mercoledì 31 agosto 2016

Un profeta e un testimone



Il cardinale A. Scola ricorda il suo predecessore Carlo Maria Martini, "un profeta e un testimone"
Diocesi di Milano

Testo dell'omelia dell'arcivescovo di Milano card. Angelo Scola in occasione del quarto anniversrio della scomparsa del cardinale Carlo Maria Martini.
1. Giovanni, un testimone e un profeta
«Che cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna sbattuta dal vento? Allora, che cosa siete andati a vedere? Un uomo vestito con abiti di lusso? Ecco, quelli che portano vesti sontuose e vivono nel lusso stanno nei palazzi dei re. Ebbene, che cosa siete andati a vedere? Un profeta? Sì, io vi dico, anzi, più che un profeta» (Vangelo, Lc 7, 24-26).
Per tre volte Gesù ripete insistentemente la domanda: che cosa siete andati a vedere? Insiste su questo verbo concreto. Non chiede che dottori avete ascoltato, che cosa avete imparato… Ma: che cosa avete visto, chi avete incontrato? 
All’uomo, tanto più all’uomo di oggi – come acutamente ricordava già Paolo VI –, non basta ascoltare parole anche sapienti, egli ha sete di incontrare testimoni.
Quindi, parlando di Giovanni alle folle, Gesù ne sottolinea la singolarità della statura di testimone e di profeta (uno che, esponendosi e pagando di persona, fa brillare la verità) e apre al futuro.
Non possiamo non riconoscere, nel richiamo al tema della testimonianza e della profezia del Vangelo di oggi, una provvidenziale assonanza con il magistero e con l’azione pastorale del Cardinal Martini che oggi ricordiamo a quattro anni del dies natalis.
2. I tratti della carità
In particolare, in quest’Anno Santo che papa Francesco ha voluto dedicare alla misericordia di Dio, ho visto emergere questi tratti nella celebre Lettera pastorale Farsi prossimo. Essi possiedono un carattere di attualità sia a livello ecclesiale, soprattutto per la nostra Chiesa, sia a livello civile, soprattutto per la metropoli di Milano e per le terre ambrosiane, ed infondono energia ed indirizzi per attraversare, carichi di speranza, la fase di travaglio che stiamo vivendo. Fase che presenta qualche analogia con la Lettura sulle vicende dei Maccabei che abbiamo ascoltato.
Afferma il Cardinal Martini: «La carità è un dono che dobbiamo implorare con umile fiducia, ma anche per insinuare che il fatto indiscutibile, che deve sferzare più fortemente la nostra inerzia, è l'immensità dell'amore di Dio». «Quando un'azione è interiormente animata dal dinamismo della carità, colui che la compie è portato a chiedersi: perché agisco così? […] Chi sono io che agisco in questo modo? Chi è il fratello a cui mi dedico? Qual è la sua più profonda dignità? Qual è il vero bene che gli debbo volere? [...] Carità e verità si cercano reciprocamente». Questo ci permette di comprendere la dimensione culturale della fede chiamata a comunicarsi attraverso la carità e le opere di misericordia. La carità infatti comporta una precisa visione dell’uomo e del senso del suo agire. E ancora, incalza il Cardinale: «Il vero valore non è la condizione povera in sé e per sé, né la lotta per venirne fuori, ma quel potenziale di amore che si può sviluppare nel viverla o nell' uscirne. Ed è la sapienza della fede, interna alla carità, che ci dice di volta in volta quando e come viverla e quando e come uscirne».
Da qui scaturisce il provocante richiamo del Cardinale Carlo Maria: «Dietro la fretta del sacerdote e del levita si nasconde una realtà più grave, cioè la paura di impegnare la propria persona» (Farsi prossimo, Lettera pastorale per l’anno pastorale 1985/86, passim). La misericordia urge in tal modo la nostra libertà all’impegno.
Ringrazio i familiari, la Fondazione Carlo Maria Martini e quanti tra il popolo dei fedeli ne mantengono viva la memoria. E lo fanno certo con tanto affetto, ma soprattutto col desiderio di immedesimarsi nella sua testimonianza di Gesù Cristo. Sono anche lieto di ricordare che il polo museale formato dal Museo diocesano e dal Chiostro di Sant’Eustorgio prenderà ufficialmente il nome del Cardinale Carlo Maria Martini. Mi preme anche citare l’uscita del secondo volume dell’Opera omnia e di un documentario sulla figura dell’Arcivescovo. 
Voglio concludere leggendovi un pensiero autobiografico del Cardinale che un fedele mi ha fatto pervenire in questi giorni. Lo affido a voi nella certezza che vi sarà di realistico conforto come lo è stato per me. 
«Signore Dio, mi hai condotto per anni con pazienza e bontà tra molte sorprese e non poche fatiche; ho vissuto giorni di festa e giorni di pianto; ho avuto tanto da fare ed è stato talvolta così spontaneo cedere alla pigrizia che ho finito per dimenticare il perché delle cose e troppo di rado ho ritrovato l’umiltà e la fede per dirti il mio grazie. Gli anni che passano mi rendono un poco più saggio e pensoso: aiutami ad amare la vita e a renderti sempre grazie per i giorni che mi regali, aiutami a non arrendermi all’amarezza che critica tutto, all’avidità che s’attacca alle cose, alla tristezza che s’affligge per nulla. 
Dammi un po’ di salute, perché possa essere ancora utile; ma dammi anche la fortezza e la pazienza, se la salute viene meno. 
Dammi una fede forte per essere fedele alla preghiera, limpido nella testimonianza, sereno nella prova, vigile nell’attesa del grande incontro con te, che vivi e regni nei secoli dei secoli...». 
Per questo, riuniti nella preghiera per il Cardinale Carlo Maria, possiamo con tutta la Chiesa domandare con speranza certa per lui al Padre, in Cristo Gesù, di «assegnare in cielo un posto di singolare splendore a coloro che in terra hai chiamato alla guida della tua Chiesa» (Prefazio).

Fertility day 2016


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http://www.fertilityday2016.it/

Il 22 Settembre c’è il Fertility Day. Un giorno dedicato alla fertilità organizzato dal Ministero della salute.
Lo scopo è quello di mettere in evidenza, prima che sia tardi“la bellezza della maternità e paternità”, “il pericolo della denatalità”, il rischio delle malattie che impediscono di diventare genitori”
Ho appena scoperto di questo grande evento istituzionale e butto giù quelle che sono state le mie reazioni immediate alla lettura del materiale presente nel sito.
Prima cosa ansia. Istintiva, irrazionale. Ma quel martellamento sul “prima che sia tardi”, ripetuto ossessivamente, mi ha automaticamente portata a considerare le mie ovaie e il mio utero come vecchi e decrepiti.
La seconda sensazione è stata quella di essere stata catapultata in un passato non troppo remoto in cui fare figli era un obbligo istituzionale per le donne e venivano premiate con medaglie quelle più prolifiche. Oppure di essere approdata in un surreale futuro distopico, simile a quello del film The Lobster, in cui essere in coppia è un dovere e chi vi si sottrae viene trasformato in un animale a scelta.
Poi c’è la grafica, infantilizzata, giovane e accattivante. Almeno queste sembrerebbero le intenzioni, il risultato è fatidioso e amplificatore della surrealità del tutto.
C’è il fertility Game in cui puoi scegliere di essere un ovulo o uno spermatozoo e schivare i nemici della fertilità, quali fumo, alcol, infezioni, età che avanza. Non dichiarato esplicitamente ma tra questi c’è sicuramente anche l’omosessualità.
Ci sono le cartoline.
Si va da quelle minacciose e un po’ sessiste, con tanto di clessidra a simboleggiare il tempo che passa e a colpevolizzare le donne che lo fanno passare.

A quelle in cui la fertilità viene definita un “bene comune”.
Quindi con il tuo corpo non puoi farci quello che ti pare, perchè non appartiene a te, ma è un bene comune.
Quindi se rimani incinta e non vuoi portare avanti la gravidanza chiunque può opporsi a questa tua scelta, perchè il tuo utero, e quello che eventualmente ci sta dentro, sono un bene comune.

A quella in cui si invita ad accoppiarsi da giovani, magari in posizioni “classiche”, perchè c’è più creatività.
E poi c’è il piano nazionale della fertilità del Ministero della Salute: ” Difendi la tua fertilità, prepara una culla per il tuo futuro”, in cui possiamo leggere cose del genere:
E’ utile ricordare che la “sessualità” non è  un accessorio del nostro comportamento avulso ed enucleabile dalla funzione riproduttiva, a cui biologicamente è destinata. Anche quando non esiste un’esplicita volontà di procreare, la sessualità è una elevatissima forma di comunicazione umana che coinvolge l’interezza dell’essere. Spesso, inconsapevolmente, è tesa proprio alla trasmissione della vita. Siamo spinti dagli stessi ormoni che guidano le cosiddette specie inferiori come una sorta di trappola riproduttiva; ne siamo più o meno consapevoli, ma le nostre pulsioni sessuali, l’attrazione e la tensione tra i sessi, non sono, da un punto di vista biologico,un comportamento che si esaurisce in se stesso.
In un documento istituzionale la sessualità viene definita biologicamente destinata alla procreazione. Affermazione che delegittima qualsiasi rapporto non finalizzato a questo scopo, qualsiasi pratica sessuale che non abbia come obiettivo la trasmissione della vita. Affermazione che sostanzialmente parla di eterosessualità obbligatoria e di maternità/paternità non come scelte ma come obblighi sociali.
Leggo poi che questa campagna ad alto contenuto d’ansia sulla procreazione coercitiva bisogna portarla nei consultori.
Nei consultori?! Nei luoghi che erano un tempo femministi, in quelli voluti dalle donne per esercitare liberamente la propria sessualità, in quelli già invasi dai movimenti prolife, dovremmo aggiungere la retorica di Stato sul fare i figli come l’obbligo più bello del mondo?
E nelle scuole. Vogliono portare la campagna sulla fertilità anche nelle aule scolastiche, sin dalla scuola dell’infanzia perchè si guardi alla bambina già come a una potenziale mamma, perchè sia preservata la sua salute riproduttiva come bene di Stato.
Con buona pace di tutte le pratiche dal basso sull’educazione sessuale e all’affettività portate avanti in questi anni nelle scuole e ostacolate in tutti i modi.
Da insegnante penso a quello che potrei fare perchè tutto questo non entri nelle scuole, da femminista penso alla riappropriazione degli spazi, dai consultori ai centri antiviolenza, ai nostri corpi.
Pensiamo insieme a un modo per fermare tutto questo.
http://narrazionidifferenti.altervista.org/

L'Italia del Family Day

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Ha nelle vene un po’ del sangue di don Enrico Tazzoli, il più famoso dei cinque martiri di Belfiore. Da giovane scelse l’«opzione privilegiata per i poveri». Militava nei Cristiani per il socialismo e professava la teologia della liberazione. Aveva i suoi riferimenti spirituali e politici in Giulio Girardi, Ernesto Balducci e Giovanni Franzoni. Votava Psi e leggeva Com Nuovi Tempi.
Al referendum del 1974 si espresse a favore del divorzio. Poteva finire arruolato nelle Brigate rosse o in Prima linea. La svolta avvenne il 14 maggio 1977, quando a Milano partecipò al corteo di protesta in cui il poliziotto Antonio Custra, 25 anni, fu ucciso con una rivoltellata da un manifestante che aveva il volto coperto da un passamontagna. Davanti al sangue che scorreva sull’asfalto, lo studente universitario prossimo alla laurea cominciò a diventare l’uomo che è oggi.
Eppure lo descrivono come sanfedista, oscurantista, omofobo, retrogrado, reazionario. Ma chi è in realtà, che cosa vuole e fin dove è disposto ad arrivare Massimo Gandolfini, il presidente del comitato Difendiamo i nostri figli, comparso all’improvviso all’orizzonte dell’Italia con il Family Day? E perché ha sfidato il premier Matteo Renzi? Questo movimento di popolo diventerà un partito?
Neurochirurgo specializzato in psichiatria, direttore del Dipartimento di neuroscienze per la chirurgia testa-collo nell’ospedale Poliambulanza di Brescia, consultore vaticano per l’esame dei miracoli che hanno portato sugli altari Madre Teresa di Calcutta, Giovanni Paolo II, Elisabetta della Trinità e Charles de Foucauld, il professor Gandolfini ha cambiato vita dopo l’incontro con Kiko Argüello, lo spagnolo fondatore del Cammino Neocatecumenale.
Nel suo libro L’Italia del Family day. Dialogo sulla deriva etica con il leader del comitato Difendiamo i nostri figli (Marsilio, 2016, pp.237, € 16,5), realizzato in collaborazione con il giornalista Stefano Lorenzetto, Gandolfini dice la sua sulla deriva etica che l’ha costretto a portare in piazza oltre 1 milione di italiani: unioni civili, utero in affitto, adozioni gay, omosessualismo, teorie gender.
E racconta per la prima volta di sé e dei sette figli che ha adottato perché non poteva averne di suoi, tre dei quali sarebbero morti se Gandolfini e la moglie, medico come lui, non li avessero accolti e curati con la loro scienza in una casa che è a un tempo famiglia e ospedale.
Zenit

Incontro vocazionale per ragazze a Murcia



Encuentro vocacional para chicas después de la JMJ en Murcia


Antonio Alcaraz Lopez
Tue, 23 Aug 2016 20:25:00

Después de la JMJ en Cracovia, organizamos en Murcia un encuentro de discernimiento vocacional para chicas, con el fin de que a través de la liturgia, la predicación, la escucha y escrutacio de la Palabra, las jóvenes puedan discernir la llamada de Dios en su vida. Tendremos testimonios de religiosas, itinerantes, vírgenes consagradas, misioneras, matrimonios. Todo, en definitiva, para poder tener un encuentro personal con Dios.

El encuentro tendrá lugar del 30 de septiembre al 2 de octubre en la Casa de Convivencias del Sagrado Corazon en Guadalupe (Murcia)

En la convivencia se presentarán todas estas presencias de la mujer en la Iglesia.

En las fotos del presente folleto se presentan diversas imágenes de la mujer, en una de las imágenes aparece una joven virgen consagrada, carisma primitivo que la Iglesia está recuperando, con Carmen Hernández, Iniciadora del Camino Neocatecumenal

Las interesadas para participar en la convivencia, pueden escribir a vocacional@ucam.edu

La via della liberazione e della salvezza



L'Udienza generale di Papa Francesco. "Nell’incontro con Cristo si apre per tutti, uomini e donne di ogni luogo e di ogni tempo, la via della liberazione e della salvezza"

"Gesù, ancora una volta, con il suo comportamento pieno di misericordia, indica alla Chiesa il percorso da compiere per andare incontro ad ogni persona, perché ognuno possa essere guarito nel corpo e nello spirito e recuperare la dignità di figlio e figlia di Dio"
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Il Vangelo che abbiamo ascoltato ci presenta una figura che spicca per la sua fede e il suo coraggio. Si tratta della donna che Gesù ha guarito dalle sue perdite di sangue (cfr Mt 9,20-22). Passando in mezzo alla folla, si avvicina alle spalle di Gesù per toccare il lembo del suo mantello. «Diceva infatti tra sé: Se riuscirò anche solo a toccare il suo mantello sarò salvata» (v. 21). Quanta fede! Quanta fede aveva questa donna! Ragiona così perché è animata da tanta fede e tanta speranza e, con un tocco di furbizia, realizza quanto ha nel cuore. Il desiderio di essere salvata da Gesù è tale da farla andare oltre le prescrizioni stabilite dalla legge di Mosè. Questa povera donna infatti da molti anni non è semplicemente malata, ma è ritenuta impura perché affetta da emorragie (cfr Lv 15,19-30). E’ perciò esclusa dalle liturgie, dalla vita coniugale, dai normali rapporti con il prossimo. L’evangelista Marco aggiunge che aveva consultato molti medici, dando fondo ai suoi mezzi per pagarli e sopportando cure dolorose, ma era solo peggiorata. Era una donna scartata dalla società. E’ importante considerare questa condizione – di scartata – per capire il suo stato d’animo: lei sente che Gesù può liberarla dalla malattia e dallo stato di emarginazione e di indegnità in cui da anni si trova. In una parola: sa, sente che Gesù puòsalvarla.
Questo caso fa riflettere su come la donna sia spesso percepita e rappresentata. Tutti siamo messi in guardia, anche le comunità cristiane, da visioni della femminilità inficiate da pregiudizi e sospetti lesivi della sua intangibile dignità. In tal senso sono proprio i Vangeli a ripristinare la verità e a ricondurre ad un punto di vista liberatorio. Gesù ha ammirato la fede di questa donna che tutti evitavano e ha trasformato la sua speranza in salvezza. Non sappiamo il suo nome, ma le poche righe con cui i Vangeli descrivono il suo incontro con Gesù delineano un itinerario di fede capace di ristabilire la verità e la grandezza della dignità di ogni persona. Nell’incontro con Cristo si apre per tutti, uomini e donne di ogni luogo e di ogni tempo, la via della liberazione e della salvezza.
Il Vangelo di Matteo dice che quando la donna toccò il mantello di Gesù, Egli «si voltò» e «la vide» (v. 22), e quindi le rivolse la parola. Come dicevamo, a causa del suo stato di esclusione, la donna ha agito di nascosto, alle spalle di Gesù, era un po’ timorosa, per non essere vista, perché era una scartata. Gesù invece la vede e il suo sguardo non è di rimprovero, non dice: “Vattene via, tu sei una scartata!”, come se dicesse: “Tu sei una lebbrosa, vattene via!”. No, non rimprovera, ma lo sguardo di  Gesù è di misericordia e tenerezza. Egli sa che cosa è avvenuto e cerca l’incontro personale con lei, quello che in fondo la donna stessa desiderava. Questo significa che Gesù non solo la accoglie, ma la ritiene degna di tale incontro al punto di farle dono della sua parola e della sua attenzione.
Nella parte centrale del racconto il termine salvezza è ripetuto tre volte. «Se riuscirò anche solo a toccare il suo mantello, sarò salvata. Gesù si voltò, la vide e disse: “Coraggio, figlia, la tua fede ti hasalvata!”. E da quell’istante la donna fu salvata» (vv. 21-22). Questo «coraggio, figlia» esprime tutta la misericordia di Dio per quella persona. E per ogni persona scartata. Quante volte ci sentiamo interiormente scartati per i nostri peccati, ne abbiamo fatte tante, ne abbiamo fatte tante… E il Signore ci dice: “Coraggio! Vieni! Per me tu non sei uno scartato, una scartata. Coraggio, figlia. Tu sei un figlio, una figlia”. E questo è il momento della grazia, è il momento del perdono, è il momento dell’inclusione nella vita di Gesù, nella vita della Chiesa. E' il momento della misericordia. Oggi, a tutti noi, peccatori, che siamo grandi peccatori o piccoli peccatori, ma tutti lo siamo, a tutti noi il Signore dice: “Coraggio, vieni! Noi sei più scartato, non sei più scartata: io ti perdono, io ti abbraccio”. Così è la misericordia di Dio. Dobbiamo avere coraggio e andare da Lui, chiedere perdono per i nostri peccati e andare avanti. Con coraggio, come ha fatto questa donna. Poi, la “salvezza” assume molteplici connotati: anzitutto restituisce alla donna la salute; poi la libera dalle discriminazioni sociali e religiose; inoltre, realizza la speranza che lei portava nel cuore annullando le sue paure e il suo sconforto; infine, la restituisce alla comunità liberandola dalla necessità di agire di nascosto. E quest’ultima cosa è importante: una persona scartata agisce sempre di nascosto, qualche volta o tutta la vita: pensiamo ai lebbrosi di quei tempi, ai senzatetto di oggi…; pensiamo ai peccatori, a noi peccatori: facciamo sempre qualcosa di nascosto, abbiamo la necessità di fare qualcosa di nascosto, perché ci vergogniamo di quello che siamo... E lui ci libera da questo, Gesù ci libera e ci fa mettere in piedi: “Alzati, vieni, in piedi!”. Come Dio ci ha creati: Dio ci ha creati in piedi, non umiliati. In piedi.  Quella che Gesù dona è una salvezza totale, che reintegra la vita della donna nella sfera dell’amore di Dio e, al tempo stesso, la ristabilisce nella sua piena dignità.
Insomma, non è il mantello che la donna ha toccato a darle la salvezza, ma la parola di Gesù, accolta nella fede, capace di consolarla, guarirla e ristabilirla nella relazione con Dio e con il suo popolo. Gesù è l’unica fonte di benedizione da cui scaturisce la salvezza per tutti gli uomini, e la fede è la disposizione fondamentale per accoglierla. Gesù, ancora una volta, con il suo comportamento pieno di misericordia, indica alla Chiesa il percorso da compiere per andare incontro ad ogni persona, perché ognuno possa essere guarito nel corpo e nello spirito e recuperare la dignità di figli di Dio. Grazie.

Sviluppo Umano Integrale






Oggi viene pubblicato suL’Osservatore Romano il Motu Proprio istitutivo del nuovo “Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale”, insieme al relativo Statuto. Questi documenti sono stati approvati dal Santo Padre Francesco il 17 agosto scorso, su proposta del Consiglio dei Cardinali. 
Nel nuovo Dicastero confluiranno, dal 1° gennaio 2017, gli attuali seguenti Pontifici Consigli: il Pontificio Consiglio per la Giustizia e per la Pace, il Pontificio Consiglio “Cor Unum”, il Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti e il Pontificio Consiglio della Pastorale per gli Operatori Sanitari. In quella data, questi quattro Dicasteri cesseranno dalle loro funzioni e verranno soppressi, essendo abrogati gli articoli 142-153 della Costituzione apostolica Pastor Bonus
Una sezione del nuovo Dicastero esprime in maniera speciale la sollecitudine del Papa per i profughi ed i migranti. Infatti, non può esserci oggi un servizio allo sviluppo umano integrale senza una particolare attenzione al fenomeno migratorio. Per questo tale sezione è posta ad tempus direttamente sotto la guida del Sommo Pontefice (cfr Statuto, art. 1 §4). 
Il Santo Padre ha nominato Prefetto del nuovo Dicastero l’Em.mo Cardinale Peter Kodwo Appiah Turkson, attualmente Presidente del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace


***

Lettera Apostolica «Humanam progressionem» in forma di «Motu Proprio» con cui si istituisce il Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, 31.08.2016 
 Sala stampa della Santa Sede 
[Text: Italiano, Français, English, Español, Português]
In tutto il suo essere e il suo agire, la Chiesa è chiamata a promuovere lo sviluppo integrale dell’uomo alla luce del Vangelo. Tale sviluppo si attua mediante la cura per i beni incommensurabili della giustizia, della pace e della salvaguardia del creato. Il Successore dell’apostolo Pietro, nella Sua opera in favore dell’affermazione di tali valori, adatta continuamente gli organismi che collaborano con Lui, affinché possano meglio venire incontro alle esigenze degli uomini e delle donne che essi sono chiamati a servire. Pertanto, allo scopo di attuare la sollecitudine della Santa Sede nei suddetti ambiti, come pure in quelli che riguardano la salute e le opere di carità, istituisco il Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale. Tale Dicastero sarà particolarmente competente nelle questioni che riguardano le migrazioni, i bisognosi, gli ammalati e gli esclusi, gli emarginati e le vittime dei conflitti armati e delle catastrofi naturali, i carcerati, i disoccupati e le vittime di qualunque forma di schiavitù e di tortura.(

Questioni di cuore

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Incontro del Santo Padre con i partecipanti al Congresso mondiale organizzato dalla Società Europea di Cardiologia presso la nuova Fiera di Roma 
Sala stampa della Santa Sede 
"È importante che l’uomo di scienza, mentre si misura con il grande mistero dell’esistenza umana, non si lasci vincere dalla tentazione di soffocare la verità (cfr Rm 1,18)."
Al termine dell’Udienza Generale in Piazza San Pietro, il Santo Padre si è recato questa mattina alla nuova Fiera di Roma per rivolgere il suo saluto ai partecipanti al Congresso annuale organizzato dalla Società Europea di Cardiologia, al quale hanno preso parte in questi giorni 35.000 specialisti da 140 paesi. Dopo gli indirizzi di omaggio di Pietro Piccinetti, Amministratore unico della Fiera di Roma, e del Prof. Fausto Pinto, Presidente della Società Europea di Cardiologia, Papa Francesco rivolge ai presenti il discorso che riportiamo di seguito:
Discorso del Santo Padre

Gentili Signori e Signore, buongiorno!
Ho accolto con piacere l’invito della Presidenza della Società Europea di Cardiologia ad essere qui con voi, in occasione di questo Congresso mondiale che vede raccolti cardiologi da diversi Paesi. Un ringraziamento particolare al Professor Fausto Pinto per le parole di benvenuto.Nella persona del Presidente intendo ringraziare tutti voi per l’impegno scientifico di queste giornate di studio e di confronto - è tanto importante confrontarsi - ma soprattutto per la dedizione nei confronti di tanti malati. E’ una sfida confrontarsi con ogni malato.
Voi vi occupate della cura del cuore. E quanta simbologia si nasconde in questa parola e quante attese vengono riposte in questo organo umano! Tra le vostre mani passa il centro pulsante del corpo umano, pertanto la vostra responsabilità è grande! Sono certo che trovandovi di fronte a questo libro della vita, che porta in sé ancora tante pagine da scoprire, voi vi accostate con trepidazione e senso di timore.
Il Magistero della Chiesa ha sempre affermato l’importanza della ricerca scientifica per la vita e la salute delle persone. Anche oggi la Chiesa non solo vi accompagna in questo cammino così arduo, ma se ne fa promotrice e intende sostenervi, perché comprende che quanto è dedicato all’effettivo bene della persona è pur sempre un’azione che proviene da Dio. La natura in tutta la sua complessità, e anche la mente umana, sono creature di Dio. Lo studioso può e deve investigarle, sapendo che lo sviluppo delle scienze filosofiche ed empiriche e delle competenze pratiche che servono il più debole e malato è un servizio importante che si inscrive nel progetto divino. L’apertura alla grazia di Dio, fatta tramite la fede, non ferisce la mente, anzi la spinge ad andare avanti, a una conoscenza della verità più ampia e utile per l’umanità.
Sappiamo, tuttavia, che anche lo scienziato nella sua scoperta non è mai neutrale. Egli porta con sé la sua storia, il suo modo di essere e di pensare. Per ognuno esiste la necessità di avere una sorta di purificazione che, mentre allontana le tossine che avvelenano la ragione nella sua ricerca di verità e di certezza, induce a guardare con maggior intensità all’essenza delle cose. Non possiamo negare, infatti, che la conoscenza, anche la più precisa e scientifica, ha bisogno di progredire facendo le domande e trovando le risposte sull’origine, il senso e la finalità della realtà, uomo incluso. Tuttavia, le sole scienze, naturali e fisiche, non bastano per comprendere il mistero che ogni persona contiene in sé. Se si guarda all’uomo nella sua totalità – permettetemi di insistere su questo tema – si può avere uno sguardo di particolare intensità ai più poveri, ai più disagiati ed emarginati perché anche a loro giunga la vostra cura, come anche l’assistenza e l’attenzione delle strutture sanitarie pubbliche e private. Dobbiamo lottare perché non ci siano “scartati” in questa cultura dello scarto che viene proposta.
Con la vostra preziosa attività voi contribuite a guarire il corpo malato e, al tempo stesso, avete la possibilità di verificare che ci sono leggi impresse nella stessa natura che nessuno può manomettere ma solo “scoprire, usare e ordinare” perché la vita corrisponda sempre più alle intenzioni del Creatore (cfr Conc. Ecum. Vat. II, Cost. Gaudium et spes, 36). Per questo è importante che l’uomo di scienza, mentre si misura con il grande mistero dell’esistenza umana, non si lasci vincere dalla tentazione di soffocare la verità (cfr Rm 1,18).
Vi rinnovo il mio apprezzamento per il vostro lavoro - anch’io sono stato nelle mani di alcuni di voi - e chiedo al Signore di benedire la ricerca e la cura medica, in modo che a tutti possa giungere il sollievo dal dolore, una maggior qualità della vita e un accresciuto senso di speranza, e quella lotta di tutti i giorni perché non ci siano “scartati” nella vita umana e nella pienezza della vita umana. Grazie tante.
Testo in lingua inglese
Ladies and Gentlemen, Good morning!
I was pleased to accept the invitation of the Executive Committee of the European Society of Cardiology to meet with you on the occasion of this World Congress which brings together cardiologists from various countries.  I am particularly grateful to Professor Fausto Pinto for his kind words and, through him, I thank each of you for the scientific work in these days of study and relating to one another – relating to others is so important – but above all for your dedication to so many who are sick.  Relating well to those who are sick is a challenge. 
You look after the heart.  And how much symbolism is enshrined in this word!  How many hopes are contained in this human organ!  In your hands you hold the beating core of the human body, and as such your responsibility is very great!  I am sure that as you find yourselves before this book of life with its many pages yet to be discovered, you are filled with trepidation and awe.
The Magisterium of the Church has always affirmed the importance of scientific research for human life and health.  The Church not only accompanies you along this demanding path, but also promotes your cause and wishes to support you.  The Church understands that efforts directed to the authentic good of the person are actions always inspired by God.  Nature, in all its complexity, and the human mind, are created by God; their richness must be studied by skilled men and women, in the knowledge that the advancement of the philosophical and empirical sciences, as well as professional care in favour of the weakest and most infirm, is a service that is part of God’s plan.  Openness to the grace of God, an openness which comes through faith, does not weaken human reason, but rather leads it to move forwards, to knowledge of a truth which is wider and of greater benefit to humanity.
At the same time, we know that the scientist, in his or her research, is never neutral, in as much as each one has their own history, their way of being and of thinking.  Every scientist requires, in a sense, a purification; through this process, the toxins which poison the mind’s pursuit of truth and certainty are removed, and this enables a more incisive understanding of the meaning of things.  We cannot deny that our knowledge, even our most precise and scientific knowledge, needs to progress by asking questions and finding answers concerning the origin, meaning and finality of reality; and this includes man.  The sciences alone, however, whether natural or physical, are not sufficient to understand the mystery contained within each person.  When man is viewed in his totality – allow me to emphasize this point – we are able to have a profound understanding of the poorest, those most in need, and the marginalized.  In this way, they will benefit from your care and the support and assistance offered by the public and private health sectors.  We must make great efforts to ensure that they are not “discarded” by a culture which promotes a “throwaway” mentality. 
By means of your invaluable work, you contribute to the healing of physical illness and are able to perceive that there are laws engraved within human nature that no one can tamper with, but rather must be “discovered, respected and cooperated with” so that life may correspond ever more to the designs of the Creator (cf. Gaudium et Spes, 36).  For this reason, it is important that men and women of science, as they examine themselves in the light of that great mystery of human existence, do not give in to the temptation to suppress the truth (cf. Rom 1:18).
With these sentiments, I renew my appreciation for your work – I too have been in some of your hands – and I ask the Lord to bless your research and medical care, so that everyone may receive relief from their suffering, a greater quality of life and an increasing sense of hope.  And I ask him to bless your daily efforts so that no one will be “discarded” from society and from the fullness of human life

Mercoledì della XXII settimana del Tempo Ordinario

martedì 30 agosto 2016

La Chiesa accogliente secondo Rahner

chiesa diroccata

Da Padre Giovanni Cavalcoli
Stefano Fontana, nel sito Labussolaquotidiana del 3 agosto 2016, ha pubblicato un interessante articolo dal titolo “Rahner, profeta della Chiesa aperta di oggi”. Egli introduce il suo scritto con le seguenti parole: “Nel lontano 1972 Karl Rahner scrisse un libretto dal titolo ‘Trasformazione strutturale della Chiesa come compito e come chance’. L’anno successivo fu pubblicato in lingua italiana dalla Queriniana. Il libro era rivolto alla Chiesa di Germania”.
Fontana fa notare che “le considerazioni del teologo tedesco anticipavano sorprendentemente i tempi e parlavano di noi oggi”. Dobbiamo precisare, però, che non si tratta della “Chiesa” in generale, ma bensì della corrente modernistica, la quale poi a sua volta è in parte un’imitazione della concezione luterana della Chiesa. Infatti, come spiega l’Autore, “per dire la cosa in sintesi, la Chiesa di Karl Rahner doveva essere declericalizzata, democratica, aperta e dalle porte aperte, strutturata a partire dalla base, ecumenica, che non moralizza”.
La prima osservazione da fare al libro di Rahner riguarda il titolo stesso. Già qui Rahner parte col piede sbagliatoLa Chiesa non può andar soggetta e non va soggetta a nessuna trasformazione strutturale, come se si trattasse di un’azienda per la produzione degli yogurt o di una fabbrica di automobili. La Chiesa ha una suastruttura o essenza divina, immutabile, stabilita da Cristo. Trasformarla nella sua struttura, ossia nella sua essenza, vorrebbe dire distruggerla. La Chiesa può essere riformata, ma non trasformata, perché allora sarebbedeformata, come fece Lutero.
Trasformare vuol dire cambiare forma, cambiare essenza: allora quella cosa non è più quella cosa, ma diventa un’altra. Come a dire che è distrutta. Se una chiesa viene trasformata in una casa, la chiesa non c’è più. Riformare, invece, può essere cosa utile o necessaria. Ma allora non si tratta di cambiare la forma, ma, al contrario, di confermarla, purificarla, rafforzarla e migliorarla, conservandola nella sua identità. La vera riforma della Chiesa l’ha fatta il Concilio di Trento, non Lutero. Il titolo che Rahner ha dato al suo libro è esatto: in esso Rahner deforma la Chiesa.
Seguiamo infatti adesso uno per uno i caratteri della Chiesa secondo Rahner, che ci riferisce Fontana. “Declericalizzata”. Sappiamo come Lutero abbia soppresso nella Chiesa il clero ed abbia lasciato solo i laici. Rahner lascia il clero. Ma sono i laici che comandano, in quanto depositari dell’“esperienza trascendentale” della fede e “Uditori della Parola”.
“Democratica”. Questo carattere è connesso al primo. Per Rahner la Chiesa non è governata da uno solo (il Papa), cioè non è monarchica, ma è governata dal popolo (laòs, da cui “laico), ossia appunto dai laici, in base alla loro suddetta dignità, mentre la gerarchia sacerdotale è alla pari dei laici. Non è quindi che Rahner abolisca, come Lutero, Papa, Cardinali,Vescovi, Presbiteri e Diaconi; tuttavia questi uffici sono per lui tutti di pari grado – “popolo di Dio” -, allo stesso livello di quello dei laici. Non c’è subordinazione o dipendenza degli uni dagli altri, ma coordinazione come diverse espressioni del modo di essere cattolico su di un piano di parità del comune essere cattolico.
Il carattere dell’apertura e dell’ecumenicità, stando a come la Chiesa li intende, andrebbe anche bene. Ma il guaio è che Rahner non lo intende in questo senso, come vedremo dalla successiva esposizione data da Fontana, ma in un senso che guasta la chiarezza, la precisione e la certezza della dottrina, a causa della mancanza del principio monarchico sostituito da quello democratico, e di quello gerarchico sostituito da quello paritario. Infatti spetta in ultima istanza al Papa e alla gerarchia chiarire, precisare e definire le dottrine della fede.
La Chiesa, secondo Rahner, è “strutturata a partire dalla base”, non dal vertice. Come a dire che non sorge dai successori degli apostoli sotto la guida del Papa, ma dalla comunità dei semplici fedeli. Su questi e non sui primi essa si fonda, mentre i primi non sono che l’espressione a livello categoriale della fede trascendentale del popolo di Dio, che a sua volta è formazione storica ed empirica dell’universalità preeclesiale e transecclesiale dei “cristiani anonimi”.
La Chiesa, per Rahner, “non moralizza”. Ciò ci sorprende, perché in realtà la Chiesa ha il compito di stimolare, condurre, educare e guidare la corretta vita o condotta morale dei singoli e del popolo di Dio o la società, ha il compito di assoggettarli a un codice di regole o ideali morali chiari, fissi, determinati e ben definiti.Per Rahner, invece, è il popolo stesso che, alla luce della Parola di Dio e della propria coscienza, sceglie liberamente le norme del proprio agire.
Prosegue infatti Fontana nell’illustrare i termini della falsa profezia di Rahner: “Uno dei concetti chiave espressi nel libretto è quello di Chiesa ‘aperta’. La cosa viene detta non solo in senso pastorale (aperta nel senso di aperta ad accogliere tutti), ma dottrinale. Secondo Rahner, infatti, l’ortodossia, l’ordine, la chiarezza… sono caratteristiche di una sétta. Ma la Chiesa non è una sétta e quindi i suoi confini non devono essere chiari né definiti. Essa deve essere ‘aperta anche dal punto di vista dell’ortodossia’. E a questo proposito gli esempi che Rahner fa non potrebbero essere più attuali: ‘non è chiaro perché dei divorziati che si sono risposati dopo un primo matrimonio sacramentale non potrebbero in nessun caso essere riammessi ai sacramenti finché perseverano nel secondo matrimonio in quanto tale; è possibile non ritenere il precetto festivo come un comandamento che Dio avrebbe stabilito sul Sinai dotandolo di una validità perenne; non è neppure possibile stabilire con chiarezza, come a volte si fa, quali possibilità esistano anche per una coscienza cristiana nei confronti delle leggi penali dello Stato contro l’aborto’.
Chiesa aperta – continua Fontana – vuol dire per Rahner che non sono chiari i confini dell’ortodossia e di conseguenza nemmeno quelli dell’eresia. Anche dentro la Chiesa, dice Rahner, ci sono disparati contenuti di coscienza e opinioni divergenti sul dogma oggettivo. Il pluralismo teologico e dottrinale non costituisce quindi una minaccia, continua Rahner, perché conforme ad una ‘Chiesa evangelica, in cui si poteva dire pressappoco tutto e si poteva esprimere pubblicamente quello che si voleva’.
Nella Chiesa evangelica, libera, accogliente ed aperta, secondo Rahner,viene fuori di tutto, anche le tesi più contradditorie tra di loro; quello che scandalizza gli uni, è normale per gli altri e viceversa. I pastori e il Papa non hanno alcun compito di controllo o di censura, ma devono semplicemente stimolare il dibattito, devono consentire a che ognuno esprima quello che gli pare.
E’ infatti impossibile, secondo Rahner, che una proposizione possa essere interpretata in unico senso, che nel contempo non possa essere interpretata anche in  un senso opposto. Non esistono infatti verità universali, oggettive ed immutabili, valide per tutti e sempre. Ciò che sembra vero a me può esser è falso per te. E’ bene dunque dare spazio a tutte le opinioni, essere aperti a tutte le idee.
Ciò comporta, secondo Rahner, un pluralismo “insuperabile”, che è cosa normale ed inevitabile e non dev’essere limitato o costretto nei ranghi di un pensiero unico, che sarebbe la morte della libertà di pensiero. La pretesa che il Magistero della Chiesa ha avuto finora di esprimere tesi dottrinali assolutamente vere, obbligatorie sempre e per tutti, è una pretesa assurda e illiberale.
Il patrimonio dottrinale della Chiesa non è dunque visto da Rahner come un sistema ordinato, coerente ed unitario di idee, tutte fondate sulla Scrittura e sulla Tradizione, sotto il controllo dal Magistero, ma come un specie di mercato delle pulci, un bazar o una libreria Feltrinelli, dove si va dalle Confessioni di S.Agostino al Capitale di Carlo Marx, dai Pensieri di Pascal al Così parlò Zarathustra di Nietzsche.
Il fatto è che Rahner, mancando il principio unificante pontificio, e volendo far nascere l’organizzazione della dottrina dalla molteplicità dei semplici fedeli, sottrae alla dottrina della Chiesa il suo naturale principio di unificazione, di precisazione e di delimitazione, sicchè il risultato non può che essere appunto quello del “pluralismo insuperabile”, ossia un insuperabile intrigo o groviglio di idee di tal fatta, che una volta che uno disgraziatamente ci è caduto in mezzo, si trova in una “selva oscura” peggiore di quella di dantesca memoria.
Fontana prosegue poi nel dare qualche altro esempio delle proposte di Rahner: “La Chiesa del futuro – sosteneva Rahner nel 1972 – è una Chiesa che si costruisce dal basso, frutto di libera iniziativa ed associazione. Le stesse parrocchie si trasformeranno in questo senso”. Tra queste proposte c’è quella dell’ordinazione sacerdotale delle donne: ‘La comunità di base – aggiunge Rahner – potrà esprimere non solo una persona sposata, ma anche una donna. Non vedo a priori alcun motivo di dare una risposta negativa a questo problema, tenendo conto della società di oggi e ancor più di quella di domani’.
Commenta Fontana: “Di questi tempi molti si saranno stupiti perché molti Pastori non siano intervenuti a proposito di leggi che colpiscono in modo molto duro principi fondamentali della legge morale naturale. Non sono rari i Vescovi e i parroci che non vedono di buon occhio che i cristiani ‘mostrino i muscoli’ (come essi dicono) in pubblico per la difesa dei principi non negoziabili. La spiegazione c’è in queste pagine di Rahner di quarantaquattro anni fa: ‘morale senza moralizzare’. Per Rahner si ‘moralizza’ quando ‘si proclamano norme di comportamento in maniera burbera e pedante, con indignazione morale, di fronte ad un mondo immorale senza condurlo realmente a quell’interiore esperienza essenziale dell’uomo che quest’ultimo ha e senza la quale anzi neppure i cosiddetti principi di diritto naturale potrebbero obbligarlo attualmente’. Evidente disprezzo per il concetto del moralizzare.
Commentiamo a nostra volta: Rahner confonde il moralismo farisaico, “burbero e pedante”, sempre controproducente e da evitare, con l’educazione, la denuncia e la giusta indignazione davanti a una corruzione morale dilagante, anche di chi si dichiara cattolico, frutto di relativismo dottrinale, sbandierato come progresso, civiltà e libertà, senza che si riscontri un’adeguata presenza di pastori e teologi sinceramente ligi al loro dovere di illuminare e avvertire le anime circa il retto cammino e le insidie ad esso annesse.
E non è da dire che Rahner abbia particolarmente brillato in quest’opera di richiamo morale, per cui prima di far da maestro gli sarebbe convenuto correggere i propri errori dottrinali e già avrebbe fatto molto per quella riforma dei costumi che egli predica, essendo proprio lui con le sue idee sbagliate uno dei maggiori responsabili della crisi dottrinale e morale che stiamo vivendo.
La Chiesa è certo accogliente verso tutti, come dice continuamente il Papa. Ma non nel senso di Rahner, che dà spazio a ogni equivoco, tornaconto, furbizia e disonestà. La Chiesa è rappresentata da Cristo come un banchetto di nozze (Mt 22,1-14), dove certo sono invitati anche ciechi, zoppi e storpi. Ma occorre l’“abito nuziale”, il quale è la rettitudine dell’intenzione, la ricerca di Dio, la lealtà dei propositi e la buona volontà di sottomettersi umilmente alla gerarchia della Chiesa.
Anche per chi vuol entrare o restare nella Chiesa vale il motto popolare “patti chiari, amicizia lunga”. Chè se invece uno entra o vuol restare giocando sull’equivoco, gabbando i cattolici ingenui, per interessi terreni, per ambizione, per ipocrisia, per far da maestro, per sete di onori, per farsi un nome, per vivere a scrocco, per prendersi gioco di Dio facendo quel che gli pare con l’idea che Dio avrà “misericordia” di lui, rifiutando i pesi e sacrifici per prendersi i vantaggi, o per interessi di denaro o di potere, Cristo lo “caccia fuori nelle tenebre” (v.14).

Kiko Arguello - Incontro vocazionale del Cammino Neocatecumenale a Murcia

29/08/2016 Encuentro vocacional del Camino Neocatecumenal con Kiko Argüello


Liberati dalla paura



Le meditazioni per gli esercizi spirituali quaresimali della Curia romana, predicati alla presenza di Papa Francesco dal 6 all’11 marzo nella casa Divin Maestro di Ariccia, sono state raccolte nel volume Le nude domande del Vangelo (Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, 2016, pagine 202, euro 15). Pubblichiamo ampi stralci del capitolo che il predicatore, religioso dei servi di Maria, ha intitolato con le parole dell’evangelista Marco (4, 40): «Perché avete paura?».
(Ermes Ronchi) «Perché avete paura? Non avete ancora fede?»: paura e fede, le due antagoniste che si disputano eternamente il cuore dell’uomo.
La parola di Dio, da un capo all’altro della Bibbia, conforta e incalza, ripetendo infinite volte: non temere. Non avere paura! Sulla bocca di Dio, di Gesù, di profeti, di donne e di angeli, di re e di mendicanti per centinaia di volte questa parola ci raggiunge, quasi fosse il “buongiorno” di Dio. A ogni nostro risveglio, a ogni inizio di giornata, come nostro pane quotidiano, il “non avere paura” di Dio. Sono mille i motivi dei nostri timori. Abbiamo la paura del bambino, quella del malato, del povero, dell’aggredito, del morente, del perseguitato. Mille motivi.
Ma il primo “perché” della paura risale al giardino dell’Eden. La paura entra nel mondo e non lo lascerà più. Entra non come figlia della nudità, come pretende Adamo, ma di un’altra madre. L’uomo si nasconde perché chi gli fa paura è Dio. Lo immagina dentro la logica colpa/punizione, peccato/castigo. Neppure immagina la possibilità della misericordia. Ha paura, diventa incapace di dialogo, riesce soltanto ad aggredire per difendersi. La paura di Dio è la paura delle paure. La peggiore di tutte, quella da cui tutte le altre discendono. Ed è figlia di una mancanza di fiducia.
Il peccato originale non racconta la semplice trasgressione di un divieto, ma lo stravolgimento del volto di Dio, che il serpente induce: vi ha dato mille alberi, è vero, ma vi ha negato il meglio; ha paura di voi, è geloso, vi ha proibito la cosa più importante. Non fidatevi. Adamo ed Eva credono a questa immagine capovolta di Dio: un Dio che toglie e non un Dio che dona; un Dio che ruba libertà, invece che offrire possibilità; un Dio cui importa più la sua legge che non la gioia dei suoi figli; un Dio dallo sguardo giudicante, da cui fuggire anziché corrergli incontro; un Dio di cui non fidarsi. Scrive padre David Maria Turoldo: «Sbagliarci su Dio è il peggio che ci possa capitare, perché poi ci sbagliamo su tutto, sulla storia, sull’uomo, su noi stessi, sul bene e sul male, sulla vita».
Il primo di tutti i peccati è un peccato contro la fede. Dall’immagine sbagliata di Dio nasce la paura delle paure. Dal volto di un Dio temibile discende il cuore impaurito di Adamo. Entrambi Gesù è venuto a riempire di sole.
Il filo che rammenda lo strappo nella trama d’amore tra Dio e l’uomo si chiama fiducia. Ciò che si oppone alla paura non è il coraggio, ma la fede: perché avete paura? Non avete ancora fede? I due antagonisti, inversamente proporzionali. «Venuta la sera, Gesù disse loro: “Passiamo all’altra riva”». Le barche, le piccole barche sono al sicuro, ormeggiate nel porto, ma non è per questo che sono state costruite. Sono fatte per navigare, e anche per affrontare tempeste. Non è nel segno del vangelo rimanere immobili in rada, trattenuti all’ancora. Il nostro posto non è nei successi e nei risultati trionfali, ma in una barca in mare, mare aperto, dove prima o poi durante la navigazione della vita verranno acque agitate e vento contrario. Vera formazione non consiste nell’insegnare le regole della navigazione, ma nel trasmettere la passione per il mare aperto, il desiderio di navigare oltre, passione d’alto mare.
Nella breve navigazione Gesù si addormenta. È stanco, viene da situazioni che gli hanno tolto forze preziose: erano venuti sua madre e i suoi fratelli, forse per riportarselo a casa, al sicuro nel porto del focolare domestico. E Gesù aveva riaffermato la sua distanza: «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?» (Marco, 3, 33). Sono quelli che con me partono per l’altra riva. Distacco e fatica di legami e di affetti, stanchezza del cuore. E Gesù si addormenta sfinito. E agli uomini pare di essere abbandonati, appena si alzano il vento e le onde dei tradimenti. È come se tutto il mondo fosse nella tempesta, una situazione in cui il diritto è del più forte, del più armato, del più crudele. E Dio sembra dormire! Mentre noi vorremmo che intervenisse subito, ai primi segni della fatica, al primo morso della paura, appena il dolore ci artiglia. Ma lui interviene, lui è lì, sorgente della forza dei rematori che non si arrendono, lui è nella presa robusta del timoniere, lui è nel coraggio condiviso, è negli occhi di tutti fissi a oriente a scrutare quanto manca della notte. E la barca, simbolo di me e della mia vita fragile, della grande comunità e dei suoi problemi, intanto resiste e avanza. E non per il morire del vento, non perché finiscono i problemi, ma per il miracolo umile dei rematori che non abbandonano i remi, che sostengono ciascuno la speranza dell’altro.
Dio non agisce al posto nostro, non ci toglie dalle tempeste, ma ci sostiene dentro le tempeste. «Non salva dalla sofferenza ma nella sofferenza, non protegge dal dolore ma nel dolore». L’espressione è di Dietrich Bonhoeffer: «Dio non salva dalla croce, ma nella croce». Un semplice cambiamento di preposizione e tutto acquista un’altra luce. Dio non porta la soluzione dei nostri problemi, porta se stesso, e dandoci se stesso ci dá tutto (Caterina da Siena).
Pensavamo che il vangelo avrebbe risolto i problemi del mondo, o almeno che con Gesù sarebbero diminuite le violenze e le crisi della storia, invece non è così. Anzi il vangelo ha portato con sé rifiuto, persecuzioni, altre croci, le quattro suore a servizio degli anziani uccise ad Aden, nello Yemen: «Sarete perseguitati, imprigionati, traditi, alcuni uccisi». Abbiamo tanto pregato e la pace non è venuta: questo miracolo fragile e mille volte infranto, eppure sogno di cui non ci è concesso stancarci. Non hanno colpa i discepoli per l’improvvisa burrasca, né per la loro paura. Non c’è da colpevolizzarsi per le nostre paure; se l’aver paura, se la debolezza fossero una colpa, sarebbe una colpa anche pregare. Io non so perché si alzano tempeste nella vita. Non lo sa Luca, non lo sa Marco, non lo sa Matteo: raccontano tempeste sempre uguali e tutte senza perché. Io, come voi, vorrei che non sorgessero mai, che il viaggio verso le altre rive della vita fosse rapido e facile, che il cammino della Chiesa fosse tracciato con chiarezza, invece ci sentiamo su un guscio di noce. E Dio sembra dormire, indifferente e muto. Guardo gli apostoli, gente di lago, gente che intanto fa le cose giuste nella tempesta, e sento: «Fa’ tutto quello che dipende da te, con il massimo impegno, e poi impara a fidarti perché tutto dipende da me». Tutto, come afferma san Paolo: «Noi sappiamo che tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio» (Romani, 8, 28). Tutto lavora per il bene, anche il lago. Tutto, anche le tempeste, anche i dubbi, perfino il peccato concorre al bene. Felix culpa: uno degli ossimori più belli della fede cristiana. Questa la speranza ultima, finale, totale: «Tutto sarà bene» (Giuliana di Norwich). Dio trae il bene anche dal male. Anche dal peccato, dalla morte, dalla croce, dalla tomba. Una storia di capovolgimenti attraversa tutta la Bibbia e la storia, anzi l’intero universo. Sembravano traversie ed erano opportunità.
Gli apostoli, in quella sera di paure, gridano a Gesù: «Ma non ti importa niente di noi?». Non t’importa della vita o della morte dei tuoi amici? Parole dure, di lacrime e paura: non è vero niente di ciò che dicevi, non ti interessa di noi! Gesù risponde, una risposta senza parole ma che ha la forza dei gesti: mi importa di te, mi importa la tua vita, tu sei importante per me. Mi importano i passeri del cielo e voi valete più di molti passeri, mi importano i gigli del campo e voi valete più di tutti i fiori della terra. Tu mi importi al punto che ti ho contato tutti i capelli in capo e tutta la paura che porti nel cuore (cfr. Matteo, 10, 29-31). Dio altro non fa che, in eterno, considerare ogni uomo più importante di se stesso. Io sono quell’uomo. E sono un uomo grato. Su questo mi appoggio, sul Signore che ripete: mi importa di te. A questo mi aggrappo, come un bambino che può dormire nella tempesta perché sa di essere in braccio a sua madre, presente anche nel cuore buio della più dura tempesta. Dio non salva dalla tempesta, ma nella tempesta. Io vorrei che il Signore gridasse subito all’uragano: «Taci!», che rimproverasse subito le onde: «Calmatevi!» e che alla mia angoscia ripetesse: «Pace!». Vorrei essere esentato dalla lotta, vorrei un cielo sempre sereno e luci chiare a indicare la rotta della mia barca. Ma io ho tanta luce quanta ne serve per il primo passo; ho tanta forza quanta ne basta per il primo colpo di remo. Gesù ci insegna che c’è un solo modo per vincere la paura, ed è la fede! Non la religione, ma la fede. «Quando è religione e quando è fede? La religione è quando fai Dio a tua misura; la fede è quando fai te stesso a misura di Dio» (David Maria Turoldo).
La fede si manifesta in tre passi: ho bisogno, mi fido, mi affido. E crede che nel tempo della tempesta Dio non è altrove, sta nel riflesso più profondo delle tue lacrime, a farsi argine alle tue paure. Dio è presente, ma non come vorresti tu, bensì come vuole lui. È presente, ma a modo suo: non agisce al mio posto ma insieme a me, non per esentarmi dalla tempesta ma per darmi forza dentro la tempesta. Facendo appello alla perseveranza, il tener duro, il non lasciarsi cadere le braccia, il riprendere in mano i remi, e il secchio per svuotare l’acqua. «Erano perseveranti» dice Luca descrivendo gli apostoli dopo l’ascensione (Atti, 1, 14), e la perseveranza è virtù umile, senza effetti speciali hollywoodiani, che non sta sotto i riflettori, ma è cemento della comunità. Anche la prima comunità cristiana di Gerusalemme è raccontata con questo aggettivo messo all’inizio, come un cartello indicatore, un segnale stradale: «Erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere» (Atti, 2, 42). La perseveranza non è clamorosa, non strappa applausi, ma è la virtù solida che fa avanzare la barca della comunità. Quando, come i dodici, non ti arrendi, ma continui a remare e a lottare, le mani sul timone, gli occhi a scrutare la riva, e fai tutto ciò che devi fare, allora lo incontri nel cuore della tempesta. E si fa argine e confine alla tua paura. Fede nuda è perseverare, anche nella burrasca, certo che Dio è sulla mia barca, che intreccia il suo respiro con il mio, la sua rotta con la mia. Magari addormentato. Magari muto. Ma se parla è per amore, se tace è ancora per amore.
Nel racconto parallelo di Luca Gesù chiede ai marinai: «Dov’è la vostra fede?» (Luca, 8, 25). I discepoli sono incantati davanti al silenzio improvviso del vento, alla bonaccia delle onde. Ma Gesù li scuote: dov’è la vostra fede? Dove sta? Nei segni dell’onnipotenza? In un Dio che mostra di essere in grado di piegare le regole della natura? Nel Dio onnipotente o nell’onniamante? Il termine “onnipotente” ripetuto in modo martellante nella liturgia non ricorre mai nel vangelo, mai sulla bocca di Gesù come attributo di Dio. Gesù è il racconto non della onnipotenza, ma della tenerezza di Dio, della sua combattiva tenerezza. Dio è amore, e non può tutto, può soltanto ciò che l’amore può. La sua non è la potenza di un chirurgo che interviene ed estirpa il male, la potenza di un esercito che distrugge i nemici, o di un vulcano che cambia la geografia di un’isola; è la potenza di un seme, di un amante, di una madre accanto al figlio malato, che non lo può guarire, ma sta accanto, e non se ne va, è lì cuore a cuore, forza, sicurezza, presenza che non abbandona. Dio non è un “Onnipotente che ama”, il re dal potere assoluto che si degna di amare; è un “Amore onnipotente”, che può amare le sue creature fino all’estremo, fino in fondo, senza limiti, come nessuno (cfr. Giovanni, 15, 13). Lui ama per primo, ama in perdita, ama senza contraccambio. Un Dio che può solo ciò che l’amore può. Non un Dio onnipotente, secondo il linguaggio politico o i nostri miti umani, che annienta i nemici, ma un Dio onni-amante, che può solo e tutto ciò che l’amore può. Onni-amante vuol dire bello, perché la norma, la regola, il nómos della bellezza è l’amore. Bello è ogni gesto d’amore, bellissimo è chi ti ama fino all’estremo.
Nel suo testamento, un prete operaio della diocesi di Milano, don Cesare Sommariva, ha lasciato queste semplici grandi regole: «A conclusione di tutto», scrive, «possiamo porre le tre leggi dell’umano educatore: non aver paura, non far paura, liberare dalla paura. Quello che conta è una relazione nuova, in cui non ci sia nulla che possa avere a che fare con la paura». Non avere paura, non fare paura, liberare dalla paura: una missione ecclesiale, una pedagogia da fare nostra, per la Chiesa tutta.
Non avere paura. Spesso noi, come gli adolescenti, abbiamo una faccia quando siamo nel ruolo, e un’altra faccia con gli amici; una faccia con i nostri familiari, un’altra con i collaboratori, un’altra ancora con i superiori. Maschere, che sono l’annuncio a noi stessi che non siamo liberi. E non siamo liberi perché abbiamo paura. Paura dei giudizi prima di tutto, e viviamo di sponda, di riflesso, d’eco di ciò che gli altri dicono di noi. Un po’ come sui social media, come facebook o twitter, dove chi li usa insegue l’effetto che ha sugli altri, il numero dei contatti o dei “mi piace”, di chi lo segue, ed è portato a vivere come al di fuori di se stesso. Abbiamo molte facce e abbiamo paura perché non siamo persone risolte, realizzate, riuscite. Avere una faccia sola e non avere paura, questo mi basterebbe per essere vero.
Non fare paura. Per un lungo tempo la Chiesa ha trasmesso una fede impastata di paura. Che ruotava attorno al paradigma colpa/castigo, anziché su quello di fioritura e pienezza. Il prete intimidiva i ragazzi del paese, lo fuggivamo. La paura è nata in Adamo perché non ha saputo neppure immaginare la misericordia, e il suo frutto che è la gioia: del cielo, del pastore, del padre buono, della donna che ritrova la moneta. La paura invece produce un cristianesimo triste, un Dio senza gioia. Qualcuno prova perfino piacere nel mettere soggezione, nell’intimidire gli altri. Diventa così l’anticreatore.
Liberare dalla paura. Significa operare attivamente per sollevare questo sudario della paura posato sul cuore di tante persone, la paura dell’altro, e passare dall’ostilità all’ospitalità, dalla xenophobía alla philoxenía. Gesù viene in aiuto a chiunque è sorpreso al largo, a chiunque è catturato dalla tempesta, a chiunque stia affondando. Lo invochiamo e verrà, ma dopo la nostra lotta con le onde, lui sì sgridando il vento e calmando il mare. Verrà dentro la nostra poca fede a salvarci da tutti i nostri naufragi. E la piccola barca di canne, il cuore, avanzerà verso l’altra riva, dove il grido di paura diventa abbraccio tra l’uomo e il suo Dio.
L'Osservatore Romano