche rinnegando la tua fede-fiducia nell’Alleanza. Ahaz fu un re malvagio: «Non fece ciò che era retto agli occhi di YHWH». In particolare fu un re idolatra e infanticida: «Sacrificò e offrì incenso sulle alture… Bruciò i suoi bambini, secondo il costume abbominevole dei pagani» (2 Re 16,2-4). Un idolatra non poteva ascoltare le parole del profeta.
Ma la profezia non si ferma davanti ai nostri peccati. Isaia risponde al rifiuto di Ahaz, con un autentico capolavoro, che ci lascia ancora oggi senza fiato: «Il Signore stesso vi darà un segno. Ecco: la giovane donna concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Immanuel» (Isaia 7,14). Il bambino, l’Immanuel, il Dio-con-noi, non fu il segno di Ahaz: fu il segno di Isaia. Il fallimento della profezia per il rifiuto di un re idolatra ha provocato una delle profezie più belle di tutti i tempi. Non è raro che le nostre parole più belle siano le seconde, quelle che riusciamo a dire sul dolore per il fallimento delle prime. Ahaz non credette che il suo Dio lo avrebbe salvato, e diede inizio al declino politico del suo regno, che culminerà due secoli più tardi l’esilio in Babilonia.

In questo trialogo tra Isaia Ahaz e YHWH, inizia allora a svelarsi la grammatica della parola principale del libro di Isaia: la fede. La fede biblica è prima di tutto una parola umana. Capirla significa penetrare la vita umana, e, se vogliamo, capire anche chi è Dio. La prima semantica della parola fede è fiducia. È credere in una parola, che è sempre parola di una persona, e poi agire di conseguenza. Nell’umanesimo biblico la fede è la prima opera. Ahaz non credette, e agì. Maria credette, e agì.

Nella Bibbia anche Dio crede: ha fiducia negli uomini, crede in noi, in te, in me. È l’Alleanza la grande categoria biblica della fede, dove non soltanto la nostra risposta d’amore è preceduta dall’amore di YHWH, ma dove anche la nostra fede viene dopo la fede di Dio in noi. Chiunque ha avuto un figlio e lo ha amato davvero può capire questa dimensione della fede-fiducia. Il primo amore per un figlio è credere in lui, donargli fiducia, una fede-fiducia che dura tutta la vita e lo rigenera mille volte alla prima vita.
Anche la non-fede è azione. Quando non si crede in una parola, in un progetto, in una promessa, in un futuro, si agisce in modo che quella parola, quel progetto, quella promessa non si compiano. L’avveramento dei segni della fede dipende dalla libertà di colui nel quale riponiamo la nostra fiducia, e quindi è sempre incerto. Per questo le profezie della non-fede si adempiono molto più frequentemente di quelle della fede, perché si auto-avverano: la nostra sfiducia agisce e produce l’evento sperato. Non sempre, ma spesso. Il cadavere scenderà lungo il fiume se più a monte abbiamo contribuito all’assassinio.

Tante comunità, imprese, famiglie, lavori, finiscono perché qualcuno, in un preciso momento, non ha creduto che potessero avere un futuro diverso e possibile. E tante non sono morte e vivono perché qualcuno, in un preciso momento, ha creduto, e ha agito. Perché ha creduto almeno una persona. C’è una dimensione splendida di questa fede che ci viene svelata da un dettaglio posto nell’apertura del capitolo: «Il Signore disse a Isaia: "Va’ incontro ad Ahaz, tu e tuo figlio Seariasùb"» (7,3). Isaia va a quell’appuntamento decisivo con un figlio. Il significato del nome del bambino è "un-resto-tornerà": un piccolo gruppo del popolo si salverà, qualcuno tornerà dall’esilio. Avremo ancora una storia di salvezza da vivere e da raccontare. Non è finita.
Nella Bibbia il nome scelto per un figlio è sempre un messaggio. Il primo messaggio che Isaia porta ad Ahaz è suo figlio. I profeti sanno usare queste parole incarnate, e così hanno reso possibile che un giorno potessimo intuire il mistero di una parola-Figlio diventare bambino. Come Geremia, che mentre Gerusalemme è assediata e lui era stato imprigionato dal re per aver profetizzato che la città sarebbe stata conquistata da Nabucodonosor, acquista un pezzo di terra: «Compra il mio campo, che si trova ad Anatòt» (Geremia 32,7).

Il profeta annuncia l’esilio, e mentre lo annuncia compra un terreno, per dire con un segno che l’esilio non sarà per sempre. Che un resto tornerà a casa. Tutti fuggono dall’impresa in crisi, uno resta e investe; tutti escono dalla comunità, e qualcuno resta, qualcuno torna nella casa vuota, per ridire la fede nella prima promessa. Niente parla di più di futuro di un campo comprato in patria in tempo di esilio, di qualcuno che torna mentre tutti scappano. Nulla parla più di un figlio che all’alba della crisi più grande si chiama "un-resto-tornerà". È questo figlio-speranza che accompagna la profezia del bambino-Immanuel. Due bambini, lo stesso messaggio di vita.
Non sappiamo chi fosse l’Immanuel di Isaia. Forse Ezechia, il re fedele, figlio dell’infedele Ahaz e della regina Abiyah. Forse, per il teologo medioevale Rashi, un terzo figlio di Isaia. Forse un bambino di una giovane donna (’almâ), ancora vergine nel momento della profezia, che stava vicino ad Isaia mentre profetizzava. Forse qualcosa ancora di altro e di diverso. Matteo e dopo di lui tanti cristiani vi hanno visto l’annuncio di Maria di Nazareth e di suo figlio. La profezia biblica è ancora viva perché si è rivelata più grande delle nostre interpretazioni, anche di quelle più alte. E continua ad essere viva finché la lasciamo aperta, plurale, povera, e l’amiamo con gratuità.

Gli ’almâ e l’Immanuel di Isaia erano una giovane donna e un bambino con un nome di fiducia. Perché nelle crisi, in tutte le crisi, si può ancora sperare in una salvezza finché una donna darà alla luce un bambino.

l.bruni@lumsa.it

Contro il pensiero ateo lo spirito vince sempre



di Dario Antiseri
Mentre il secolo scorso si era aperto con movimenti filosofici – si pensi al positivismo, al pragmatismo, al marxismo e al persistente idealismo – che pretendevano di cancellare ogni spazio del sacro e di estirpare la stessa possibilità della domanda di senso religioso della vita, il nostro secolo si è aperto con una acuta consapevolezza dei fallimenti teorici e politici degli "assoluti terrestri". E questo nell’orizzonte di una riconquista razionale della idea di "contingenza umana".

Certo, la domanda sul senso religioso della vita e della storia umana sarà improponibile se altri saranno riusciti a dimostrare razionalmente che la fede in un Dio trascendente non è altro che impostura, alienazione, non-senso, una universale nevrosi ossessiva, oppio del popolo, eccetera. Ed ecco, allora, che se si riesce a mostrare, tramite un uso critico della ragione, che tali prospettive sono infondate, subito si riapre lo spazio sulla fede, in cui emerge razionalmente significativa l’inestirpabile domanda sul senso religioso della vita.

E questo è esattamente il punto in cui si è giunti, dopo una progressiva erosione razionale delle pretese fallimentari della "dea-Ragione". Ha scritto Norberto Bobbio che «proprio perché le grandi risposte non sono alla portata della nostra mente, l’uomo rimane un essere religioso, nonostante tutti i processi di demitizzazione, di secolarizzazione, tutte le affermazioni della morte di Dio che caratterizzano l’età moderna e ancor più quella contemporanea». In altri termini, la filosofia non salva. La "Grande Domanda" – dice ancora Bobbio – «è una richiesta di senso, che rimane senza risposta, o meglio che rinvia ad una risposta che mi pare difficile chiamare ancora filosofica». E questo «spiega la forza della religione. Non è sufficiente dire: la religione c’è, ma non dovrebbe esserci. C’è: perché c’è? Perché la scienza dà risposte parziali e la filosofia pone solo domande senza dare le risposte».

Ebbene, è proprio richiamandosi a questi pensieri di Bobbio che Angela Arsena propone, nella sua introduzione, interessanti linee di interpretazione del saggio di Ernest Naville La filosofia e la religione (Stamen, pp.108, euro 18). Naville (1816-1909), uno dei più conosciuti filosofi tra Ottocento e Novecento, i cui libri vennero tradotti nelle principali lingue europee, ai nostri giorni è stato ripreso in seria considerazione in quanto filosofo della scienza a motivo del fatto che con la sua Logique de l’hypothèse (1880) anticipa in tutti gli argomenti essenziali l’ipotetismo fallibilista del razionalismo critico della Scuola popperiana. Ma parimenti di grande rilievo sono i suoi scritti di filosofia della religione, come risulta evidente anche dal breve saggio curato dall’ Arsena.

I rapporti della filosofia con la religione – dice Naville – possono essere concepiti in tre maniere: la separazione, l’opposizione, l’armonia. La separazione tra la filosofia e la religione – precisa subito l’autore – non è possibile : «È un modo di vedere contrario all’idea della filosofia che, in quanto scienza universale, non può lasciare da parte un fatto così considerevole come la religione. Le credenze religiose e la loro influenza sugli individui sono dei fenomeni che sussistono qualunque sia l’origine che attribuiamo loro; una scienza completa è tenuta ad osservarle e a cercarne la spiegazione».

Se la separazione tra religione e filosofia – argomenta Naville – è stata l’idea dominante del XVII secolo, la loro opposizione è stata una delle tesi sostenute a più gran voce dagli scrittori francesi del secolo successivo. Inconciliabili con la religione sono sia il materialismo che l’idealismo: due forme senza veli di ateismo, incapaci di esibire fondamenti teorici di una qualche consistenza, e non in grado di spiegare rispettivamente il pensiero e l’irriducibile e ostinato fatto della libertà dell’essere umano. Fuori da ogni dubbio, fa presente Naville, «l’opposizione di fatto delle due grandi correnti della filosofia e della fede religiosa è incontestabile. Ma una opposizione di fatto non è sempre un’opposizione di diritto. Il materialismo e l’idealismo non sono tutta la filosofia. Queste due dottrine sono, al contrario, due filosofe false, se è vero come io penso, che sono impotenti nel risolvere il problema dell’universo».

Problema dell’universo e della realtà umana che, secondo Naville, trovano invece soluzione nello spiritualismo, corrente filosofica che pone all’origine del mondo l’atto libero e sovrano di una volontà spirituale e fonda, sulla base di una assoluta causa creatrice, il solo monismo conciliabile con la fede religiosa e con la libertà dell’uomo sul cui libero arbitrio soltanto è possibile edificare l’ordine morale. In breve: «C’è piena armonia tra la fede cristiana e lo spiritualismo, e il valore filosofico dello spiritualismo conferma – afferma Naville – la fede dei cristiani […] La filosofia è la parte della ragione nella ricerca di Dio».

In un contesto filosofico in gran parte diverso da quello attuale Naville, con indipendenza intellettuale e coraggio morale, intese combattere forme di dogmatismo e fatalismo filosofico, "grandi racconti" frutto di una ragione presuntuosa che, sulle effettive conquiste della scienza, aveva costruito una errata immagine sia della ricerca scientifica che della filosofia. Quella di Naville è una concezione della filosofia come sentinella in guardia dall’assalto di quegli "assoluti terrestri" proposti e difesi come altrettante negazioni dell’Assoluto trascendente. È in questo modo, dunque, che ai suoi tempi, Naville cercò di ristabilire la possibilità razionale della scelta di fede.

Ne I Racconti di Chassidim, Martin Buber parla del Rabbi Mendel di Kozk, che «stupì alcuni uomini dotti suoi ospiti con questa domanda: "Dove abita Dio?". Quelli risero di lui: "Che dite? Se tutto il mondo è pieno della sua gloria!". Ma egli rispose da sé alla propria domanda: "Dio abita dove lo si fa entrare"».

Avvenire

Chi sei tu che mi sgozzi?

jacques-hamel-1469552766

Sono un pochino vergognoso della mia reazione davanti alla morte di Padre Jacques Hamel, l’anziano prete francese che è stato sgozzato durante la messa da due uomini al grido “Allahu Akbar!”. Il suo martirio mi ha colpito profondamente e dolorosamente. Allora perché mi vergogno? Perché nonostante io cerchi di seguire bene le notizie riguardo i movimenti islamisti in tutto il mondo e sappia dei massacri di congregazioni intere in Nigeria, delle moltitudini di persone musulmane e non sterminate nel Medio Oriente, dei tanti miei connazionali americani e delle centinaia di innocenti europei stroncati in bagni di sangue e fuoco, non sono mai entrato del tutto dentro l’esperienza di terrore e dolore delle vittime.
Non è che tutte queste notizie non mi abbiano lasciato pieno di sgomento, paura, rabbia, sdegno e tristezza. È che, comunque, le vittime stesse rimanevano per me tutto sommato anonime, senza volti precisi con i quali identificarmi. Ci voleva proprio la morte di questo prete, invece, per mettermi nei panni delle vittime, guardando insieme a Padre Jacques dritto nei volti dei suoi assassini. E adesso, con questa nuova scossa al mio animo, mi sorge il bisogno di offrire un tentativo di risposta alla domanda che, con quell’immagine in testa, mi assale: “Chi siete voi che piantate un coltello nella mia gola per bagnare l’altare di Cristo col mio sangue? Perché mi fate questo?”.
Per rispondere a questa domanda che mi brucia dentro, mi rifaccio alla mia esperienza con l’Islam cominciata quando avevo 23 anni, passandone quattro in Medio Oriente da solo, i primi due anni in una comunità dei Fratelli Musulmani in Marocco. Durante gli anni di seminario ho preso una laurea in islamistica, studiando sotto grandi docenti come Padre Samir Khalil Samir e Padre Maurice Borrmans. Ho poi vissuto sei anni in Cisgiordania. Il primo ricordo che mi aiuta a rispondere alla domanda risale all’anno 1990. Passavo l’estate in Egitto e un giorno al Cairo, un venerdì, ho assistito a una grande manifestazione di Fratelli Musulmani e di tanti altri che urlavano con una passione tremenda la loro richiesta che l’Egitto fosse completamente sottomesso al diritto coranico, la Sharia. Vedendo la violenza di quei volti, la loro furia praticamente incontenibile, mi sono chiesto: “Perché così tanta veemenza e violenza?”.
Non dovevo cercare molto, perché la risposta stava in qualcosa che, in un’altra forma, avevo sperimentato anche io. L’Islam non crede nel peccato originale. La persona umana nasce perfetta, per natura è perfettamente musulmana. Cosa le succede allora? Una società corrotta la corrompe, producendo diseguaglianza, ingiustizia, rabbia, odio e invidia. Ma Allah ci ha dato una legge perfetta per governare perfettamente tutta la società umana. Se tutta la società umana fosse sottomessa a questa legge perfetta, non ci sarebbe più infelicità sulla faccia della terra. Vivremmo già qui in un paradiso terrestre. Ho in mente i tanti combattenti talebani provenienti da tutto il mondo che, di fronte alla domanda “Perché sei venuto fin qua da casa tua?” rispondevano, “Sono venuto per vivere un paradiso terrestre”.
Anche io sono cresciuto con un’istruzione analoga. Il mondo sarebbe perfetto se solo potessimo eliminare i malvagi mentitori che impediscono l’applicazione della giustizia. Che violenza genera nel cuore questo modo di concepire il mondo! Si finisce per dire: “Sono infelice a causa vostra! I cattivi potenti stanno rovinando tutto! Facciamo qualunque cosa per cancellarli. E sarà pace”.
Dicono che Islam è una religione della pace. Certo, la parola “islam”, che vuole dire “sottomissione”, deriva dalla radice “salam”, che, appunto, vuole dire “pace”. Ma cosa intende l’Islam con la parola “pace”? È semplice. Quando la società umana intera sarà sottomessa a un governo che applica senza modifiche la legge sociale divina e perfetta rivelata attraverso Maometto, cioè la Sharia, ci sarà grande pace. Ci offre la pace attraverso la sottomissione: in questo, sì, l’Islam è una religione di pace.
C’è chi dice che tutti questi che compiono gesti terroristici sono dei pazzi. Non mi sembra. Anche io ero tentato da una ideologia così. Non è pazzia. Se con la mia forza (aiutato da Allah) potessi eliminare ogni male umano, farei qualunque cosa per raggiungere questo scopo.
Il calendario islamico comincia con la Egira, cioè dal momento in cui Maometto lasciò la Mecca per recarsi nella città che oggi si chiama Medina, dove fu accolto, per pre-accordi, come un legislatore. E lì fu la prima volta che una società umana – compresi anche i tanti ebrei e pagani – fu sottomessa alla legge di Dio, e, così dicono i musulmani, (dopo l’eliminazione degli ebrei perché non si sottomettevano) ci fu davvero pace.
Allora, “Chi sei tu che mi sgozzi? Perché lo fai?”. Perché speri che con questo sacrificio, con questa violenza tu possa portare il mondo a sottomettersi, e perciò a ottenere la pace. Fratello, la pace non viene da lì, viene da un’altra parte. La pace è un dono che Dio vuole darci, uno per uno, non come imposizione, ma come frutto di un rapporto con Lui. Vieni con me, fratello, alla croce di Cristo dove il peccato e la morte sono stati sconfitti! Vieni con me a vedere la vera pace che ti porto, col mio sangue mischiato con quello di Cristo.

I giovani non sono il futuro, ma il presente



di ENZO BIANCHI 

31 luglio 2016

Da anni i più attenti conoscitori del mondo giovanile vanno ripetendo che siamo di fronte a un cambiamento radicale nella difficile arte di trasmettere alla generazione successiva i principi ritenuti fondamentali per affrontare il duro mestiere di vivere e di vivere in società. Non solo perché sono crollate le ideologie e i sistemi sociali che ad esse si ispiravano, ma ancor più perché alla consueta diffidenza che ogni generazione nutre per il patrimonio di valori che quella precedente ha da trasmettere, si è aggiunta la convinzione che non c'è più nemmeno un patrimonio da ricevere: la cultura globalizzata dominante sembra affermare che il mondo inizi sempre da capo, che l'umanità non possieda capisaldi condivisi, che una scelta equivalga all'altra e che domani si possa «rottamare» quello che abbiamo acquisito oggi.
Del resto è significativo che alla consueta e magari stantia domanda rivolta ai ragazzi - «cosa vorresti fare da grande?» - la risposta non consista ormai più nell'uno o nell'altro mestiere o professione bensì in un sempre più maggioritario e tragicamente uniforme: «Vorrei avere molti soldi per fare ciò che mi piace».
In questo contesto, cosa dire alle decine di migliaia di giovani cristiani che si ritrovano in questi giorni in Polonia all'indomani di un'impressionante serie di stragi in tutto il mondo culminate, per noi in Europa, con il brutale assassinio di un anziano prete da parte di due loro coetanei?
Cosa rispondere a quanti di loro di fronte al male nel mondo si chiedono, come ha fatto papa Francesco ad Auschwitz, «dov'è Dio?» «Dio abita dove lo facciamo entrare», risponde un detto chassidico, ed è una verità che per i cristiani ha preso carne in Gesù di Nazareth, venuto tra i suoi e accolto solo dagli ultimi. D'altro canto, la domanda lancinante ne genera da sempre un'altra, ancor più decisiva per noi: «Dov'è l'uomo?». Dov'è l'umanità quando altri esseri umani la calpestano e la negano? Dov'è l'uomo quando il grido del povero è soffocato nel sangue?
Allora ai giovani si potrebbero suggerire alcune indicazioni di senso o, meglio, qualche traccia che loro stessi dovrebbero trasformare in sentiero verso una pienezza di vita.
La prima, forse decisiva, è che, a prescindere dagli entusiasmanti raduni oceanici, non esistono «i giovani», esiste ciascuno e ciascuna di loro e, accanto a loro, quella rete reale e non virtuale di rapporti umani intessuti tra coetanei e non, affini o meno. E che in questo tessuto - che possiamo chiamare società o comunità umana - ogni persona è lì, con la sua unicità che, se non è messa e custodita in una relazione di solidarietà e comunione, muore per asfissia. Ciascuno è lì con la propria responsabilità, la capacità di rispondere alle sollecitazioni che l'altro gli pone, con la consapevolezza che da ogni gesto, parola, azione può derivare la vita o la morte di chi ci sta accanto. La seconda, a prima vista deludente, è che non è vero che ai giovani appartiene il futuro, essi non sono «il futuro» della società o della chiesa: sono parte attiva del presente che appartiene a loro come a tutti. Sta anche a loro far sì che, a partire da questo presente, si creino le condizioni affinché ciascuno abbia la possibilità di vivere con dignità, già ora e poi anche in futuro.
Pensavamo che per far questo potessimo lasciar perdere i grandi sistemi di pensiero, religiosi o no, e rifugiarci in un quotidiano plasmabile e riplasmabile a nostro piacimento, ma da anni la violenza qui in occidente mira a colpire lo scontato delle nostre esistenze, i nostri piccoli o grandi interessi personali.
Va quindi recuperata la grandezza dello stare insieme per libera scelta consapevole, la difficile bellezza della convivenza stabile, la durata dei rapporti, la fedeltà che implica fiducia, la volontà di edificare insieme la casa comune.
Non sono impegni solo per i giovani, sono sfide che attendono tutti e che anzi richiedono una forte fraternità intergenerazionale: abbiamo tanto insistito in questi ultimi decenni sul valore della libertà – isolandolo da ogni altra istanza etica e declinandolo come licenza arbitraria priva di ogni limite - e siamo così giunti a non saper più che farcene perché abbiamo dimenticato l'uguaglianza vissuta non come livellamento al basso ma come autentica fraternità, come legame tra persone che non si sono scelte eppure condividono l'origine, la casa, il cibo e magari anche i sogni e il futuro. Sapremo, adulti, anziani e giovani, ricominciare insieme la meravigliosa, esigente avventura dell'umanità riconciliata?
Pubblicato su: La Stampa

***

Il Dio amoroso di Francesco e gli dei cruenti di guerra e di potere 
 La Repubblica 
(Eugenio Scalfari) Le notizieche si accavallano una con l'altra sono innumerevoli, tutte drammatiche, tutte dolorose e frustranti; ma quella che tocca più profondamente delle altre il cuore e la mente delle persone consapevoli viene da Cracovia e da Birkenau e riguarda l'incontro di papa Francesco con i giovani di tutto il mondo e con i campi di sterminio di 75 anni fa. (...)






***

(Gian Guido Vecchi) Nel Sessantotto era uno studente di sinistra. E anche lui fu tentato dal radicalismo. Il cardinale Christoph Schönborn, arcivescovo di Vienna, ricorda quegli anni. «Altri miei coetanei finirono in gruppi armati, nella Baader-Meinhof. Con il jihadismo è la stessa cosa. Ma non siamo alla fine dei tempi: c' è sempre la speranza del nuovo».
«Papa Francesco lo ha detto con forza, ai giovani: potete cambiare il mondo. Credetelo. Sì, lo crediamo, è possibile, e questo è un messaggio fondamentale, oggi, per l' Europa e per il mondo intero: non lasciarsi vincere dalla disperazione, dalla paura».

XXXI Giornata Mondiale della Gioventù (27-31 luglio 2016) – Santa Messa a conclusione della XXXI Giornata Mondiale della Gioventù al “Campus Misericordiae” di Kraków.

<br>


XXXI Giornata Mondiale della Gioventù (27-31 luglio 2016) – Santa Messa a conclusione della XXXI Giornata Mondiale della Gioventù al “Campus Misericordiae” di Kraków. Benedizione di due case della Caritas nel “Campus Misericordiae”
Sala stampa della Santa Sede
Testo dell'allocuzione del Papa - Il segno (...) indica frasi aggiunte dal Santo Padre e pronunciate a braccio.
- "Questa è la nostra “statura”, questa è la nostra identità spirituale: siamo i figli amati di Dio, sempre."
- "Dio ci ama così come siamo, e nessun peccato, difetto o sbaglio gli farà cambiare idea."
- "Dio “fa sempre il tifo” per noi come il più irriducibile dei tifosi."
- "Davanti a Gesù non si può rimanere seduti in attesa con le braccia conserte."
- "Non lasciatevi anestetizzare l’anima, ma puntate al traguardo dell’amore bello, che richiede anche la rinuncia."
- "Non abbiate timore, ma pensate alle parole di questi giorni: «Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia»."

- "Potranno giudicarvi dei sognatori, perché credete in una nuova umanità, che non accetta l’odio tra i popoli, non vede i confini dei Paesi come delle barriere e custodisce le proprie tradizioni senza egoismi e risentimenti."
- "Quanto desidera Gesù che la sua Parola parli ad ogni tua giornata, che il suo Vangelo diventi tuo, e che sia il tuo “navigatore” sulle strade della vita!"
Questa mattina, lasciato l’Arcivescovado, il Santo Padre Francesco si è trasferito in auto al Campus Misericordiae di Kraków, predisposto per ospitare i due eventi conclusivi della GMG. In quest’area sono state realizzate due strutture, che resteranno a ricordo dell’evento e come segno tangibile di misericordia: una Casa diurna per anziani, dal nome “Campus Misericordiae” e un Centro Caritas denominato “Il pane della Misericordia”. Accolto dal Sindaco di Wieliczka, nel cui territorio si trova il Campus, e dal Direttore della Caritas diocesana, il Papa viene accompagnato all’ingresso di una delle due case destinate all’accoglienza di poveri e anziani in difficoltà. Qui benedice i presenti, i locali e una statua della Madonna di Loreto. Alle ore 10, dopo l’indirizzo di saluto dell’Arcivescovo di Kraków, Card. Stanisław Dziwisz, il Papa presiede la Celebrazione Eucaristica a conclusione della XXXI Giornata Mondiale della Gioventù, che ha avuto per tema: “Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia” (Mt 5, 7).

Omelia del Santo Padre

Cari giovani, siete venuti a Cracovia per incontrare Gesù. E il Vangelo oggi ci parla proprio dell’incontro tra Gesù e un uomo, Zaccheo, a Gerico (cfr Lc 19,1-10). Lì Gesù non si limita a predicare, o a salutare qualcuno, ma vuole – dice l’Evangelista – attraversare la città (cfr v. 1). Gesù desidera, in altre parole, avvicinarsi alla vita di ciascuno, percorrere il nostro cammino fino in fondo, perché la sua vita e la nostra vita si incontrino davvero.
Avviene così l’incontro più sorprendente, quello con Zaccheo, il capo dei “pubblicani”, cioè degli esattori delle tasse. Dunque Zaccheo era un ricco collaboratore degli odiati occupanti romani; era uno sfruttatore del suo popolo, uno che, per la sua cattiva fama, non poteva nemmeno avvicinarsi al Maestro. Ma l’incontro con Gesù gli cambia la vita, come è stato e ogni giorno può essere per ciascuno di noi. Zaccheo, però, ha dovuto affrontare alcuni ostacoli per incontrare Gesù, non è stato facile per lui: almeno tre, che possono dire qualcosa anche a noi.
Il primo è la bassa statura: Zaccheo non riusciva a vedere il Maestro perché era piccolo. Anche oggi possiamo correre il rischio di stare a distanza da Gesù perché non ci sentiamo all’altezza, perché abbiamo una bassa considerazione di noi stessi. Questa è una grande tentazione, che non riguarda solo l’autostima, ma tocca anche la fede. Perché la fede ci dice che noi siamo «figli di Dio, e lo siamo realmente» (1 Gv 3,1): siamo stati creati a sua immagine; Gesù ha fatto sua la nostra umanità e il suo cuore non si staccherà mai da noi; lo Spirito Santo desidera abitare in noi; siamo chiamati alla gioia eterna con Dio! Questa è la nostra “statura”, questa è la nostra identità spirituale: siamo i figli amati di Dio, sempre. Capite allora che non accettarsi, vivere scontenti e pensare in negativo significa non riconoscere la nostra identità più vera: è come girarsi dall’altra parte mentre Dio vuole posare il suo sguardo su di me, è voler spegnere il sogno che Egli nutre per me. Dio ci ama così come siamo, e nessun peccato, difetto o sbaglio gli farà cambiare idea. Per Gesù – ce lo mostra il Vangelo – nessuno è inferiore e distante, nessuno insignificante, ma tutti siamo prediletti e importanti: tu sei importante! E Dio conta su di te per quello che sei, non per ciò che hai: ai suoi occhi non vale proprio nulla il vestito che porti o il cellulare che usi; non gli importa se sei alla moda, gli importi tu, come sei, così ... Ai suoi occhi vali e il tuo valore è inestimabile.
Quando nella vita ci capita di puntare in basso anziché in alto, può aiutarci questa grande verità: Dio è fedele nell’amarci, persino ostinato. Ci aiuterà pensare che ci ama più di quanto noi amiamo noi stessi, che crede in noi più di quanto noi crediamo in noi stessi, che “fa sempre il tifo” per noi come il più irriducibile dei tifosi. Sempre ci attende con speranza, anche quando ci rinchiudiamo nelle nostre tristezze, rimuginando continuamente sui torti ricevuti e sul passato. Ma affezionarci alla tristezza non è degno della nostra statura spirituale! E’ anzi un virus che infetta e blocca tutto, che chiude ogni porta, che impedisce di riavviare la vita, di ricominciare. Dio, invece, è ostinatamente speranzoso: crede sempre che possiamo rialzarci e non si rassegna a vederci spenti e senza gioia. E' triste vedere un giovane senza gioia. Perché siamo sempre i suoi figli amati. Ricordiamoci di questo all’inizio di ogni giornata. Ci farà bene ogni mattina dirlo nella preghiera: “Signore, ti ringrazio perché mi ami; fammi innamorare della mia vita!”. Non dei miei difetti, che vanno corretti, ma della vita, che è un grande dono: è il tempo per amare e per essere amati.
Zaccheo aveva un secondo ostacolo sulla via dell’incontro con Gesù: la vergogna paralizzante. Su questo ieri sera abbiamo detto qualcosa. Possiamo immaginare che cosa sia successo nel cuore di Zaccheo prima di salire su quel sicomoro, ci sarà stata una bella lotta: da una parte una curiosità buona, quella di conoscere Gesù; dall’altra il rischio di una tremenda figuraccia. Zaccheo era un personaggio pubblico; sapeva che, provando a salire sull’albero, sarebbe diventato ridicolo agli occhi di tutti, lui, un capo, un uomo di potere, ma tanto odiato. Ma ha superato la vergogna, perché l’attrattiva di Gesù era più forte. Avrete sperimentato che cosa succede quando una persona diventa tanto attraente da innamorarsene: allora può capitare di fare volentieri cose che non si sarebbero mai fatte. Qualcosa di simile accadde nel cuore di Zaccheo, quando sentì che Gesù era talmente importante che avrebbe fatto qualunque cosa per Lui, perché Lui era l’unico che poteva tirarlo fuori dalle sabbie mobili del peccato e della scontentezza. E così la vergogna che paralizza non ha avuto la meglio: Zaccheo – dice il Vangelo – «corse avanti», «salì» e poi, quando Gesù lo chiamò, «scese in fretta» (vv. 4.6). Ha rischiato e si è messo in gioco. Questo è anche per noi il segreto della gioia: non spegnere la curiosità bella, ma mettersi in gioco, perché la vita non va chiusa in un cassetto. Davanti a Gesù non si può rimanere seduti in attesa con le braccia conserte; a Lui, che ci dona la vita, non si può rispondere con un pensiero o con un semplice “messaggino”!
Cari giovani, non vergognatevi di portargli tutto, specialmente le debolezze, le fatiche e i peccati nella Confessione: Lui saprà sorprendervi con il suo perdono e la sua pace. Non abbiate paura di dirgli “sì” con tutto lo slancio del cuore, di rispondergli generosamente, di seguirlo! Non lasciatevi anestetizzare l’anima, ma puntate al traguardo dell’amore bello, che richiede anche la rinuncia, e un “no” forte al doping del successo ad ogni costo e alla droga del pensare solo a sé e ai propri comodi.
Dopo la bassa statura e la vergogna paralizzante, c’è un terzo ostacolo che Zaccheo ha dovuto affrontare, non più dentro di sé, ma attorno a sé. È la folla mormorante, che prima lo ha bloccato e poi lo ha criticato: Gesù non doveva entrare in casa sua, in casa di un peccatore! Quanto è difficile accogliere davvero Gesù, quanto è duro accettare un «Dio, ricco di misericordia» (Ef 2,4). Potranno ostacolarvi, cercando di farvi credere che Dio è distante, rigido e poco sensibile, buono con i buoni e cattivo coi cattivi. Invece il nostro Padre «fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni» (Mt 5,45) e ci invita al coraggio vero: essere più forti del male amando tutti, persino i nemici. Potranno ridere di voi, perché credete nella forza mite e umile della misericordia. Non abbiate timore, ma pensate alle parole di questi giorni: «Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia» (Mt 5,7). Potranno giudicarvi dei sognatori, perché credete in una nuova umanità, che non accetta l’odio tra i popoli, non vede i confini dei Paesi come delle barriere e custodisce le proprie tradizioni senza egoismi e risentimenti. Non scoraggiatevi: col vostro sorriso e con le vostre braccia aperte voi predicate speranza e siete una benedizione per l’unica famiglia umana, che qui così bene rappresentate!
La folla, quel giorno, ha giudicato Zaccheo, lo ha guardato dall’alto in basso; Gesù, invece, ha fatto il contrario: ha alzato lo sguardo verso di lui (v. 5). Lo sguardo di Gesù va oltre i difetti e vede la persona; non si ferma al male del passato, ma intravede il bene nel futuro; non si rassegna di fronte alle chiusure, ma ricerca la via dell’unità e della comunione; in mezzo a tutti, non si ferma alle apparenze, ma guarda al cuore. Gesù guarda il nostro cuore, il tuo cuore, il cuore di tutti.
Con questo sguardo di Gesù, voi potete far crescere un’altra umanità, senza aspettare che vi dicano “bravi”, ma cercando il bene per sé stesso, contenti di conservare il cuore pulito e di lottare pacificamente per l’onestà e la giustizia. Non fermatevi alla superficie delle cose e diffidate delle liturgie mondane dell’apparire, dal maquillage dell’anima per sembrare migliori. Invece, installate bene la connessione più stabile, quella di un cuore che vede e trasmette il bene senza stancarsi. E quella gioia che gratuitamente avete ricevuto da Dio, gratuitamente donatela (cfr Mt 10,8), perché tanti la attendono! L'attendono da voi.
Ascoltiamo, infine, le parole di Gesù a Zaccheo, che sembrano dette apposta per noi oggi: «Scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua» (v. 5). (...) Gesù ti rivolge lo stesso invito: “Oggi devo fermarmi a casa tua”. La GMG, potremmo dire, comincia oggi e continua domani, a casa, perché è lì che Gesù vuole incontrarti d’ora in poi. Il Signore non vuole restare soltanto in questa bella città o nei ricordi cari, ma desidera venire a casa tua, abitare la tua vita di ogni giorno: lo studio e i primi anni di lavoro, le amicizie e gli affetti, i progetti e i sogni. 
Quanto gli piace che nella preghiera tutto questo sia portato a Lui! Quanto spera che tra tutti i contatti e le chat di ogni giorno ci sia al primo posto il filo d’oro della preghiera! Quanto desidera che la sua Parola parli ad ogni tua giornata, che il suo Vangelo diventi tuo, e che sia il tuo “navigatore” sulle strade della vita!
Mentre ti chiede di venire a casa tua, Gesù, come ha fatto con Zaccheo, ti chiama per nome. (...) Il tuo nome è prezioso per Lui. Il nome di Zaccheo evocava, nella lingua del tempo, il ricordo di Dio. Fidatevi del ricordo di Dio: la sua memoria non è un “disco rigido” che registra e archivia tutti i nostri dati, ma un cuore tenero di compassione, che gioisce nel cancellare definitivamente ogni nostra traccia di male. Proviamo anche noi, ora, a imitare la memoria fedele di Dio e a custodire il bene che abbiamo ricevuto in questi giorni. In silenzio facciamo memoria di questo incontro, custodiamo il ricordo della presenza di Dio e della sua Parola, ravviviamo in noi la voce di Gesù che ci chiama per nome. Così preghiamo in silenzio, facendo memoria, ringraziando il Signore che qui ci ha voluti e incontrati.

sabato 30 luglio 2016

Prodigi della misericordia.



Manuale per confessori e fedeli. Pubblichiamo la presentazione di Papa Francesco al volume "Peccato, Misericordia, Riconciliazione. Dizionario Teologico-Pastorale" curato dalla Penitenzieria apostolica (Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2016, pagine 428, euro 28). Il testo papale porta la data del 24 giugno 2016, solennità di san Giovanni Battista. 
Compilato da Malio Sodi, Krzysztof Nykiel e Nicola Reali, il dizionario — scrive nella prefazione il cardinale Mauro Piacenza, penitenziere maggiore — è «destinato a diventare un “buon manuale” sia per i confessori che intendono adeguatamente amministrare il sacramento della riconciliazione come fonte della propria e altrui santificazione, sia per i fedeli che desiderano sperimentare il perdono di Dio nel confessionale e intraprendere un cammino di sincera conversione e di ritorno a Dio».
 

La pubblicazione del Dizionario Teologico-Pastorale Peccato — Misericordia — Riconciliazione, sapientemente curato dalla Penitenzieria Apostolica, è un contributo importante proprio in questo Giubileo della Misericordia. Questa opera consente al lettore di compiere un itinerario di approfondimento circa il cammino dell’uomo, il quale sperimenta il conforto della benevolenza divina, che lo rigenera dopo l’esperienza dello smarrimento e del pentimento.
La vita di ogni credente, di ogni uomo è permeata da una certezza: l’amore di Dio è sempre pronto a riversarsi su ciascuno, anche su quanti sono caduti nelle vie di peccato, di lontananza da questo fuoco di carità e dalla vita di grazia. Pur in una condizione di debolezza e di fragilità, ogni persona è chiamata a compiere il proprio percorso, e non resta sola nel momento dell’errore perché può contare sul perdono e la comprensione di un Padre, che sempre accoglie e risana. La pazienza divina si riversa su tutti, anche su quanti possono aver commesso errori gravi. L’amore di Dio, infatti, è davvero immenso ed addirittura sconvolgente nel momento in cui attende, previene ed accoglie. Malgrado il peccato, l’uomo non è abbandonato da Dio, che continua a bussare alla porta del suo cuore. Gesù, per esplicitare questo concetto dona la parabola della pecora smarrita (Matteo 18, 12-14). È molto significativa anche l’espressione tratta dal libro dell’Apocalisse: «Ecco, io sto alla porta e busso: se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io entrerò da lui e cenerò con lui, ed egli con me» (Apocalisse 3, 20). Il Signore è sempre alla porta del nostro cuore per accoglierne ogni movimento di conversione. Pur nelle tenebre del peccato, un minimo di apertura alla grazia divina può rivelarsi davvero importante per la nostra trasformazione interiore. Nel Vangelo è Gesù a mostrarci i tratti della misericordia divina. Il Cristo riabilita e dona una vita nuova a quanti si trovano nell’oscurità delle proprie contraddizioni: chi incontra Lui, fa esperienza di un rinnovamento profondo e duraturo, che parte dalla guarigione del cuore. La fedeltà di Dio è immutabile, infinita e continua ad esistere e produrre frutti malgrado l’infedeltà delle creature. Ed è lo Spirito Santo che guida l’uomo in questo cammino.
La Chiesa è portatrice della misericordia di Dio mediante il dono dei sacramenti. Ogni suo elemento svolge il compito di presentare al mondo la bellezza e la profondità dell’amore misericordioso del Signore. In fondo, tutto il suo apostolato esprime la chiamata ad annunciare e a testimoniare ai popoli l’infinita carità di Dio, un Padre che perdona ed accoglie oltre ogni aspettativa. La stessa famiglia ecclesiale si caratterizza per il «desiderio inesauribile di offrire misericordia, frutto dell’aver sperimentato l’infinita misericordia del Padre e la sua forza diffusiva» (Evangelii gaudium, 24).
L’uomo, reso interiormente nuovo dalla benevolenza divina, diventa più forte e determinato nella capacità di donarsi. Quanti santi, “toccati” e “sconvolti” dalla carità del Signore, si sono resi protagonisti di un avvincente ed entusiasmante cammino di santificazione, caratterizzato da una grande capacità di perdono e comprensione! Questo prodigio d’amore si verifica quotidianamente anche oggi. Significativi in tal senso sono la chiamata di Levi ed il rivolgersi di Gesù ai pubblicani e ai peccatori (cfr. Marco 2, 13-17). La vita di Levi, precedentemente immersa nel peccato, cambia radicalmente grazie alla forza rigeneratrice dell’amore misericordioso trasmesso dal Signore. L’azione travolgente del suo sguardo e della sua chiamata cambiano l’uomo nel profondo.
Tutte queste dinamiche sono proposte nella presente opera. Infatti, le “voci” riportate nel volume scandiscono un vero e proprio percorso, che ritrae l’incontro tra l’amore misericordioso di Dio e il desiderio di pace interiore di ogni persona. Il sacramento della Penitenza ha un ruolo fondamentale in questo mirabile «abbraccio» tra ritorno e perdono. Una particolare attenzione è riservata al sacerdote, il quale è chiamato alla consapevolezza del suo essere segno della carità divina, non solo nella celebrazione del rito, ma anche attraverso atteggiamenti di accoglienza, comprensione e dialogo che, senza dubbio, conferiscono maggiore ricchezza e significatività all’evento sacramentale. Si tratta di una vera e propria «immersione» nella misericordia di Dio, che ha la forza di trasformare e rafforzare il cuore: qui l’uomo ritrova se stesso e, con la massima confidenza nel Signore, riprende il cammino con più vigore e determinazione.
Il volume qui presentato è un dono nell’Anno della Misericordia; rappresenta uno strumento prezioso per gli studiosi e un’opportunità per i fedeli di conoscere la concretezza dell’amore e del perdono divini. È un lavoro che si fonda sul contributo di studiosi abituati alla pastorale pratica, chiamati ad esprimere una sorta di comunione teologica nell’offerta della propria sapienza al servizio dei lettori. Qui troviamo aspetti biblici, dogmatici, pastorali, giuridici, liturgici, sacramentali, ecclesiali e spirituali. Detti aspetti fanno pensare ad un armonico «avvicendarsi» delle varie discipline teologiche. Vorrei sottolineare che si tratta di un Dizionario che risulta molto accessibile ad un ampio numero di lettori. Ho la gioia di presentare questo testo perché lo considero un ulteriore ed importante tassello nella realizzazione dell’Anno della Misericordia.
Un apprezzamento sento di dover rivolgere alla Penitenzieria Apostolica per l’impegno nel servizio che, per natura sua, si attua nel silenzio più discreto. Non passano, però, inosservate le numerose iniziative di questo antichissimo Dicastero atte a «raccontare» al mondo i prodigi della misericordia di Dio.

L'Osservatore Romano

Viaggio Apostolico di Sua Santità Francesco in Polonia in occasione della XXXI Giornata Mondiale della Gioventù (27-31 luglio 2016) - Veglia di preghiera con i giovani nel “Campus Misericordiae” di Kraków. Discorso del Santo Padre



Viaggio Apostolico di Sua Santità Francesco in Polonia in occasione della XXXI Giornata Mondiale della Gioventù (27-31 luglio 2016) - Veglia di preghiera con i giovani nel “Campus Misericordiae” di Kraków. Discorso del Santo Padre: "E la nostra risposta a questo mondo in guerra ha un nome: si chiama fraternità, si chiama fratellanza, si chiama comunione, si chiama famiglia. Festeggiamo il fatto che veniamo da culture diverse e ci uniamo per pregare
 L'Osservatore Romano 

Nel Campus Misericordiae alla periferia di Cracovia - ma nel comune di Wieliczka – si svolge questa sera la Veglia di preghiera dei giovani che partecipano alla XXXI Giornata Mondiale della Gioventù. Di seguito riportiamo il testo del discorso del Papa:
Il simbolo (...) indica le parti del discorso pronunciate a braccio. 

Discorso del Santo Padre
Cari giovani,
è bello essere qui con voi in questa Veglia di preghiera.
Alla fine della sua coraggiosa e commovente testimonianza, Rand ci ha chiesto qualcosa. Ci ha detto: “Vi chiedo sinceramente di pregare per il mio amato paese”. Una storia segnata dalla guerra, dal dolore, dalla perdita, che termina con una richiesta: quella della preghiera. Che cosa c’è di meglio che iniziare la nostra veglia pregando?

Veniamo da diverse parti del mondo, da continenti, paesi, lingue, culture, popoli differenti. Siamo “figli” di nazioni che forse stanno discutendo per vari conflitti, o addirittura sono in guerra. Altri veniamo da paesi che possono essere in “pace”, che non hanno conflitti bellici, dove molte delle cose dolorose che succedono nel mondo fanno solo parte delle notizie e della stampa. Ma siamo consapevoli di una realtà: per noi, oggi e qui, provenienti da diverse parti del mondo, il dolore, la guerra che vivono tanti giovani, non sono più una cosa anonima, non sono più una notizia della stampa, hanno un nome, un volto, una storia, una vicinanza. Oggi la guerra in Siria è il dolore e la sofferenza di tante persone, di tanti giovani come il coraggioso Rand, che sta qui in mezzo a noi e ci chiede di pregare per il suo amato paese.
Ci sono situazioni che possono risultarci lontane fino a quando, in qualche modo, le tocchiamo. Ci sono realtà che non comprendiamo perché le vediamo solo attraverso uno schermo (del cellulare o del computer). Ma quando prendiamo contatto con la vita, con quelle vite concrete non più mediatizzate dagli schermi, allora ci succede qualcosa di forte, sentiamo l’invito a coinvolgerci: “Basta città dimenticate”, come dice Rand; mai più deve succedere che dei fratelli siano “circondati da morte e da uccisioni” sentendo che nessuno li aiuterà. Cari amici, vi invito a pregare insieme a motivo della sofferenza di tante vittime della guerra, affinché una volta per tutte possiamo capire che niente giustifica il sangue di un fratello, che niente è più prezioso della persona che abbiamo accanto. E in questa richiesta di preghiera voglio ringraziare anche voi, Natalia e Miguel, perché anche voi avete condiviso con noi le vostre battaglie, le vostre guerre interiori. Ci avete presentato le vostre lotte, e come avete fatto per superarle. Siete segno vivo di quello che la misericordia vuole fare in noi.
Noi adesso non ci metteremo a gridare contro qualcuno, non ci metteremo a litigare, non vogliamo distruggere, non vogliamo insultare. Noi non vogliamo vincere l’odio con più odio, vincere la violenza con più violenza, vincere il terrore con più terrore. E la nostra risposta a questo mondo in guerra ha un nome: si chiama fraternità, si chiama fratellanza, si chiama comunione, si chiama famiglia. Festeggiamo il fatto che veniamo da culture diverse e ci uniamo per pregare. La nostra migliore parola, il nostro miglior discorso sia unirci in preghiera. Facciamo un momento di silenzio e preghiamo; mettiamo davanti a Dio le testimonianze di questi amici, identifichiamoci con quelli per i quali “la famiglia è un concetto inesistente, la casa solo un posto dove dormire e mangiare”, o con quelli che vivono nella paura di credere che i loro errori e peccati li abbiano tagliati fuori definitivamente. Mettiamo alla presenza del nostro Dio anche le vostre “guerre”, le nostre "guerre", le lotte che ciascuno porta con sé, nel proprio cuore. (...)
(SILENZIO)
Mentre pregavamo mi veniva in mente l’immagine degli Apostoli nel giorno di Pentecoste. Una scena che ci può aiutare a comprendere tutto ciò che Dio sogna di realizzare nella nostra vita, in noi e con noi. Quel giorno i discepoli stavano chiusi dentro per la paura. Si sentivano minacciati da un ambiente che li perseguitava, che li costringeva a stare in una piccola abitazione obbligandoli a rimanere fermi e paralizzati. Il timore si era impadronito di loro. In quel contesto, accadde qualcosa di spettacolare, qualcosa di grandioso. Venne lo Spirito Santo e delle lingue come di fuoco si posarono su ciascuno di essi, spingendoli a un’avventura che mai avrebbero sognato. (...)
Abbiamo ascoltato tre testimonianze; abbiamo toccato, con i nostri cuori, le loro storie, le loro vite. Abbiamo visto come loro, al pari dei discepoli, hanno vissuto momenti simili, hanno passato momenti in cui sono stati pieni di paura, in cui sembrava che tutto crollasse. La paura e l’angoscia che nascono dal sapere che uscendo di casa uno può non rivedere più i suoi cari, la paura di non sentirsi apprezzato e amato, la paura di non avere altre opportunità. Loro hanno condiviso con noi la stessa esperienza che fecero i discepoli, hanno sperimentato la paura che porta in un unico posto: alla chiusura. E quando la paura si rintana nella chiusura, va sempre in compagnia di sua “sorella gemella”, la paralisi; sentirci paralizzati. Sentire che in questo mondo, nelle nostre città, nelle nostre comunità, non c’è più spazio per crescere, per sognare, per creare, per guardare orizzonti, in definitiva per vivere, è uno dei mali peggiori che ci possono capitare nella vita.
 (...) La paralisi ci fa perdere il gusto di godere dell’incontro, dell’amicizia, il gusto di sognare insieme, di camminare con gli altri. (...)
Ma nella vita c’è un’altra paralisi ancora più pericolosa e spesso difficile da identificare, e che ci costa molto riconoscere. Mi piace chiamarla la paralisi che nasce quando si confonde la FELICITÀ con un DIVANO / KANAPA! Sì, credere che per essere felici abbiamo bisogno di un buon divano. Un divano che ci aiuti a stare comodi, tranquilli, ben sicuri. Un divano, come quelli che ci sono adesso, moderni, con massaggi per dormire inclusi, che ci garantiscano ore di tranquillità per trasferirci nel mondo dei videogiochi e passare ore di fronte al computer. Un divano contro ogni tipo di dolore e timore. Un divano che ci faccia stare chiusi in casa senza affaticarci né preoccuparci. La “divano-felicità” / “kanapa-szczęście” è probabilmente la paralisi silenziosa che ci può rovinare di più (...); perché a poco a poco, senza rendercene conto, ci troviamo addormentati, ci troviamo imbambolati e intontiti (...) mentre altri – forse i più vivi, ma non i più buoni – decidono il futuro per noi. Sicuramente, per molti è più facile e vantaggioso avere dei giovani imbambolati e intontiti che confondono la felicità con un divano; per molti questo risulta più conveniente che avere giovani svegli, desiderosi di rispondere al sogno di Dio e a tutte le aspirazioni del cuore.
(...) Ma la verità è un’altra: cari giovani, non siamo venuti al mondo per “vegetare”, per passarcela comodamente, per fare della vita un divano che ci addormenti; al contrario, siamo venuti per un’altra cosa, per lasciare un’impronta. E’ molto triste passare nella vita senza lasciare un’impronta. Ma quando scegliamo la comodità, confondendo felicità con consumare, allora il prezzo che paghiamo è molto ma molto caro: perdiamo la libertà.
(...) Proprio qui c’è una grande paralisi, quando cominciamo a pensare che felicità è sinonimo di comodità, che essere felice è camminare nella vita addormentato o narcotizzato, che l’unico modo di essere felice è stare come intontito. E’ certo che la droga fa male, ma ci sono molte altre droghe socialmente accettate che finiscono per renderci molto o comunque più schiavi. Le une e le altre ci spogliano del nostro bene più grande: la libertà.
Amici, Gesù è il Signore del rischio, del sempre “oltre”. Gesù non è il Signore del confort, della sicurezza e della comodità. Per seguire Gesù, bisogna avere una dose di coraggio, bisogna decidersi a cambiare il divano con un paio di scarpe che ti aiutino a camminare su strade mai sognate e nemmeno pensate, su strade che possono aprire nuovi orizzonti, capaci di contagiare gioia, quella gioia che nasce dall’amore di Dio, la gioia che lascia nel tuo cuore ogni gesto, ogni atteggiamento di misericordia. Andare per le strade seguendo la “pazzia” del nostro Dio che ci insegna a incontrarlo nell’affamato, nell’assetato, nel nudo, nel malato, nell’amico che è finito male, nel detenuto, nel profugo e nel migrante, nel vicino che è solo. Andare per le strade del nostro Dio che ci invita ad essere attori politici, persone che pensano, animatori sociali. Che ci stimola a pensare un’economia più solidale. In tutti gli ambiti in cui vi trovate, l’amore di Dio ci invita a portare la Buona Notizia, facendo della propria vita un dono a Lui e agli altri.

(...) Potrete dirmi: Padre, ma questo non è per tutti, è solo per alcuni eletti! Sì, e questi eletti sono tutti quelli che sono disposti a condividere la loro vita con gli altri. Allo stesso modo in cui lo Spirito Santo trasformò il cuore dei discepoli nel giorno di Pentecoste, (...) lo ha fatto anche con i nostri amici che hanno condiviso le loro testimonianze. Uso le tue parole, Miguel: tu ci dicevi che il giorno in cui nella “Facenda” ti hanno affidato la responsabilità di aiutare per il migliore funzionamento della casa, allora hai cominciato a capire che Dio chiedeva qualcosa da te. Così è cominciata la trasformazione.
Questo è il segreto, cari amici, che tutti siamo chiamati a sperimentare. Dio aspetta qualcosa da te, Dio vuole qualcosa da te, Dio aspetta te. Dio viene a rompere le nostre chiusure, viene ad aprire le porte delle nostre vite, delle nostre visioni, dei nostri sguardi. Dio viene ad aprire tutto ciò che ti chiude. Ti sta invitando a sognare, vuole farti vedere che il mondo con te può essere diverso. E’ così: se tu non ci metti il meglio di te, il mondo non sarà diverso.
Il tempo che oggi stiamo vivendo non ha bisogno di giovani-divano / młodzi kanapowi, ma di giovani con le scarpe, meglio ancora, con gli scarponcini calzati. Accetta solo giocatori titolari in campo, non c’è posto per riserve. Il mondo di oggi vi chiede di essere protagonisti della storia perché la vita è bella sempre che vogliamo viverla, sempre che vogliamo lasciare un’impronta. La storia oggi ci chiede di difendere la nostra dignità e non lasciare che siano altri a decidere il nostro futuro.
 (...) Il Signore, come a Pentecoste, vuole realizzare uno dei più grandi miracoli che possiamo sperimentare: far sì che le tue mani, le mie mani, le nostre mani si trasformino in segni di riconciliazione, di comunione, di creazione. Egli vuole le tue mani per continuare a costruire il mondo di oggi. Vuole costruirlo con te.
(...) Mi dirai: Padre, ma io sono molto limitato, sono peccatore, cosa posso fare? Quando il Signore ci chiama non pensa a ciò che siamo, a ciò che eravamo, a ciò che abbiamo fatto o smesso di fare. Al contrario: nel momento in cui ci chiama, Egli sta guardando tutto quello che potremmo fare, tutto l’amore che siamo capaci di contagiare. Lui scommette sempre sul futuro, sul domani. Gesù ti proietta all’orizzonte.
Per questo, amici, oggi Gesù ti invita, ti chiama a lasciare la tua impronta nella vita, un’impronta che segni la storia, che segni la tua storia e la storia di tanti.
La vita di oggi ci dice che è molto facile fissare l’attenzione su quello che ci divide, su quello che ci separa. Vorrebbero farci credere che chiuderci è il miglior modo di proteggerci da ciò che ci fa male. Oggi noi adulti abbiamo bisogno di voi, per insegnarci a convivere nella diversità, nel dialogo, nel condividere la multiculturalità non come una minaccia ma come un’opportunità:
(...) abbiate il coraggio di insegnarci che è più facile costruire ponti che innalzare muri! (...) E tutti insieme chiediamo che esigiate da noi di percorrere le strade della fraternità. (...)Costruire ponti: sapete qual è il primo ponte da costruire? Un ponte che possiamo realizzare qui e ora: stringerci la mano, darci la mano. Forza, fatelo adesso, qui, questo ponte primordiale, e datevi la mano. (...) E’ il grande ponte fraterno, e possano imparare a farlo i grandi di questo mondo!… ma non per la fotografia, (...) bensì per continuare a costruire ponti sempre più grandi. Che questo ponte umano sia seme di tanti altri; sarà un’impronta.
Oggi Gesù, che è la via, ti chiama a lasciare la tua impronta nella storia. Lui, che è la vita, ti invita a lasciare un’impronta che riempia di vita la tua storia e quella di tanti altri. Lui, che è la verità, ti invita a lasciare le strade della separazione, della divisione, del non-senso. Ci stai? Cosa rispondono le tue mani e i tuoi piedi al Signore, che è via, verità e vita? Signore benedica i vostri sogni!


***

Veglia di preghiera con i giovani nel “Campus Misericordiae” di Kraków. Testimonianze di tre giovani 
Sala stampa della Santa Sede 
Natalia
Prima testimonianza(Natalia, polacca)
Il 15 aprile 2012, di domenica, mi ero svegliata nel mio appartamento a Łódź. Si tratta della terza città della Polonia. In quel periodo ero redattore capo di riviste di moda e da 20 anni non avevo nulla in comune con la Chiesa.
Avevo riportato successi sul lavoro, avevo avuto incontri con ragazzi carini, passavo da una festa ad un'altra e in ciò consisteva il senso della mia vita. Andava tutto bene. Soltanto quel giorno mi ero svegliata con una certa inquietudine causata dal pensiero che quello che stavo facendo della mia vita era ben lontano dall'essere qualcosa di buono. Compresi che avevo bisogno di andare a confessarmi nell'arco di quella stessa giornata. Non sapevo bene come si fa, per cui cercai su Google la parola “confessione”. In uno degli articoli che trovai, lessi questa frase: Dio è morto per l'amore verso di noi. Compresi pienamente il senso di questa affermazione: Dio era morto per l'amore che nutriva nei miei confronti, voleva darmi appieno la vita, mentre io chiusa nella mia indifferenza me ne stavo in cucina e fumavo una sigaretta.

Così mi appariva la situazione in quel momento. Scoppiai a piangere, presi un foglio di carta e cominciai ad elencarvi per iscritto i miei peccati. Erano tutti molto chiari, si ergevano da soli davanti ai miei occhi e io mi rendevo conto di essere andata contro tutti e 10 i comandamenti. Provai un immediato bisogno di parlare senza indugi con un prete. Trovai su internet l'informazione che alle 15 in cattedrale erano previste le confessioni. Corsi lì, ma avevo una tremenda paura che il sacerdote mi dicesse: “I tuoi peccati sono troppo gravi, non posso fare nulla per te”. Nonostante ciò trovai il coraggio e mi accostai alla confessione. Raccontai tutto e scoppiai in un forte pianto. Il prete non diceva nulla. Quando finii, affermò: “E' stata una confessione molto bella”. Non capivo a cosa si riferisse, non c'era nulla di bello in ciò che gli avevo raccontato. “Sai che giorno è oggi?”- chiese - “E' la domenica della Misericordia. Sai che ore sono? Sono le 15 passate. Questa è l'ora della misericordia. Sai dove ti trovi? In cattedrale, nel posto dove Santa Faustina pregava quotidianamente, quando viveva ancora a Łódź. Allora le apparve proprio il Signore Dio che disse di voler perdonare in quel giorno tutti i peccati, a prescindere da quali fossero. I tuoi peccati sono stati perdonati. Non ci sono più, non tornare a pensare a loro, togliteli dalla testa”. Erano parole forti. Andando alla confessione ero convinta di aver perso irrimediabilmente la vita eterna, mentre ora avevo appena sentito che Dio aveva fatto sì che quanto avevo compiuto di male, fosse scomparso per sempre. Avevo sentito anche che lui mi aspettava da sempre e mi aveva dato appuntamento proprio in quella giornata. Uscii dalla chiesa come se stessi tornando da un campo di battaglia: tremendamente stanca, ma allo stesso tempo arcifelice, con un sentimento di vittoria e la convinzione che Gesù stesse tornando a casa assieme a me.
Negli ultimi due anni sono stata impegnata nei preparativi della GMG a Łódź, affinché anche gli altri possano provare quello che ho provato io. La Misericordia di Dio è viva e continua ad agire ininterrottamente anche oggi. Ne sono testimone e auguro a ciascuno di voi di provare la stessa cosa.
Seconda testimonianza (Rand, siriano) 

Rand
My name is Rand Mittri. I am 26 years old, and I am from Aleppo, from Syria. As you may know, our city has been destroyed, ruined, and broken. The meaning in our lives has been cancelled. We are the forgotten city.
It may be hard for many of you to know and understand the full breadth of what is happening in my beloved country, Syria. It will be very hard for me to impart a life of pain to you in a few sentences, but I will try to share a few aspects of our reality with you.
Every day we live lives that are surrounded by death. But like you, we close our doors behind us as each morning as we leave for work or school. It is in that moment that we are gripped by fear that we will not return to find our homes and our families as we left them. Perhaps we will be killed that day. Or perhaps our families will. It is a hard and painful feeling to know that you are surrounded by death and killing, and there is no way to escape; no one to help.
Is it possible that this is the end, and that we were born to die in pain? Or are we born to live, and to live life to the fullest? My experience in this war has been a harsh and difficult one. But it has caused me to mature and grow up before my time, and to see things in a different perspective.
I serve at the Don Bosco Center in Aleppo. Our center receives more than 700 young men and women who come hoping to see a smile and hear a word of encouragement. They are also seeking something that is otherwise lacking in their lives: genuine humanitarian treatment. But it is very difficult for me to give joy and faith to others while I myself am bankrupt of these things in my life.
Through my meager life experience, I have learned that my faith in Christ supersedes the circumstances of life. This truth is not conditioned on living a life of peace that is free of hardship. More and more, I believe that God exists despite all of our pain. I believe that sometimes through our pain, He teaches us the true meaning of love. My faith in Christ is the reason for my joy and hope. No one will ever be able to steal this true joy from me.
I thank you all and I earnestly ask you to pray for my beloved country, Syria.
Terza Testimonianza (Miguel, paraguaiano) 

Miguel
Mi nombre es Miguel tengo 34 años y soy de Asunción, Paraguay. Somos 11 hermanos y fui el único con problemas de drogadicción. Me recuperé en la Fazenda de la Esperanza San Rafael | RS - Brasil.
Durante 16 años use drogas, desde los 11. Siempre tuve grandes dificultades de relacionamiento con mi familia, no me sentía querido ni cercano a ellos. Discutíamos constantemente y vivíamos en continua tensión. No recuerdo sentarme en familia a la mesa, para mí la Familia era un concepto inexistente, la casa sólo era un lugar donde dormir y comer.
A los 11 años de edad escapé de mi casa ya que el vacío era muy grande. En aquel tiempo aun estudiaba pero yo quería "libertad". En pocos meses estaba experimentando con drogas de camino a la escuela. Esto no hizo más que ahondar el vacío dentro mío, no quería regresar a mi casa, enfrentar a mi familia, enfrentarme a mí. Al tiempo dejé toda educación formal y mis padres tuvieron que cerrarme las puertas de su casa, estaban perdiendo la esperanza. A los 15 años cometí un delito por el cual fui preso. Estando en prisión recibí la visita de mi padre quien me preguntó si quería cambiar y respondí "Sí". Rápidamente logró tramitar mi libertad. Salí y volví a delinquir. Un día cometí un delito mayor por el cual fui preso seis años, años de mucho sufrimiento. No conseguía entender por qué ninguno de mis hermanos me visitaba. Así pasaron los años y cumplí la totalidad de la condena. Mis padres continuaban vinculados a la Iglesia.
A un mes de haber salido de prisión un sacerdote amigo de la familia me invitó a conocer un lugar llamado Fazenda de la Esperanza. Estaba sin rumbo en la vida. Todos esos años perdidos se reflejaban fuertemente en mi mirada, en mi rostro. Acepté ir, por primera vez me sentí en familia.
Al principiome costaba mucho el relacionamiento, la convivencia. En esta comunidad el método de sanación es La Palabra de Dios, vivirla. En mi proceso de recuperacióntuve un compañero al cual me costaba mucho perdonar, yo precisaba paz y él ser amado.A mi séptimo mes me dieron una responsabilidad en la casa, la de ayudar a que funcione mejor. Así comencé a entender que Dios pedía algo de mí. Entonces este compañero recibió una carta de su esposa, cuya relación estaba desgastada, esto me ayudó a comprenderlo mejor. Le entregué la carta y me dijo "Hermano, me perdona?" yo le respondí que por supuesto. A partir de ese momento tuvimos una excelente relación.Realmente Dios nos transforma, Dios nos renueva.
Me recuperé hace 10 años y hoy soy responsable de la casa "Quo Vadis?" de la Fazenda de la Esperanza en Cerro Chato - Uruguay hace 3 años.