mercoledì 11 gennaio 2017

Attrazione per lo stesso sesso

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di Costanza Miriano
Siccome sulla misericordia siamo tutti d’accordo, più o meno come sul no al degrado, facciamo un piccolo esercizio pratico. Parliamo piuttosto di come volere bene, fattivamente, concretamente, a qualcuno in carne ed ossa.
Posto che l’attrazione verso lo stesso sesso è un’inclinazione oggettivamente disordinata (Catechismo della Chiesa Cattolica-2358), che l’esercizio di questa attrazione fa sbagliare direzione all’uomo (è il significato etimologico della parola peccato), posto che tale attrazione, che pure conserva delle radici misteriose, nasce in relazioni ferite nell’infanzia che l’inclinazione stessa tende a riparare, riproponendo però e quindi cronicizzando la ferita originaria che voleva tamponare (ampia bibliografia specialistica), posto che l’attrazione omosessuale è una maschera e non la verità dell’amore (Platone, Simposio e larga compagnia), come possiamo volere il vero bene di una persona cara che prova attrazione verso persone del suo stesso sesso? Abbracciare non può voler dire “bene, rimani in questa dinamica che non lenisce le tue sofferenze”. Più che amore questo è non curarsi del destino dell’altro. 
Nella nostra cultura, affetta da analfabetisimo affettivo, cioè da un’idea infantile e sterile dell’amore – per due motivi: la fissazione romantica e il narcisismo emotivistico – siamo completamente dimentichi, anche tanti “etero”, del valore della differenza tra maschile e femminile, che però guarda caso è l’unica feconda, può originare l’unico amore che dice all’uomo la verità su se stesso. Ecco così un uomo che continua a cercare se stesso nel luogo sbagliato, cioè dentro di sé, invece che andare verso l’altro, segnaposto del totalmente Altro.
A ricordarlo ai nostri contemporanei è rimasta solo la Chiesa, che ha le idee molto più chiare di tanti cattolici, spesso inconsapevolmente imbevuti di un’ingegneria sociale “che con la sua mania di sperimentare diviene causa di molta sofferenza alle persone”, come scrive Juan José Pérez Soba nella sua postfazione al libro di John F. Harvey, Attrazione per lo stesso sesso, Accompagnare la persona, Edizioni Studio Domenicano. Lungi dallo sposare un atteggiamento di falsa misericordia che assomiglia tanto alla rimozione del problema, la Chiesa come madre non può dimenticare nessuno dei suoi figli, tanto meno quelli in difficoltà. Lo ricorda con coraggio, prendendosi insulti di ogni genere (ne so qualcosa anche io nel mio piccolo), perché il tabu più intoccabile in assoluto è rimasto quello dell’autodeterminazione dell’identità sessuale, e del diritto alla felicità – un ossimoro – affettiva, generativa, sentimentale, emotiva. Lo ricorda, la Chiesa, innanzitutto tenendo sempre distinto l’amore a ogni persona dal giudizio sulle sue azioni.
Lo fa non riducendo mai una persona alla sua inclinazione. Lo fa annunciando alle persone che provano un’attrazione che possono definirsi come vogliono, perché loro sono sempre più grandi della loro sessualità, e comunque possono decidere di non esercitarla. Lo fa in modi diversi, mantenendo sempre ferma la dottrina, suggerendo cammini pastorali diversi ma sempre chiari e netti. Uno di questi, i cui contorni sono definiti nel libro di cui sopra, è Courage, “un itinerario importante – dice l’arcivescovo di Bologna, monsignor Matteo Zuppi, che ne firma la prefazione – perché la Chiesa vuole essere vicina e materna a tutti, e se ci sono persone che vogliono affrontare la propria attrazione è prezioso fornire un itinerario pastorale. Certo, non è l’unico, perché richiede consapevolezza e decisione”.
Courage è un percorso concepito in oltre cinquanta anni di attività negli Stati Uniti dal padre Salesiano Harvey e ora promosso dai vescovi cattolici in quattro continenti. L’obiettivo è aiutare queste persone a vivere nella castità, trasformando le energie affettive in servizio agli altri, fratellanza, amicizia, testimonianza. Gli strumenti proposti, attraverso un cammino in dodici punti lungamente sperimentato, sono lettura spirituale, messa, frequenza ai sacramenti, insomma una vita spirituale piena e ricca – quella peraltro alla quale sono chiamati tutti i battezzati – e soprattutto un accompagnamento di amicizia vera, perché senza una compagnia non si va a Dio. “Non è un comando – sottolinea monsignor Zuppi – è solo una proposta, ma è molto seria”: il cammino infatti è fondato su solide basi dottrinali e teologiche, ma ha un approccio multidisciplinare (psichiatri psicologi antropologi filosofi popolano la ricca bibliografia del volume): “l’abbondante grazia di Dio aiuterà a indirizzare tante anime verso la felicità dell’Amore, proposto a tutti – dice Zuppi – possibile per chiunque, liberante, giogo dolce e leggero, proposta di quel “seguimi” che è la prima e ultima parola di Gesù a Pietro e a ogni chiamato”.
“La Chiesa – dice Alberto Corteggiani, responsabile di Courage per l’Italia – affida ai vescovi, in quanto successori degli Apostoli e segno visibile di quella Verità che salva, il compito di creare contesti sicuri, come i gruppi di condivisione Courage, in cui le persone possano aiutarsi reciprocamente, sotto la guida paterna dei loro pastori, a scoprire la loro autentica vocazione all’amore. Quell’amore che è casto, come ha coraggiosamente ricordato papa Francesco parlando ai giovani torinesi. Offrire un’alternativa positiva all’ideologia gay fatta propria dai principali media, evitando il muro contro muro, passa anche attraverso questi gesti positivi di autentica accoglienza. In questo modo i vescovi contraddicono nei fatti l’idea falsa secondo cui la Chiesa condannerebbe come ‘persone sbagliate’ chi prova attrazione per lo stesso sesso. Al contrario la Chiesa afferma che la persona è sempre buona, a prescindere dal suo comportamento o orientamento sessuale, e proprio per questo mette in guardia da quegli atteggiamenti che possono distruggerla causandone l’infelicità”.
Le persone con a.s.s. non sono quindi cristiani di seconda categoria, anzi, sono chiamati a un cammino che o è radicale, o non è. Courage (per contatti courageitalia.it) non si pone come obiettivo primo l’inversione della tendenza, ma trasmettere la certezza dell’amore totale e incondizionato di Dio, che sta sempre dalla nostra parte. In questo atteggiamento di fondo di grande tenerezza padre Harvey ci va giù duro, senza preoccuparsi proprio per niente del pol corr: “l’uomo che si identifica come omosessuale continua a nutrire odio verso se stesso, si odia profondamente, spesso si annega nell’alcool o prende in considerazione il suicidio. Questo spirito di autocondanna genera amarezza verso la società e, per chi crede, verso Dio” (non è dunque la supposta omofobia né lo stigma sociale a rendere infelici certe persone, né l’ottenimento dei cosiddetti diritti civili è la soluzione); sottolinea con forza che nessuno studio ha potuto provare l’esistenza di un’a.s.s. di origine genetica, ossia innata, dice che gli atti omosessuali sono per loro natura fonte di frustrazione perché si cerca nell’altro ciò che manca a se stessi, ma la relazione fra due persone con la stessa ferita non è duratura, l’omosessuale promiscuo ha paradossalmente paura dell’intimità (io tenderei a dire che questo vale anche per gli eterosessuali, cioè per chiunque viva la sessualità in modo egoistico e non aperto alla fecondità), non è ingiusto discriminare chi fa propaganda omosessualista in modo aperto nella collocazione di bambini per adozione o affido, nell’assunzione di insegnanti o allenatori, e infine “la Chiesa si oppone  sia all’ingiusta discriminazione delle persone sia a qualsiasi legislazione sui presunti diritti gay”.
Quanto al riorientamento dell’attrazione, è tenuto sullo sfondo, cioè ritenuto da incoraggiare ma non obbligatorio: che la ferita guarisca non è scontato, ma che noi siamo più grandi della nostra ferita, questo sì, è certo.