lunedì 16 gennaio 2017

Saper pregare è la via della felicità

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di Arturo Celletti per Avvenire
Siamo nel cuore di Roma. Dalle finestre della chiesa delle Santissime Stimmate di San Francesco osserviamo in silenzio largo Argentina. C’è il sole. Siamo qui per incontrare don Fabio Rosini e per trovare una risposta a tante domande. Perché questo sacerdote severo, ma anche pieno di umanità, è da anni un punto di riferimento per tanti ragazzi della capitale? Perché le sue catechesi sono così partecipate, così apprezzate, così “contagiose”? Perché il suo primo libro, Solo l’amore crea, resta in testa alle classifiche da settimane senza nessuna vera promozione? Don Fabio non ama le interviste. Teme di non essere capito. Di apparire diverso da quello che è. Noi apriamo il suo libro e leggiamo una paginetta scritta in corsivo. È la dedica alla mamma e al papà che non ci sono più. «... Da loro ho avuto tante buone certezze, i migliori insegnamenti, eppure con loro sono stato ignorante e cattivo, li ho addolorati, offesi e spazientiti. Ma nessuno ha pregato per me più di loro. I conti non tornano». Quelle ultime quattro parole ci fanno pensare. «È così, i conti non tornano. Quello che faccio per Gesù Cristo è nulla rispetto a quello che Gesù Cristo fa per me». Ancora una pausa leggera. «Penso sempre all’oceano di generosità che Lui mi regala ogni giorno». Per qualche secondo gli occhi del sacerdote si fermano su un crocifisso. Era sul letto dei suoi genitori. «Papà, ordinario di fisica dell’atmosfera alla Sapienza. Era un uomo limpido, giusto. Mamma, con i suoi difetti, mi ha insegnato la forza della misericordia. E poi mi ha regalato la vocazione al sacerdozio».
Ci racconta quel “regalo”?
«Ero un diciasettenne con le asprezze di tanti diciassettenni. Ero arrabbiato. Qualche volta aggressivo. Un giorno passai il limite e umiliai mamma, davanti ad altre persone, con un disprezzo arrogante. Lasciò Roma disperata e si rifugiò in un paesino delle Marche. Passò ore nella cappellina dei frati cappuccini proprio accanto al cimitero. Pregò da sola. In silenzio, con le lacrime agli occhi, davanti all’immagine di Maria. Vede, ancora una volta, i conti non tornano: alla mia cattiveria, lei risposte con la sua umanità. Sette anni dopo, mentre partivo missionario per la Thailandia, mi raccontò la preghiera di quel giorno: «Sapevo che finiva così, sapevo che il Signore ti prendeva».
Chi è don Fabio Rosini?
«Ho sempre nella testa il ritratto che mi fece una mia collaboratrice. “Fabio, tu sei semplice quando parli perché sei complicato dentro”. È un po’ così: capisco le persone perché ho tante debolezze, tanti bivii aperti sul rettilineo. Sono un uomo molto debole, ma anche molto fortunato».
Fortunato?
«Sì, fortunato perché ho un alleato incredibile. Ho Lui al mio fianco. Guardo Cristo Crocifisso e scopro che per Lui valgo più della sua vita. Qualche volta uso un’immagine facile per farmi capire. Se San Marino dichiara guerra all’Italia ci facciamo una gran risata, ma se prima San Marino si allea con gli Stati Uniti non ridiamo più... Le grandi opere si fanno insieme a Dio, con il suo sostegno, con il suo sorriso. Da soli riusciamo a fare cose piccole, cose mediocri, cose destinate a non durare».
Lo dica con altre parole.
«Noi abbiamo potenzialità meravigliose se partiamo da quanto Dio ci vuole bene. Se partiamo da noi stessi siamo una delusione».
Che cos’è la preghiera?
«È l’alleanza che facciamo con Dio prima di andare a combattere. E l’alleato insieme al quale combattiamo».
Questa società sa pregare?
«Troppo spesso no. Troppo spesso è autoreferenziale, è ossessionata dal proprio ego. Spesso non centriamo il punto: pensiamo che il Cristianesimo sia una somma di regole e invece il Cristianesimo è una relazione. È innamorarsi di qualcuno. È un dialogo. Dio non è norma, è Padre».
Che vuol dire «sono un uomo debole»?
«So molto bene che mi manca tanto per essere quel prete che potrei e dovrei essere; in molte cose sono debitore - verso le persone che devo servire - di un amore maggiore, di un’attenzione molto più profonda, di una carità molto più vera».
Nell’estate del 1993 comincia quell’esperienza di catechesi per i giovani che va sotto il nome dei 10 comandamenti. Di che si tratta?
«Non c’è un’appartenenza. È un’esperienza di riconciliazione con Dio. Vera, profonda, contagiosa. La Verità è il perno. Tanti di quelli che fanno questo percorso mi dicono che la vita ha due parti: prima e dopo i 10 Comandamenti».
E com’è il prima e com’è il dopo?
«Prima è una vita a casaccio. Dopo una vita piena, dove si comincia a distinguere la luce dal buio. Si esce resettati. È come un’analisi del sangue: si capisce come si sta messi davvero».
Ma perché questa esperienza cambia la vita? Perché oggi è in ottanta diocesi in Italia e anche all’estero?
«Perché la gente non deve mai andare via da una Chiesa senza le tasche piene di speranza».
I giovani scommettono su don Fabio, ma lei scommette sui giovani?
«Credo nei giovani. Mi fido dei giovani. Perché sono fragili e poveri. Non hanno più punti di riferimento come nel passato e hanno fame di Gesù Cristo e di misericordia».
Ma sono o no superficiali?
«È una assurdità, una menzogna. I giovani hanno una bellezza interna strepitosa, basta dare loro una chance. Hanno una straordinaria voglia di vivere, ma va concessa l’opportunità di esprimersi dandogli credito. Se viene fatto questo loro volano».
Ma questo troppo spesso non viene fatto.
«È difficile per i giovani sopravvivere ad un mondo ambiguo, poco protettivo, scoraggiante. I ragazzi oggi non vengono curati, formati, aiutati, accolti, compresi, capiti. Penso poi alle vocazioni. Il problema non è che manchino i pesci da pescare, è l’acqua che manca. È un luogo dove prendere sul serio la vita dei ragazzi, dargli dignità, sostanza. Dare loro il diritto alla bellezza».
Che cosa fa soffrire? «Non è il corpo, è il cuore. Non è il dolore, è il non senso. Non è l’amore, è la solitudine».
E che cosa rende felici?
«Amare e lasciarci amare».
Amare non è facile.
«Se voglio fare cose mediocri basto io, se voglio vivacchiare basto io; ma se voglio amare non basto io. La Misericordia di Dio cerca la nostra povertà e la ama. E la nostra povertà, una volta amata, diventa Misericordia».
Sono passate quasi due ore da quando siamo entrati nella chiesa. Fuori c’è ancora il sole. Mentre scendiamo le scale ed entriamo in chiesa parliamo, per qualche minuto, del libro. Rileggiamo il titolo: Solo l’amore crea. Ci fermiamo sul sottotitolo: Le opere di misericordia spirituale. «Ho scritto davanti al Santissimo nella mia rettoria. Tante volte piangendo. Facendomi male. Lasciandomi inondare dalla tenerezza di Dio. Lasciandomi guidare su come si fa a spiegare un concetto. Ho voluto fare un viaggio da un contenuto al mio stesso cuore », ci ripete il sacerdote. Vogliamo capire ancora. Perchè quel titolo? «Sono parole di san Massimiliano Kolbe prima di essere ucciso ad Auschwitz. Solo l’Amore crea, solo l’amore dà forma meravigliosa a tutto ciò che compiamo». E perché la decisione di scrivere? «Perché il Cristianesimo troppo spesso appare brutto e invece va mostrato in tutta la sua bellezza. Perché Dio ci cerca nella nostra povertà e troppe volte non ce ne rendiamo conto».

Le opere di misericordia

Un libro significativamente uscito a conclusione dell’Anno Santo, di cui raccoglie numerosi spunti significativi a futura memoria. Solo l’amore crea. Le opere di misericordia spirituale (San Paolo, pp. 208, euro 9,90) è il primo libro di don Fabio Rosini, frutto di una lunga esperienza pastorale, che lo ha portato a diventare uno dei sacerdoti più amati della capitale. Il saggio di don Rosini, 55 anni, biblista, direttore del Servizio per le Vocazioni della Diocesi di Roma, titolare di una rubrica di commento al Vangelo su Radio Vaticana, già cappellano alla Rai, è noto soprattutto per le catechesi dei Dieci Comandamenti e dei Sette Segni, che porta avanti dal 1993, per mezzo delle quali ha aiutato molti giovani a ritrovare la fede o a scoprire una vocazione sacerdotale o religiosa. Tra le tante catechesi tenute da Rosini durante il Giubileo, un ciclo è stato dedicato proprio alle opere di misericordia, che hanno costituito la base per il suo saggio, accompagnato dalla prefazione di monsignor Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna (fino a un anno fa vescovo ausiliare di Roma).