lunedì 30 gennaio 2017

Silence: il veleno dell’apostasia........................

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Don Antonello Iapicca  ha scritto e ci ha mandato un saggio su SILENCE l’ultimo  film di Martin Scorsese. Per chi non lo conoscesse SILENCE narra la storia di due padri gesuiti portoghesi che vengono a conoscenza dell’atto di abiura fatta dal loro mentore, padre Fereira, in Giappone. Decidono quindi di partire per il paese asiatico per ritrovarlo. Giunti in Giappone, incontrano le comunità cattoliche che professano la loro fede di nascosto e si uniscono a loro svolgendo il proprio ministero. Verranno presto a conoscenza, e ne saranno vittime, delle tremende persecuzioni che lo shogunato applica ai danni dei convertiti al cristianesimo.(fonte Wikipedia).
Il Saggio era troppo lungo per essere pubblicato come post ma è disponibile in PDF cliccando QUI.  Pubblichiamo quindi un’introduzione che ci ha mandato don Antonello seguita da un piccolo estratto del saggio.
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di don Antonello Iapicca
Anche se “Silenzio” non racconta fedelmente l’autentica storia della Chiesa in Giappone, imporporata dal sangue di moltissimi martiri, paragonabili per numero solo al martirologio della primitiva Chiesa di Roma, il film è un’occasione importante perché si conosca nel mondo l’opera di Cristo in questa terra.
E’ infatti una Parola di Dio per tutti noi, e per questo, confidando che Dio può trarre il bene anche da opere cinematografiche come questa, ho preparato questo breve saggio nel quale cerco di fare giustizia al martirio di tanti fratelli e alla fede di tanti missionari che mi hanno preceduto, e ai quali devo la mia presenza in Giappone. Il loro sangue e il loro zelo hanno fecondato questo Paese, preparandolo all’evangelizzazione che, dopo tanti secoli, sembra essere ancora agli inizi. Ma proprio per questo, nonostante siano passati secoli, ci sentiamo contemporanei di San Francesco Saverio, di San Paolo Miki e di tutti gli altri. Perché in Giappone stiamo sperimentando quello che scriveva Peguy: “Tutto quello che c’è di piccolo è tutto quello che c’è di più bello e di più grande. Tutto quello che c’è di nuovo è tutto quello che c’è di più bello e di più grande. Tutto quello che comincia ha una virtù che non si ritrova mai più.
Una forza, una novità, una freschezza come l’alba. Una giovinezza, un ardore. Uno slancio. Un’ingenuità. Una nascita che non si trova mai più. C’è in quello che comincia una fonte, una razza che non ritorna. Una partenza, un’infanzia che non si ritrova, che non si ritrova mai più. Ora la piccola speranza è quella che sempre comincia. Quella nascita Perpetua. Quell’infanzia Perpetua” (Il portico del mistero della seconda virtù). Nascita e infanzia perpetue che ho contemplato in Maria, la nona figlia di Carlo e Claudia Kumada, lui figlio di un regista giapponese ma romanissimo come la moglie, una famiglia in missione a Yokohama da qualche anno. Maria è una piccola martire che ha solo sfiorato questa terra, ma come una benedizione feconda nella mia vita e in quella di moltissimi altri. Il parto è stato difficilissimo, la placenta previa non ben diagnosticata ha fatto perdere ben quattro litri di sangue a Claudia, mentre per lunghissimi momenti è rimasta in apnea la piccola Maria. Mamma e figlia unite in un misterioso destino che ha fatto nascere Maria gravemente menomata. Ma solo fisicamente, perché nell’anno e mezzo in cui è stata tra noi, senza aprire gli occhi, nel totale silenzio, ci ha fissato e parlato del suo Sposo più di mille sguardi e parole. Maria è stata, ed è, la Parola di Dio fatta carne che risponde ad ogni nostro dubbio e silenzio, a quelli più sinceramente angosciati come a quelli che, superbi, esigono risposte umane ai misteri divini.
Ho visto Maria un paio di giorni dopo la sua nascita, bellissima che sembrava una sposa pronta per le nozze, così semplicemente e umilmente sottomessa al suo Sposo. Prendetemi pure per pazzo, in fondo “Silenzio” ci dice chiaramente che lo siamo tutti noi sedotti dal folle amore di Cristo, ma  io l’ho visto il suo Sposo mentre abbracciava Maria nutrendola di vita attraverso le flebo; l’ho visto baciarla dolcemente con il respiratore che le donava l’ossigeno per vivere. L’ho vista come vorrei vedermi ogni giorno, come chiedo al Signore di rendere il mio essere cristiano e prete, obbediente e sottomesso alla volontà di Dio “perinde ac cadaver”, allo stesso modo di un cadavere, come insegnava S. Ignazio di Loyola ai missionari della Compagnia di Gesù. Perché un missionario o è puro riflesso di Cristo, o non serve. Niente di più assurdo, lo so; addirittura illecito in quest’epoca di soli diritti e zero doveri.
Eppure Maria, salita al cielo alcuni giorni fa, è in me l’immagine indelebile di quell’“infanzia perpetua” senza la quale è impossibile non solo la missione, ma la vita, ogni vita, che chiama ogni giorno a conversione per ricominciare dalle proprie debolezze bagnate dalla misericordia rigenerante del Padre. Maria è passata sulla terra muta, come un agnellino condotto al sacrificio. Maria è vissuta contemplando senza sosta lo Sposo nell’intimo della sua anima, laddove le nostre tante buone intenzioni ci impediscono di scendere, e, umili, inginocchiarci mendicando l’unica cosa buona e necessaria, l’amore di Cristo. Così, come le migliaia di martiri che l’hanno preceduta, Maria ha evangelizzato il Giappone stretta alla Croce del suo Sposo. Sul suo lettino era Lui che le scaldava il corpo troppo freddo, era Lui che le faceva compagnia, istante dopo istante, senza lasciarla un secondo.
No, non era lei che viveva, ma era vivo in lei Cristo, pienamente, perché totalmente debole e bisognosa. Non poteva metterci di suo che quel corpo ferito, preparato da sempre per Cristo, sorella e sposa di Lui che ha offerto se stesso per lei, completamente e senza altra condizione che la gratuità. Il silenzio di Maria offriva a Cristo la voce per parlare al nostro cuore; i suoi occhi chiusi sul mondo dischiudevano quelli dello Sposo su ciascuno di noi che, spesso ciechi sul suo amore, ci avvicinavamo a lei. Ecco, questo è un cristiano, prete o laico non importa, un altro Cristo per il mondo. Crocifisso, perché è solo nella debolezza che tacciono le nostre parole ipocrite e si chiudono i nostri occhi avidi per lasciar posto al potere della Parola di Cristo e al suo sguardo di autentica compassione. Crocifisso come i martiri che hanno portato in sé il morire di Gesù per gli aguzzini perché tra i tormenti dell’ingiustizia risplendesse in loro la sua resurrezione. Deboli e inermi perché  la vita soprannaturale ed eterna che permette di donare la propria, sia offerta ad ogni uomo come l’unica testimonianza credibile che i peccati sono perdonati e che si può vivere già qui un anticipo del paradiso per il quale tutti siamo creati.
Per questo Maria è una piccola martire, testimone innocente della fede nella quale i suoi genitori si sono aperti alla vita dopo aver avuto otto figli – “orrore” direbbe il mondo con il Padre Ferreira del film, una follia della superbia cristiana che pretende di salvarsi sulla Croce e non dalla Croce – e nella quale hanno camminato accanto a lei in questi lunghissimi mesi, con la spada che scendeva tagliente nel cuore di Claudia, e le tentazioni subdole di giustizia che, come l’“anazuri” (la tortura della “fossa” nella quale erano infilati a testa in giù i cristiani), erano pronte ad inghiottire Carlo torturandone la ragione. Ma Cristo era accanto a loro, ha vissuto in loro come in Maria, accompagnandoli insieme nel martirio che, nel mondo, dà ragione al suo amore più forte del dolore, del peccato e della morte. Entravi nella loro casa e mai avresti immaginato quello che Carlo e Claudia stavano vivendo. Guardavi e ascoltavi i loro figli sereni parlare di Maria come di un dono di Dio per la loro famiglia, rinnovata ogni giorno in una comunione soprannaturale che risplendeva nell’ordinarietà di una vita vissuta semplicemente, che significa assumere il dolore, restare crocifissi, e fare quello che c’è da fare. Compreso litigare e fare i capricci se serve, perché un bambino anche se ha fede è sempre un moccioso che si vuol far amare. Maria, come Felix, il papà di una famiglia spagnola con cui sono in missione da tanti anni salito al cielo undici anni fa e qui seppellito, come tutte le famiglie che sono in Giappone da quasi trent’anni, o da venti, o da tre, e i figli che sono cresciuti e si sono sposati, e sono anche loro qui in missione con i loro figli. E i fratelli giapponesi con i quali condividiamo le croci e la loro gloria in ogni centimetro di storia che ci attende, sperimentando che Cristo è vivo, che ha vinto il peccato e la morte, che Lui ha potere sulla “palude” che non è il Giappone ma il cuore dell’uomo schiavo del peccato, identico qui a quello di ogni altro lembo di mondo.
Questi inizi nei quali seguiamo le orme dei primi missionari e cristiani giapponesi, sono il grembo dove cresce, gioiosa e grata, la fede. La nostra vita crocifissa lietamente con Cristo è la testimonianza inoppugnabile che la storia non è andata come racconta Silenzio, ma che anche oggi, qui e ovunque, può essere un prodigio di fedeltà e amore, che la Grazia plasma attraverso una seria iniziazione cristiana in una concreta comunità dove, in Cristo crocifisso e risorto, sono abbattuti i muri culturali, politiche e nazionalistiche. Guardo Maria, fisso i miei fratelli e vedo in loro i volti e la fede di chi ci ha preceduto, nella certezza che la stessa Grazia che opera oggi ha operato in loro. E affido alla misericordia di Dio chi è caduto e ha cercato, tra dolori inenarrabili, un’improbabile legittimazione ed esaltazione del proprio peccato. Perché, come scriveva ancora Peguy: “Per non credere bisogna farsi violenza, torturarsi, contrariarsi. Irrigidirsi. Prendersi al rovescio, mettersi al rovescio, riprendersi. La fede è tutta naturale, tutta alla buona, tutta semplice” (Véronique – Dialogo della Storia e dell’anima carnale).

Antonello Iapicca Pbro
Takamatsu, 30 gennaio 2017
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ESTRATTO DEL SAGGIO DI DON ANTONELLO IAPICCA (DISPONIBILE INTEGRALMENTE CLICCANDO QUI)
Eh no, la “palude” non è mica solo il Giappone. La “palude” circonda la vita di tutti, ovunque, da sempre. Ci seminiamo il matrimonio e ogni relazione, perché la “palude” è il cuore, infido e imprevedibile, “un abisso” che rende l’uomo “un baratro” (Sal 63). Identificarla con una Nazione e la sua cultura, la storia e la religione, è forse il più fuorviante degli equivoci su cui posa il contenuto e l’impianto narrativo del libro “Chinmoku – Silenzio” di Shusaki Endo e dell’omonimo film di Martin Scorsese.
“La nostra religione non può mettere radici in questo Paese perché questo Paese è una palude; non cresce niente qui, una pianta germoglia e le radici marciscono” afferma Cristobal Ferreira, Provinciale dei Gesuiti in Giappone, “prete caduto” durante le terribili persecuzioni che subirono i cristiani in Giappone. La vera apostasia è tutta in questa frase, ben più grave e gravida di conseguenze della stessa “formalità” con cui calpestare un immagine sacra, che è solo la conseguenza dell’inganno cui Ferreira ha dato credito.
Per comprendere l’autentico messaggio del libro e del film, bisogna essere chiari storicamente ed onesti intellettualmente: il Ferreira di entrambi non è quello della storia. Prima Endo e poi Scorsese hanno attinto dalla sua vicenda ciò che della loro hanno voluto, o creduto di poter identificare. Di certo non l’ha spinto all’apostasia il pensiero che un suo “korobi” – “caduta” potesse salvare altri cristiani.
[…] Logica vuole che un presupposto falso renda inattendibile l’intero svolgimento e il risultato finale di qualsiasi ragionamento, anche se la maggior parte dei critici e degli spettatori è rimasta colpita, e spesso affascinata, proprio dal presunto sacrifico “vicario” dei due missionari. Quello che invece  “Silenzio” vuol dirci è che l’apostasia è stato un atto d’amore perché essa ha salvato i cristiani giapponesi dalla morte a cui li condannava una religione straniera alla quale non avevano mai davvero aderito. I missionari hanno apostato perché incapaci di avere ragione della “palude” nella quale, a testa in giù, erano stati calati: “non sei stato sconfitto da me, ma da questa palude che si chiama Giappone” dice infatti alla fine l’Inquisitore Inoue a Padre Rodriguez. E’ questa la frase chiave di tutto il film.
Come afferma satanicamente Ferreira, sarebbe stato l’orgoglio dei missionari ad uccidere i cristiani. La superbia di identificarsi con Cristo e di voler piantare la sua Croce in Giappone. Quella superbia dei sacerdoti che tanto ha colpito Scorsese, come ha recentemente detto in un’intervista a Padre Spadaro pubblicata su “La Civiltà Cattolica”: “se davvero si ha la chiamata, come si fa ad affrontare il proprio orgoglio? Se si è in grado di eseguire un rito in cui si produce la transustanziazione, allora sì: si è molto speciali. Tuttavia, è necessario anche qualcos’altro. Sulla base di ciò che ho visto e vissuto, un buon prete, oltre ad avere quel talento, quella capacità, deve sempre pensare anzitutto ai suoi parrocchiani. Quindi la domanda è: come fa quel prete a superare il suo ego? Il suo orgoglio? Volevo fare quel film. E ho capito che con Silence, quasi sessant’anni dopo, stavo facendo quel film. Rodrigues è direttamente alle prese con quella domanda”. E risponde apostatando, perché crede all’insinuazione di Ferreira con cui il demonio gli rovesciava la realtà come un calzino: tu non vuoi apostatare per l’orgoglio di sentirti come Cristo, vedi te stesso come una transustanziazione di Cristo, mentre per superare l’orgoglio devi pensare agli altri cristiani che si fidano di te e stanno soffrendo. Apostata e così salverai te dall’orgoglio e loro dalla morte.
Apostata, e così diventerai finalmente quello che per Scorsese è un vero sacerdote: “i buoni sacerdoti che ho conosciuto hanno sempre messo da parte il loro ego. Quando lo si fa, restano soltanto le necessità — le necessità degli altri — e vengono meno le domande sulla penitenza da scegliere o su ciò è o non è la compassione. Esse diventano prive di significato”. L’ego sarebbe messo da parte in favore delle necessità tutte terrene degli altri, per le quali è ovvio che la com-passione, il patire la stessa sofferenza in unione a Cristo non ha significato; se la Croce smette di essere la porta che dischiude il Cielo, diventa una inutile sofferenza priva di significato.
Astuto come un serpente, con questo velenoso sofisma satana riesce così a trasformare  l’apostasia nel supremo atto d’amore attraverso il quale liberare i giapponesi convertiti dall’orgogliosa utopia della Chiesa europea di farli diventare cristiani alla maniera occidentale. La morte dei cristiani giapponesi, dettagliatamente e lentamente ripresa nella parte del film, si rivela così come un martirio alla rovescia, la testimonianza cioè del fallimento della missione dalla quale solo l’apostasia poteva salvarli. Solo Gesù, quello di Endo e Scorsese ovviamente, lo ha capito, e ce lo dice quando invita Rodriguez a calpestare la sua immagine occidentale nella quale i missionari volevano trasformare i poveri e ignoranti contadini giapponesi.
Non so se Scorsese abbia colto questa subdola e perversa ideologia nazionalistica di “Silenzio”, un cancro che mette in pericolo l’unità della Chiesa, come già accadde ai tempi dei grandi scismi eretici e gnostici e delle riforme dell’era moderna. Forse no, forse si è fermato alla superficie emotiva del dramma di Ferreira e Rodriguez, quella del presunto silenzio di Dio davanti alle sofferenze patite per il suo nome, rotto solo dalla voce di Gesù che incoraggia Rodriguez ad apostatare. Infatti, dice, proprio per questo “sono nato in questo mondo, per condividere il dolore degli uomini, ho portato questa croce per il vostro dolore”. Non è possibile che Dio voglia la sofferenza, Dio ci salva dalla morte, no? E come ci salva? “Condividendo” il dolore degli uomini, che in “Silenzio” significa lasciarsi calpestare rinunciando ad essere il Dio Onnipotente che salva dal peccato e dalla morte, per vestire gli abiti degli uomini e nascondersi in essi, come appare nella scena finale.  Insomma, può salvare solo un Dio sconfitto dalla “palude”, perché il Dio orgoglioso della sua unicità uccide invece di salvare. Salva un Dio diluito nei costumi della palude che accoglie e legittima tollerante e pietoso i suoi liquami. […]