lunedì 2 gennaio 2017

Colui che è destinato a non spegnersi mai. Tenebra ed eccesso di luce



(Inos Biffi) Immerso, com’è, nel flusso del tempo, l’uomo non riesce a coglierne compiutamente il senso. Gli è solo possibile interpretarne un tratto, ma siccome l’insieme gli sfugge, egli rimane alla fine completamente confuso. Il motivo del dipanarsi degli anni, dello scorrere delle stagioni, permane un enigma. Per poterlo sciogliere, bisognerebbe essere collocati sopra il tempo e comprenderlo nella sua totalità. Ecco perché, a ben vedere, non è possibile una vera ed esauriente filosofia della storia: la ragione si trova bloccata nel tempo; ne scorge dei percorsi; ne ipotizza delle motivazioni, ma a corto raggio.
Bisognerebbe che l’uomo esorcizzasse la morte, che invece con appuntamento implacabile, irreversibilmente si incunea nello svolgersi della vita, creando la persuasione o dando l’impressione che in essa avviene il suggello dell’uomo, o è pronunziata su lui l’ultima, definitiva, parola.
C’è solo Uno che il tempo non riesce a spegnere e a disfare, al quale non può affermare il suo potere e sul quale assolutamente non può gravare le sue impronte di morte: è Gesù Cristo, che del tempo è il Signore — «Re e Creatore dei tempi» —, com’è detto in un inno di Quaresima.
Ma occorre precisare ulteriormente questa signoria di Cristo, arrivando a riconoscere che lo stesso tempo è stato creato da Dio a servizio di Gesù, affinché sorgesse lo spazio della sua epifania temporale e si delineasse l’area della sua manifestazione, e quindi della sua tradizione. Alla radice dell’esistenza dei giorni, degli anni, dei secoli si trova l’amore divino che, volendosi donare agli uomini, tramite il tempo si volge e si inclina verso di lui.
Da un lato, quindi, non sorprende che l’uomo abbia timore del tempo, che venga percorso dall’ansia e lo trascorra sospeso all’inquietudine degli eventi che gli possano succedere: dall’altro lato, però, non si lascia abbattere nell’avvilimento, proprio a motivo di Gesù, che tiene il tempo nelle sue mani onnipotenti, che lo plasma e lo dispone come luogo di grazia e di redenzione. 
Per quanto oscuro si possa presentare il cammino, il credente non si sente oppresso e ottenebrato. Il suo avvilimento è vinto dalla speranza, che non lo lascia né in balìa di se stesso coi suoi ondeggiamenti, né sospeso agli incerti e impreveduti eventi.
La mano che lo tiene e lo accompagna è la mano del Figlio di Dio, l’Eterno nato nel tempo, che diviene compagno di viaggio, col quale può intrattenere un colloquio continuo, o un’incessante preghiera, nella molteplicità delle forme che essa può assumere, come rendimento di grazie, gioioso compiacimento dei doni di Dio, contrita compunzione per le colpe commesse, fiducioso abbandono alla provvidenza misteriosa del Padre, ferma speranza che non verrà mai abbandonato, a dispetto di tutto quanto potesse attestare il contrario.
Prima della nostra risurrezione, quando ancora la Luce del Creatore non pervade tutte le cose, i nostri occhi ancora non riescono a penetrare negli antri remoti delle cose e a decifrare i segreti di quello che avviene. Essi rimangono come anfossi riposti e segreti.
Durante la vita terrena possiamo paragonarci a dei ciechi condotti per mano da uno che vede. È quanto avviene nel credente, per il quale la guida che vede è lo stesso Signore Gesù, «Luce del mondo», seguendo il quale non si cammina avvolti nelle tenebre, ma come nel cono di una lucerna accesa (cfr. Giovanni 8, 12).
È vero che varie tracce di oscurità continuano a segnare il percorso del discepolo del Signore e che il buio non si è ancora del tutto diradato: ma questo è lo stato che distingue esattamente la condizione della fede, prima della visione; lo stato, cioè, della prova o della speranza, quando siamo chiamati ad affidarci in confidente abbandono alla Parola di Dio e ad arrischiare su di essa la vita, nell’attesa che l’alba nasca e si avVII a brillare in tutto il suo fulgore.
Anche ai vertici dello stato mistico e di un’esperienza profonda e arcana di Dio si suole parlare di tenebra, che in verità non è assenza ma eccesso ed eccedenza di Luce. Allora l’oscurità diviene l’indice delle prove attraverso le quali la fede si purifica in una laboriosa e dolorosa fedeltà, che non viene meno nella tentazione, ma resiste sostenuta dalla grazia. Gesù stesso è passato attraverso questa oscurità e questa notte, quando nelle ore della sua agonia orante nel Giardino degli Ulivi professava la sua piena rassegnazione e il suo incondizionato abbandono al Padre e ai suoi misteriosi disegni, che si stavano compiendo.
Torniamo al tema del tempo, per dire che i suoi segreti solo Dio, che del tempo è il Signore, li conosce e li scruta. E soprattutto ce li elargisce ricolmi di grazia, così che trascorrendo non si diluiscano in perdita, ma concorrano alla nostra edificazione e maturazione spirituale.
Noi siamo chiamati ad affidarci a lui in tutte le circostanze, poiché egli si fa trovare in ogni frammento di tempo. 
Tutti i nostri momenti sono destinati a essere riscattati con il nostro abbandono alla volontà del Padre, che ci viene incontro in ogni attimo e che crea e accompagna il tempo, perché sia per noi il luogo del suo dono e del suo amore. 
Gesù ha fiaccato e abbattuto il «Principe di questo mondo» (cfr. Giovanni 12, 31), e noi possiamo senza esitazione affidarci al Signore, al quale appartiene «ogni potere in cielo e sulla terra» (Matteo 28, 18). Senza dubbio, un affidamento laborioso, non esente da chiazze di oscurità, ma misericordiosamente sostenuto dall’incessante grazia divina.
L'Osservatore Romano