giovedì 9 febbraio 2017

E se una donna non lo volesse?

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di Costanza Miriano
Secondo la Civiltà Cattolica – che confesso di non leggere, ma che è citata  testualmente dal sito del Timone (che a sua volta riprende il blog di Sandro Magister) – il discorso dell’apertura del sacerdozio alle donne non è chiuso. A dire la verità, come ricorda Magister, Papa Francesco è stato molto chiaro in merito: “Sull’ordinazione di donne nella Chiesa cattolica l’ultima parola chiara è stata data da Giovanni Paolo II, e questa rimane”. Ma la rivista dei gesuiti riapre la questione, anche se GPII aveva affermato chiaramente che la Chiesa non ha facoltà di conferire l’ordinazione sacerdotale alle donne, e che “questa sentenza deve essere tenuta in modo definitivo da tutti i fedeli della Chiesa”.
Ora, io non sono minimamente in grado di entrare nella disputa teologica e sacramentale, però mi sento almeno un po’ chiamata in causa, innanzitutto come donna cattolica, e poi anche come donna che ha provato a ragionare e scrivere del ruolo femminile nel mondo e nella Chiesa, e ha incontrato e conosciuto tante, tante sorelle di cammino.
La prima cosa che voglio dire è che trovo assurda la motivazione addotta dall’autore dell’articolo, il vicedirettore, gesuita, Giancarlo Pani, per dichiarare la questione ancora aperta. Il motivo sarebbe che i fedeli non danno consenso a questa posizione del Magistero, e una dottrina proposta dalla Chiesa chiede di essere compresa dall’intelligenza credente. A me pare esattamente il contrario. Se una cosa l’ha stabilita il Signore, è l’intelligenza credente che con la grazia e la fede si “adatta” alla verità proposta, cerca di capirla, comprenderla. La fede viene sempre dall’ascolto, cioè dall’accoglienza di qualcosa che non penso già di mio, da un annuncio che mi viene fatto, perché come dice san Giovanni della Croce, per andare dove non sai, devi passare da dove non sai. La fede non conferma le tue convinzioni, sei tu che parti per un viaggio.  Lo so che se qualche dotto legge questa argomentazione mi si mangia in due bocconi sfoderando una meravigliosa citazione, ma il mio semplice sensus fidei è certissimo di questo: l’intelligenza credente deve fare un cammino verso le verità proposte dal magistero, ed è sempre un cammino benedetto, perché mi salva. Non sono, al contrario, le verità della fede che devono andare verso l’uomo, magari in modo accondiscendente verso lo spirito del tempo.
Per fare un esempio mi chiedo: l’intelligenza credente è davvero convinta della transustanziazione? Se lo fosse, se fossimo davvero convinti, ci dovrebbero portare via di peso quando ci trovassimo a passare davanti alle chiese – e infatti per Giovanni Paolo II era così, certe volte quelli del cerimoniale dovevano cambiare i suoi percorsi perché ritardava i programmi quando gli capitava di passare davanti a un tabernacolo e si fermava rapito. Se il consensus fidelium sapesse davvero, credesse davvero (e parlo per me per prima), che lì c’è il corpo di Cristo veramente, non succederebbe come al funerale dell’amatissimo Papa Wojtyla, quando centinaia di migliaia di persone facevano dodici ore di fila per omaggiare il suo corpo mortale mentre lì a pochi metri, nella chiesa della Transpontina, il Santissimo, esposto, stava praticamente da solo.
Se l’ordinazione sacerdotale è proposta infallibilmente e definitivamente dal Magistero, è del tutto irrilevante come venga percepita. Altrimenti torniamo a cadere nel complesso di inferiorità che a me sembra avere ferito mortalmente la Chiesa, la quale si sente in dovere di essere per forza friendly con tutti, come se questa fosse una garanzia di bontà. Ci siamo fatti fare il lavaggio del cervello dal mondo, che ci ha convinti che l’obbedienza alle regole è una fregatura, o siamo certi noi per primi che quello che non capiamo, come per esempio i comandamenti – intesi in senso lato – sono quello che ci salva, ci custodisce, ci protegge, ci fa vivere?
Questo quanto al rapporto tra Verità e opinione, Magistero e sentire comune. Se la Chiesa per due millenni ha affermato qualcosa con certezza, appellandosi all’infallibilità, il fatto che quella cosa venga percepita come espressione di  “autoritarismo”, come dice la Civiltà Cattolica, non dovrebbe minimamente interessarci come fedeli, tanto meno dovrebbe interessare ai pastori. Il mondo pensa di essere autosufficiente, ma noi credenti sappiamo che l’uomo da solo non è buono, solo Dio è buono (lo dice Gesù nel Vangelo), e che l’obbedienza alla sua voce è un regalo che ci viene fatto, non una fregatura.
Quanto al merito, proviamo a vedere superficialmente qualche punto della questione femminile. Innanzitutto io non conosco manco mezza donna che viva come una deminutio il fatto di non poter fare il prete. Davvero, ci ho pensato e ripensato. Forse me ne viene in mente qualcuna, pochissime – donne avanti con gli anni e poco realizzate nella vita privata – che vorrebbero più spazio nel senso di prestigio e visibilità, ma come risarcimento per qualche frustrazione, per la mancanza, soprattutto, di un rapporto vivo col vivente. Mi sembra che non siano questi i criteri per cui si è adatti a essere sacerdoti, cioè servi, cioè pastori pronti a dare la vita per le pecore. È ovvio, io non sono certo l’Istat, magari ho conosciuto un campione umano inaffidabile, ma ho parlato con migliaia e migliaia di donne cattoliche in tutta Italia e fuori. Conosco invece suore e consacrate magnifiche, piene di luce e forza ed energie e capacità di costruire e creare e inventare. Molte di loro sono perfettamente realizzate nel posto che hanno, e l’ultima cosa al mondo che desidererebbero è di avere incarichi diversi o ulteriori. Ad altre di loro secondo me potrebbe essere data l’occasione di far fruttare meglio i loro talenti, il discernimento, la capacità di relazione, la profondità spirituale. Ma per far questo basterebbe che chi ha a che fare con loro avesse l’intelligenza e l’umiltà di valorizzarle. Trovo ottimo per esempio che ci sia una donna a reggere un’università pontificia come l’Antonianum, e peraltro suor Melone ha detto di non volere il sacerdozio femminile. Spero che altre donne diventino presto rettori, questo sì, ma è una questione diversa. Spero che le suore vengano più spesso consultate dai sacerdoti, che i loro suggerimenti vengano seriamente presi in considerazione, che la loro creatività venga lasciata libera di agire.
Valorizzare la donna, invece, non significa affatto chiederle di fare l’uomo. Le femministe hanno fatto questo errore, rendendosi complici, lievito direi, di una trasformazione epocale che per noi donne si è rivelata complessivamente una enorme, gigantesca, beffarda fregatura. Perché, è vero, adesso ci è permesso di scegliere e studiare, che sono cose belle, ma in cambio ci è chiesto di diventare uomini, di lavorare come uomini, di avere rapporti come gli uomini, di avere sempre meno tempo per le persone a cui vogliamo bene, meno tempo per i nostri bambini, che infatti sono sempre meno numerosi, ma anche per i nostri anziani, o per accudire tutte le fragilità. Il Papa ci invita sempre a chinarci sul povero, sul debole, ma chi di noi ha il tempo di farlo, se corriamo dall’alba a notte fonda per stare dietro a tutto – casa marito figli lavoro colloqui a scuola visite pediatriche iscrizioni moduli certificati catechismi sport amichetti spesa cucina bollette tasse e mi fermo ma potrei continuare per ore? E tutto questo anche quando ci sono mariti super collaborativi, come sono oggi la maggioranza dei mariti, semplicemente perché c’è quel vecchio problema delle 24 ore di una giornata, e se ne lavori 8, con gli spostamenti ne stai fuori di casa 10, e ne dormi altre 8, ne rimangono pochissime per dedicarti alla parte più preziosa della vita, le persone che ami. La donna un tempo era lasciata a casa non perché fosse prigioniera, dice Chesterton, ma esattamente per il motivo opposto, perché fosse libera di seguire tutte le sue seconde occupazioni. A noi donne sta a cuore questo, non la regola, incarnata dal maschile, non il fecondare il mondo e trasformarlo, ma l’eccezione, il caso particolare, la persona, le persone che amiamo (Edith Stein lo dice molto meglio di me). A noi non interessa essere pastori, e guidare, a noi interessa mischiare la nostra vita con quella degli altri, ma nella libertà, seguendo il soffio dello Spirito, se ne abbiamo la grazia, gonfiando le vele della Chiesa, lasciando che siano gli uomini a fare quel noiosissimo ruolo di alberi maestri.
Quanto al valorizzare le donne, non esiste un luogo in cui noi donne ci sentiamo più valorizzate che nella Chiesa. A me solo dei sacerdoti hanno parlato della mia grandezza, nobiltà, valore. Della purezza, dell’apertura alla vita, di un amore che non sia solo emozione o possesso, che è quello che ci propone il mondo con la sua retorica dell’amore romantico. Solo nella Chiesa mi hanno indicato una strada che si è rivelata benedetta per la mia storia, solo nella Chiesa ci sono uomini che perdono la vita nei confessionali ad ascoltare paturnie, a sbrogliare matasse, a guidare le nostre vite complicate. Per esempio, una donna ti si fa compagna di cammino, ti viene a stirare a casa, ti abbraccia, ti regala una borsa, della cioccolata o un profumo, ma serve un uomo, un vero uomo, per la direzione spirituale (dice un amico sacerdote che serve più testosterone in un confessionale che in una partita di rugby).
Noi donne, almeno quelle che conosco, non abbiamo bisogno di una Chiesa che faccia sue le rivendicazioni delle femministe. Abbiamo bisogno di veri uomini e di vere donne, diversi nei loro carismi, pari nella dignità (ma c’è davvero ancora bisogno di dirlo?). Abbiamo bisogno di uomini e donne che facciano a gara per mettersi agli ultimi posti, e non vogliamo avere altri incarichi, grazie. Anzi, se qualcuno vuole aiutarci nei troppi che già abbiamo, si accomodi.