sabato 28 gennaio 2017

La Cassazione sdogana la prostituzione



di Tommaso Scandroglio.
È giusto tassare l’attività della prostituzione? Nel nostro ordinamento giuridico è già presente la risposta che è di segno negativo. La prostituzione di per se stessa secondo la legge italiana non rappresenta un reato, ma ciò non significa che è un’attività lecita.
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Signora Anna, la chiameremo così. La signora Anna ha un florido conto corrente, molti immobili e un alto tenore di vita. Nonostante questo non aveva mai denunciato all’Agenzia delle entrate un solo euro. Per tale motivo il fisco aveva spiccato un accertamento sul suo conto. Lei si era difesa dicendo che gli alti proventi erano da accreditarsi alla sua attività di meretrico e quindi non tassabili. Il fisco invece pensava che su quell’attività la signora Anna doveva pagare le imposte.
La prostituta non ci stava a pagare e quindi faceva ricorso alla Commissione tributaria regionale (Ctr), la quale dava ragione al fisco. Infatti una normativa dell’Unione Europa inquadra i servizi delle prostitute come «prestazione di servizi retribuita». La vicenda approdava infine in Cassazione. Gli ermellini – rifacendosi anche alla giurisprudenza della Corte di Giustizia europea – il 4 novembre scorso hanno dichiarato con la sentenza 22413/2016 che l’attività di meretricio è tassabile non perché rappresenti “attività d’impresa” – dato che la signora Anna non ha aperto partita Iva –  ma perché i proventi sono qualificabili  come «redditi diversi derivanti dall’attività di lavoro autonomo non esercitata abitualmente o dalla assunzione di obblighi di fare» (cfr. artt.6 e 67 del d.P.R. 29 settembre 1973 n.602). E quindi la signora Anna dovrà pagare l’Irpef. Qualora invece l’attività di meretrico fosse abituale scatterebbe anche l’Iva e dunque ogni étera dovrebbe emettere fattura o scontrino fiscale. Incassata l’Irpef – l’imposta sui redditi delle persone fisiche è espressione qui quanto mai appropriata –  da parte dello Stato lenone, vien da chiedersi se anche il cliente potrebbe detrarre tali spese dalla propria dichiarazione dei redditi.
Ma il punto è un altro e si coagula intorno a questa domanda: è giusto tassare l’attività della prostituzione? Nel nostro ordinamento giuridico è già presente la risposta che è di segno negativo. La prostituzione di per se stessa secondo la legge italiana non rappresenta un reato, ma ciò non significa che è un’attività lecita. Infatti la famigerata legge Merlin considera reato non solo lo sfruttamento della prostituzione (la donna non è consenziente), ma anche l’induzione alla prostituzione, il suo agevolamento e l’organizzazione della stessa (casi in cui la donna può essere consenziente). Inoltre è punito l’adescamento, cioè l’invito da parte della prostituta ad avere rapporti sessuali a pagamento. Qualora invece l’invito provenga da parte del cliente non c’è illecito giuridico.
Va da sé che se la prostituzione fosse condotta giuridicamente lecita non si spiegherebbe il motivo per cui lo Stato abbia deciso di sanzionare l’induzione alla prostituzione, il favoreggiamento e l’organizzazione della stessa. Ergo la prostituta che accetta la proposta di un cliente di avere un rapporto sessuale a pagamento pone in essere una condotta che è meramente tollerata dall’ordinamento giuridico e non è certamente qualificata come attività lecita. Questo perché anche per lo Stato italiano è contrario all’ordine pubblico – cioè contrario ai principi che sostengono il vivere comune – fare commercio del proprio corpo. E dunque anche per il nostro ordinamento giuridico, oltre che per la morale naturale, le facoltà sessuali sono un bene indisponibile. Per questo motivo il contratto stipulato per comportamento concludente tra cliente e prostituta è nullo perché contrario al buon costume e all’ordine pubblico e quindi invalido. In questo senso nessun cliente potrà trascinare in giudizio la prostituta perché ad esempio non soddisfatto delle sue prestazioni. Le somme versate a motivo di questi accordi non sono infatti ripetibili. Altra prova che lo Stato non considera degno di tutela il meretricio perché contrario al vero bene comune.
Ora invece la Cassazione ci dice che i proventi della prostituzione sono tassabili. Questo significa che quelle somme di denaro concorrono al bene comune, sono un bene economico per tutta la collettività e che dunque l’attività di meretricio è un vero e proprio lavoro, una vera e propria professione (tra l’altro, da qui all’abrogazione della legge Merlin il passo potrà essere breve). Ma la Cassazione erra in questo giudizio perché la prostituzione lede la dignità della donna e del cliente e corrompe anche il tessuto sociale, senza tener conto anche di tutto l’indotto criminale che intorno a tale attività si è sviluppato. Per queste ragioni lo Stato non tassa i proventi delle attività criminali perché soldi sporchi, non degni di essere inquadrati in nessuna disciplina giuridica, nemmeno quella fiscale, eccezion fatta per quella penale, anche se potrebbero venire qualificati come «redditi diversi derivanti dall’attività di lavoro autonomo esercitata abitualmente o non abitualmente o dalla assunzione di obblighi di fare», tanto per citare la sentenza della Cassazione.
Comunque non dobbiamo tanto spaccarci la testa per interpretare la sentenza dei giudici. La Cassazione si è pronunciata seguendo semplicemente il brocardo latino “pecunia non olet” (il denaro non puzza), espressione che secondo la tradizione viene messa in bocca all’imperatore Vespasiano il quale era stato rimproverato dal figlio perché aveva imposto una tassa sugli orinatoi gestiti dai privati. E forse proprio alla Roma imperiale si sono ispirati i giudici nostrani dato che una tassa sulle lucciole fu posta già da Caligola e pare che arrivasse fino al 20% degli introiti. Meno della attuale Iva.