mercoledì 18 gennaio 2017

Il teologo perturbante



Anticipiamo ampi stralci di un articolo tratto dall’ultimo numero di «Vita e pensiero». Di Michel de Certeau è appena uscita la traduzione italiana del secondo volume di Fabula mistica. XVI-XVII secolo (Milano, Jaca Book, 2016, pagine XXXVII + 309, euro 30) curata da Silvano Facioni. Secondo l’edizione stabilita da Luce Giard e pubblicata nel 2013 da Gallimard, il libro raccoglie testi inediti o parzialmente dati alle stampe e analizza le “scritture mistiche”, trattando del Cusano, di Giovanni della Croce, Surin e Pascal e arrivando alle glossolalie studiate da Saussure.
(Natalie Zemon Davis) Michel de Certeau è conosciuto in Nord America solo nell’ambiente universitario, ma in Francia era una celebrità, considerato un insigne critico culturale, un innovativo storico della religione di inizio modernità nonché un pensatore religioso che nella vita e nel lavoro perseguiva una forma di cattolicesimo particolarmente impegnata, aperta e generosa. Al suo funerale a Parigi, nel 1986, tra i banchi della chiesa gesuita di Sant’Ignazio e tra le centinaia di persone in lutto stipate nella piazza antistante, si diffuse dagli altoparlanti la voce di Edith Piaf: Non, je ne regrette rien (“No, non rimpiango niente”). La canzone era stata preceduta dalla lettura sia della Prima Lettera ai Corinzi, nella quale Paolo afferma che «Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti», sia della poesia di un mistico del XVII secolo a proposito di un’“anima vagabonda” alla ricerca dell’amore divino in ogni parte del mondo. Questi versi, che erano stati richiesti dallo stesso Michel de Certeau, suggeriscono quanto singolare fosse la sua visione spirituale e accademica.
Che scrivesse di follia e misticismo nel XVII secolo, dei movimenti di resistenza sudamericani di ieri e di oggi o della pratica della vita quotidiana nel XX secolo, de Certeau aveva sviluppato uno stile peculiare nell’interpretazione delle relazioni sociali e personali.
A differenza di quanti descrivevano le società evocando quelle che egli chiamava le loro omogeneità ed egemonie — ciò che le unificava e le controllava — de Certeau intendeva identificare, all’interno dei sistemi di potere e di pensiero, la presenza creativa e perturbatrice dell’“altro”: l’estraneo, lo straniero, l’alieno, il sovversivo, l’elemento radicalmente differente. Lo individuò non solo nei modi in cui le persone immaginavano figure distanti da loro stesse (come nel celebre saggio di Michel de Montaigne sui “cannibali” dell’Amazzonia), ma anche in comportamenti e gruppi vicini e familiari, nelle onnipresenti tensioni al centro dell’intera vita sociale, dalla scuola alle istituzioni religiose, ai mass media.
Certo, negli anni sessanta e settanta, quando de Certeau stava acquisendo notorietà, in letteratura, filosofia e psicanalisi comparivano di continuo nozioni di “alterità”: la sua originalità consistette nei molteplici modi in cui concepì le figure dell’“altro” e la loro applicazione in numerosi contesti. Coniò il termine “eterologie” per descrivere le discipline nelle quali esaminiamo noi stessi in relazione all’alterità: la storia e l’etnografia, ad esempio, potrebbero essere “scienze dell’altro” se si confrontassero con le supposizioni spesso deformanti che includiamo nella nostra comprensione di epoche e luoghi diversi. Si occupò delle istituzioni accentratrici del passato per mostrare come definissero se stesse escludendo le voci e le convinzioni divergenti oppure fagocitandole.
Stato e Chiesa, tuttavia, non sono mai state le uniche fonti di potere e autorità nel medioevo e in epoca moderna. In movimenti religiosi come il misticismo o nel persistente sapere popolare, de Certeau vide sempre alternative vitali a quei due ambiti normativi. I suoi eroi sono spesso vagabondi, pellegrini, missionari e nomadi, come il visionario seicentesco Jean de Labadie, che iniziò da gesuita, passò poi a predicare in Francia e Svizzera una propria radicale forma di religione riformata e finì col fondare nei Paesi Bassi una comunità protestante.
Questa prospettiva e la vita stessa di de Certeau si prestano a interessanti confronti con quelle di due suoi contemporanei, Michel Foucault e Joseph Ratzinger, le cui opere e riflessioni si sono parimenti concentrate sull’analisi del potere e delle linee di confine fra le istituzioni. Tutti e tre furono toccati dalle proteste del Sessantotto. Il concetto chiave nell’interpretazione foucaultiana delle relazioni sociali e della comunicazione era il potere: appannaggio delle autorità centrali — monarchi, esperti di medicina, preti — riproduceva il proprio messaggio nella mente e nella coscienza degli individui.
Quanto a Ratzinger, i movimenti studenteschi del Sessantotto lo portarono a precisare la sua posizione sul concilio Vaticano II. Dal suo punto di vista, la dottrina della Chiesa non doveva cedere alle false influenze di secolarismo, relativismo, pluralismo religioso, soggettivismo e radicalismo economico.
Nato nel 1925 in Savoia, de Certeau da adolescente ne aveva percorso i sentieri montani portando messaggi ai combattenti della Resistenza contro l’occupazione tedesca. Nel 1944 intraprese gli studi per il sacerdozio e nel 1950 entrò nell’ordine gesuita scrivendo a un amico «Credo che Dio mi stia chiamando in Cina». Tempo addietro il celebre padre gesuita Pierre Teilhard de Chardin aveva scritto i suoi libri di geologia e teologia proprio dalla Cina, ma nel 1949 il paese era stato occupato dai comunisti e ai gesuiti era stato ordinato di andarsene. Questa difficoltà aveva forse reso la partenza per la Cina ancor più allettante agli occhi di de Certeau, che però non riuscì mai a recarvisi. I suoi studi lo condussero nel pieno dell’esplosione del rinnovamento teologico guidato da Henri de Lubac, eroe della Resistenza cattolica, di cui divenne uno degli studenti prediletti a Lione. De Lubac scuoteva alla base i presupposti più rigidi e sfidava di continuo i confini convenzionali. In un saggio del 1946 in cui seguiva i mutamenti di significato della parola “soprannaturale” da Agostino in poi, arrivò a sfidare la netta distinzione fra il regno della natura umana e del mondo naturale, da un lato e, dall’altro, l’ordine soprannaturale e il divino. Il desiderio di Dio era “naturale” negli esseri umani, scriveva, ma solo perché Dio lo aveva infuso: un “prerequisito divino”. Per quanto soddisfacente questa visione potesse apparire agli occhi dei cattolici, membri importanti della gerarchia vaticana temettero che potesse indebolire la distinzione fra la Chiesa spirituale e i problemi mondani della quotidianità. Nel 1950 Pio XII ordinò a de Lubac di interrompere l’insegnamento pubblico e censurò il suo libro sul soprannaturale, cosa che tuttavia non impedì allo studioso di affermare, con una frase che de Certeau non dimenticò mai: «La Chiesa deve sempre lasciare tutte le porte aperte affinché per- sone di differenti opinioni possano arrivare alla verità».
De Certeau cominciò a scrivere ai tempi del seminario e sin dalle pubblicazioni iniziali emergono i suoi passi verso la “scienza dell’altro”. Poneva l’esperienza al cuore della vita religiosa, ma notava come vi fosse un profondo divario fra esperienza e desiderio spirituale: i credenti aspirano ad avvicinarsi a Dio, ma spesso lo sentono assente. Tale alienazione è inevitabile: nella concezione di de Certeau, la presenza di Dio può essere solo «imperfetta ed effimera», e nondimeno riconoscibile, se si comprende come i sentimenti umani mutino di minuto in minuto e come gli uomini fatichino nel trovare le parole per catturare quell’esperienza sino in fondo. Inoltre ogni esperienza religiosa, non importa quanto solitaria, è pervasa dalla presenza di altri, nella storia che ciascuno ha assorbito come nel linguaggio col quale si pensa e si prega.
De Certeau scoprì che l’esperienza di questa ricerca attraversava il diario spirituale del gesuita rinascimentale Pierre Favre, scritto durante i suoi viaggi di predicazione in Europa negli anni quaranta del Cinquecento, mentre cercava in se stesso segni dell’amore di Dio. Oggetto della sua dissertazione dottorale e da lui tradotto in francese dal latino e dallo spagnolo, il pellegrinaggio interiore di Favre esemplificava agli occhi di de Certeau «il sentimento del mistero che scaturisce dall’esperienza». Per de Certeau, tuttavia, quel mistero non era abbastanza profondo: fu perciò attratto dai “mistici selvaggi” del XVII secolo, in particolare dal gesuita Jean-Joseph Surin, che divenne — disse egli stesso — il suo “compagno”, «il fantasma che abita la mia vita». Surin non era un compagno tranquillo: predicatore errante e direttore di anime, alla ricerca di segni di Dio fra gli umili, nel 1634 Surin era stato chiamato a Loudun per praticare a Giovanna degli Angeli, priora delle Orsoline, un esorcismo contro i demoni che la possedevano. Riuscì a curarla ma al costo, volontariamente offerto, del suo stesso, fragile equilibrio emotivo. Soffrì in silenzio per quasi vent’anni in un’infermeria gesuita. Ne emerse nel 1656 e iniziò a scrivere con impeto sulla ricerca mistica, proclamando: «Vorrei la voce di una tromba, una penna di bronzo», «Vorrei che dalla mia penna si sprigionassero fiamme».
De Certeau passò al setaccio varie biblioteche per ritrovare i manoscritti delle opere di Surin, assieme alle sue lettere di confessione privata e di guida spirituale: le pubblicò nel 1963 e nel 1966, accompagnate da ampi commenti e riflessioni. Gli anni sessanta portarono altre scoperte: nella speranza di collegare teologia e psicologia, assieme a un piccolo gruppo di altri gesuiti de Certeau si volse allo studio della psicanalisi diventando, nel 1964, uno dei membri fondatori dell’École freudienne di Parigi, l’istituto di Jacques Lacan. De Certeau elaborò però una propria versione dei concetti sociali e storici di “altro”, superando gli esempi e le rigide categorie di Lacan. Alla morte nel 1981 del grande psicanalista, de Certeau lo descrisse come un girovago stravagante, che dava il proprio meglio nell’espressione delle proprie idee e nella pratica della psicanalisi, ma si rivelava un fallimento quando si lasciava prendere dalle faide infuocate delle istituzioni che aveva fondato.
Di particolare importanza, in quegli anni sessanta, furono i cambiamenti introdotti dal concilio Vaticano II. Da Parigi, de Certeau rispose con entusiasmo: a suo avviso le riforme sostenute dal concilio costituivano una “rottura” creativa con gli inflessibili schemi gerarchici del passato. Per esprimere l’esperienza delle persone, esse invocavano «molteplici linguaggi di fede» invece del remoto linguaggio clericale. De Certeau riteneva che il Vaticano II avrebbe dovuto portare la Chiesa a immergersi completamente nelle tematiche del mondo moderno, riconoscendo quanto ancora avesse da imparare su guerra e violenza, controllo delle nascite, tutto ciò che accadeva nelle città e su stampa e televisione (le reazioni di de Certeau al concilio Vaticano II sono state pubblicate nella rivista gesuita «Christus», 12, 1965, pp. 147-163, e 13, 1966, pp. 101-119; una sintesi si trova in François Dosse, Michel de Certeau: le marcheur blessé, 2002, cap. 8). Questo doveva essere il compito della Chiesa, non solo in Europa ma in tutto il mondo. Questo, pensava de Certeau, era stato lo spirito di Ignazio di Loyola e dei suoi compagni gesuiti all’inizio del XVI secolo. E tale sarebbe stato anche l’obiettivo di de Certeau fra il 1966 e il 1968 e negli anni successivi, durante i quali viaggiò spesso in America latina — soprattutto in Brasile e in Messico — attirato dai sacerdoti della teologia della liberazione, che lavoravano a contatto con i poveri e ritenevano che la Chiesa dovesse lottare contro la miseria sociale nella stessa misura in cui si impegnava per salvare le anime. Rimase molto colpito dalle forme di spiritualità popolare osservate durante i suoi viaggi e in quei movimenti messianici ed estatici non vide comportamenti aberranti che la Chiesa dovesse estirpare, bensì «la voce interiore di un continente ancora culturalmente cattolico». Scrisse anche parole di condanna per la pratica della tortura sotto la dittatura militare in Brasile.
Nel 1968 de Certeau interpretò il movimento studentesco con un’altra “rottura” creativa e nell’estate scrisse su un periodico gesuita: «Lo scorso maggio la parola è stata presa come nel 1789 è stata presa la Bastiglia. La piazzaforte occupata è quel sapere detenuto dai dispensatori di cultura, destinato a mantenere l’integrazione o la reclusione degli studenti lavoratori e operai entro un sistema che prestabilisce la loro funzione» (in La prise de parole. Pour une nouvelle culture, 1968; trad. it. La presa della parola e altri scritti politici, 2007, pp. 37-38).
Come aveva visto i mistici del XVII secolo alla difficoltosa ricerca di una lingua che potesse comunicare la loro esperienza, e così come aveva sollecitato la Chiesa a sviluppare forme molteplici di espressione per dar voce alla spiritualità moderna, allo stesso modo avvertiva ora che gli studenti protestavano per ampliare il proprio diritto di parola, in alcuni casi «mettendo in discussione l’intero sistema».
Questo discorso venne però presto “ricatturato” dalle istituzioni governative e accademiche che, disse de Certeau, invece di creare quella struttura pluralistica «invocata dagli eventi [del Maggio]», ovviamente restaurarono l’ordine gerarchico. Tuttavia, sosteneva, lo storico potrebbe tener viva la speranza di cambiamento, fornendo un resoconto lucido delle relazioni fra le istituzioni esistenti e gli studenti “altri”. Nel 1971 fu chiesto a de Certeau di inviare all’Institut Catholique di Parigi alcuni testi per un dottorato in teologia (ne possedeva già uno in studi religiosi): il suo saggio sul significato del cristianesimo fu respinto ma, invece di modificarlo per soddisfare i requisiti della facoltà, de Certeau lo pubblicò col titolo La rupture instauratrice. Seguirono altri saggi e persino un dibattito radiofonico con l’intellettuale cattolico progressista Jean-Marie Domenach. Gesù Cristo, sosteneva de Certeau, è la figura centrale, l’Altro, presente ma anche assente; la sua venuta e la sua morte hanno fondato il cristianesimo, ma l’evento significativo non è la crocefissione bensì il sepolcro vuoto. «Il “seguitemi” di Gesù viene da una voce eclissata, ormai irrecuperabile per sempre».
Eppure il cristiano vuole credere, vuole correre il rischio, e così intraprende un percorso verso Cristo: il carattere della vita cristiana, tuttavia, dev’essere compreso alla luce delle circostanze storiche. Nel mondo secolarizzato del tardo XX secolo — spiegava de Certeau — con strutture non religiose ovunque dominanti, le istituzioni della Chiesa non potevano essere il solo luogo dell’azione cristiana nel mondo.

L'Osservatore Romano