venerdì 10 febbraio 2017

L’ Esodo del ricordo verso il perdono

olycom - abbiati -

di Antonello Iapicca    10 febbraio 2015
Sessantacinque anni, un bel salto nella vita. Tanti ce ne sono voluti a Mariuccia, mia madre, per sentire ben oltre la superficie delle ferite il potere rigenerante di Cristo. Ne aveva ottanta, infatti, quando è ritornata a Parenzo, la città dell’Istria che la vide nascere, crescere, e poi, a sedici anni, andar via con poche cose tra le mani.
Ci siamo andati insieme, ed è stato come un pellegrinaggio nella memoria. No, non era la prima volta che ci tornava dai tempi dell’ “Esodo”. Ci andò con papà quando era ancora Jugoslavia, e fu difficile. Ci venne altre volte, e fu un dolore acuto e insopportabile dover oltrepassare due frontiere, quelle della Slovenia e della Croazia. E aveva giurato di non farlo più, come moltissimi hanno giurato e fedelmente compiuto.
Ma lei non aveva previsto l’imprevisto, l’amore di Dio che bussa quando meno te lo aspetti, ed è capace di sconvolgere, in bene, ogni vita. E quella di mia madre, incontrandola, l’aveva sconvolta, eccome. Ho avuto la grazia di poterlo vedere, e oggi, “Giorno del ricordo” istituito dal Governo Italiano nel 2004 per commemorare le vittime dei massacri delle foibe e dell’Esodo giuliano-dalmata, non posso tener ferma la penna. Devo raccontare quello che ho visto in mia madre; lo devo a lei e ai miei parenti, lo devo ai tanti che hanno sofferto e non ci sono più e a quelli che ci sono ancora, ai loro figli e nipoti.
E lo devo a molti altri italiani che, mi rendo conto scrivendo, non sanno neppure dove o cosa sia l’Istria, e poi le foibe e l’esodo forzato di 350.000 istriani. Non lo sanno i giovani, come per tanto tempo non l’hanno voluto sapere troppi anziani.
Ma oggi capisco anche questo. Non è facile per nessuno affrontare la realtà, specie se è così dura da sconvolgere le proprie certezze. Quelle dei vincitori e quelle dei vinti, quelle dei carnefici e quelle delle vittime. Per questo sento di dover scrivere quello che ho visto in mia madre, nella speranza che sfiori i cuori di tutti, da qualunque parte siano stati. Anche di quanti non sanno nulla di quello che è accaduto in Istria dal 25 aprile del 1945.
Mia madre suole dire che per lei e la sua famiglia la guerra è iniziata proprio il giorno della Liberazione. Guerra che è durata più di mezzo secolo, e forse per molti dura ancora. In politica innanzitutto, tra gli storici, e nei cuori. Almeno così è stato in quello di mia madre. Perché quando vedi ingiustizie brutali piombarti addosso, stroncare la vita di amici e conoscenti, azzerare d’un colpo speranze e certezze, beh ditemi in quale cuore non si innescherebbe la guerra.
L’ingiustizia, infatti, è sempre un detonatore inarrestabile di conflitti. Lo è in famiglia, al lavoro, figuriamoci tra le Nazioni e i popoli. Eppure non è di questo che devo parlare. Vi sono libri e studi che raccontano bene come sono andate le cose. E un’altra storia di dolore non aggiungerebbe nulla, se non qualche fascina al fuoco del risentimento. E dal risentimento non può sorgere la pace, mai.
Mentre è proprio della pace che devo parlarvi, quella firmata da mia madre nella Basilica Eufrasiana di Parenzo, la magnifica cattedrale bizantina patrimonio dell’Unesco che impreziosisce la già bellissima cittadina. E non è partigianeria eh, andate su Google e fatevi un viaggetto virtuale, vedrete che meraviglia.
La Pace dunque, con la maiuscola sì, perché è uno dei nomi propri di Dio fatto carne. E quel giorno mamma ha finalmente sperimentato la Pace nel suo cuore. In quel momento è stato solo un vagito, ma ormai era fatta. Mai avrebbe pensato di tornare un giorno insieme a suo figlio prete nella chiesa dove era stata battezzata e aveva ricevuto Prima Comunione e Cresima, e dalla quale era stata violentemente strappata. Mai avrebbe pensato di essere un giorno accanto a lui a celebrare l’amore e la fedeltà di Dio intorno a quell’altare.
E’ stato come una saetta, un segno di fuoco nel cuore che ha cominciato a cuterizzare nell’intimo la ferita che sino ad allora aveva sputato veleno, sporcando pensieri e gesti di quel senso d’ingiustizia patita che ti porti addosso e non sai come liberartene.
In quella Chiesa aveva passato i momenti più belli della sua infanzia, quelli più puri e innocenti. A poche decine di metri aveva studiato e giocato. Se stai attento, dalle sue navate puoi sentire il rumore del mare e il fischio dei vaporetti, sapori, odori e suoni della sua infanzia e adolescenza che un giorno, senza un perché, le erano stati sottratti.
E in quei pochi ma intensi minuti è stato come se tutto quel passato tornasse in vita, ma non era un peso. Non era più solo nostalgia. I giorni della sua fanciullezza accompagnati da tutti quelli che li hanno seguiti si presentavano a lei con un vestito nuovo. Era bella ora la sua storia; amara come le lacrime che le solcavano il viso, ma non per questo meno bella. Perché uno dei segreti che Dio svela ai suoi amici è proprio questo, che il dolore non è nemico della pace e della felicità autentiche. Anzi, proprio le lacrime sono un segno del paradosso che è una vita toccata da Cristo. Anche quando sono di commozione gioiosa non perdono il loro sale amaro.
E quelle che le scendevano sul viso dicevano a mia madre che finalmente la sua storia aveva svestito gli abiti del risentimento e del rancore per indossare quelli del perdono. E non era stata lei accidenti, non era nulla di magico o moralistico. Era la Grazia che l’aveva abbracciata una ventina d’anni prima con l’annuncio del Vangelo e non l’aveva più lasciata.
E ora, nel cuore della sua storia, dava alla luce il suo frutto più bello. Mamma stava vivendo la sua Messa più vera, perché il Mistero celebrato si era fatto carne in lei. E’ solo in Cristo crocifisso, morto e risorto, infatti, che la storia, qualunque storia, può essere illuminata e trovare senso.
Quante volte aveva sperimentato il perdono, non si contavano. Dio l’aveva attesa con pazienza e misericordia, sino a farsi vicino attraverso la predicazione della Chiesa. Aveva ascoltato le catechesi del Cammino Neocatecumenale insieme a papà, dopo lunghi anni nei quali avevano invece avversato e contestato il Cammino. Io c’ero entrato a 15 anni, e per molto tempo le mie attitudini e i miei comportamenti non gli avevano fatto buona pubblicità, anzi… Ma poi, anche quella volta per pura grazia, è successo qualcosa tra noi: Dio ci aveva profondamente riconciliati in un perdono mai sperimentato prima. E tutto è cambiato. La nostra relazione innanzitutto, autenticamente risuscitata dalle macerie del mio orgoglio.
Il Cammino Neocatecumenale dunque dava frutti, eccome; e allora, da quel perdono, è iniziato il cammino di mia madre. Lunghi anni immersi nella Parola di Dio e nei sacramenti, seguendo le orme di Gesù che la conducevano pian piano dentro i vicoli oscuri della sua storia, quelli macchiati dal risentimento e dall’ingiustizia patita. Passo dopo passo la luce della Pasqua rischiarava le tenebre, e quello che agli occhi della carne bruciati dal rancore sembrava un sepolcro senza speranza cominciava a brillare come un giardino all’aurora.
Perché la storia visitata da Cristo risorto è proprio come un deserto trasformato in giardino, e ogni suo frammento si rivela indispensabile. Non aveva Gesù annunciato più volte ai suoi discepoli che, per risorgere, sarebbe “dovuto” andare a Gerusalemme e lì essere crocifisso, morire e scendere nella tomba? Non ha scritto mille volte San Paolo che l’unico vanto di un cristiano è la Croce? Certo, è proprio così, e così mia madre ha sperimentato.
Era necessaria quella Croce piantata nel suo cuore adolescente. Era necessario che scendesse sino in fondo – e che dolore – per svelare quello che aveva lì, nel cuore. Perché tutti, quando urtiamo contro l’ingiustizia, abbiamo la stessa identica reazione, ben diversa da quella dell’Agnello di Dio. E per questo soffriamo e non troviamo pace, non avendo da offrire al male che altro male. Non scandalizzatevi se potete, anche se lo so, la Croce è scandalo e stoltezza per tutti, religiosi e atei o agnostici razionali.
Per questo oggi devo raccontare il miracolo legato a questo giorno speciale per tutti gli istriani. Devo annunciare attraverso la storia di mia madre che la Croce è l’unica porta che si apre sul Cielo, il destino preparato per ogni uomo. Che non è un cumulo di parole oppiate inventate dai preti per ingannare e sottomettere le masse.
La Croce che si faceva manto di misericordia e presenza viva di Cristo nel baldacchino della Basilica di Parenzo abbracciava mia madre mostrandole con dolcezza ogni istante della sua vita come un frammento degli splendidi mosaici che ne rivestono le pareti. Eccone uno, c’è dentro la foto di quando era uscita in fretta sotto gli occhi velenosi dei finanzieri di Tito. Eccone un altro, racconta di quando aveva dovuto viaggiare sui treni di notte attraverso la sua Italia, la Patria per la quale aveva lasciato la sua terra; nessuno doveva vederli quegli istriani, erano di sicuro infettati dal veleno del fascismo se sfuggivano dal paradiso comunista.
Un altro ancora, ci sono impresse le impronte digitali che le presero neanche fosse una criminale. E molti altri, sino a quelli più recenti, che fissano i momenti umilianti di quando, per rinnovare il passaporto o la carta di identità, per prenotare le analisi o un biglietto d’aereo, nel dire il proprio luogo di nascita ha dovuto (e deve…) sgolarsi in inutili spiegazioni. Parenzo non esiste più, ora è Porec, Croazia; ma mia madre non è nata in Croazia…
E allora? Sarebbero state necessarie tutte queste umiliazioni? Dai, non scherzare, il “Giorno del ricordo” è stato istituito proprio per non dimenticare e far conoscere a tutti gli italiani questa storia di ingiustizie. E così, forse, certi crimini non si ripeteranno. Forse, appunto… Non basta il ricordo, guarda quello dei lager appena celebrato. Ti sembra che in Europa siano cambiate le cose? No, per nulla, anzi peggiorate, perché ora quello che si sperimentava nel segreto dei campi di concentramento si fa alla luce del sole, benedetto da leggi di Stati che si ritengono all’avanguardia della civiltà.
No, non basta il ricordo, abbiamo bisogno invece di imparare a vivere un “memoriale”. E’ questo che ho visto in mia madre, una “memoria – reale”, i fatti di dolore che si facevano contemporanei ma trasfigurati nel perdono.
Nella Bibbia ebraica il verbo “ricordare” descrive innanzitutto il comportamento di Dio. Per un ebreo il “memoriale” è lasciare che Dio entri di nuovo nella storia attraverso lo stesso modo in cui si è comportato nel passato. Così il presente si fonde con il passato ed è accolto nell’eternità di Dio, che significa, essenzialmente, il suo amore.
E il momento più importante della Storia di Israele – il “memoriale” più prezioso – è la Pasqua che si distende nell’Esodo sino all’ingresso nella Terra Promessa. Gli ebrei lo celebrano solennemente in quella che chiamano la “notte delle notti”. In essa tutta la famiglia riunita in casa torna sulle sponde del Mar Rosso, posa i piedi all’asciutto mentre lo attraversa, si volta a guardare i carri del faraone sprofondare nelle acque; ogni ebreo cammina nel deserto, si ferma alle falde del Sinai, e, finalmente, entra nella Terra che Dio ha preparato per lui.
Ogni padre ha il dovere di raccontare ogni evento dell’Esodo ai propri figli, perché siano immersi nelle opere di Dio, sperimentarne la presenza nella loro storia, e crescere nella fede. Ancora oggi, infatti, durante il Seder pasquale dice ai suoi figli che “Ognuno è tenuto a vedersi come essendo proprio lui uscito dall’Egitto” (Haggadah).
Ecco, accolta e formata nella Chiesa, quel giorno a Parenzo mia madre ha vissuto, proprio come un ebreo, il suo “memoriale”; diverso certo, perché era quello del compimento della Pasqua Ebraica, ovvero l’Eucarestia. Il Mistero della morte e risurrezione di Cristo si era compiuto in ogni istante della sua vita, sino a quella Messa: Cristo, infatti, era sceso a prenderla nella tomba del dolore e del risentimento, l’aveva perdonata e risuscitata, per accompagnarla sino alla Terra promessa della Pace del cuore, anticipo e primizia del Paradiso.
E’ così, è la realtà, quello che avvelena il cuore non sono gli alimenti che mandiamo giù, ma quello dal cuore esce perché è già lì. Non è la storia che ci uccide, per quanto triste e piena di ingiustizie. E’ il peccato che ha fatto la sua tana dentro di noi che ci fa soffrire, perché frustra il desiderio di bene e di amore che in tutti Dio ha seminato.
Per questo è un’illusione credere che la giustizia umana possa donarci pace. Falso! Checchè raccontino film e libri, politici e filosofi, ogni giustizia umana ha partorito sempre nuove ingiustizie. Con ciò non voglio dire che essa non debba fare il suo corso, e punire i responsabili dei crimini. Ma che essa ha dei limiti, e non può guarire il cuore.
Per questo è necessario il perdono, impossibile agli uomini se prima non l’hanno sperimentato, immeritato, nella propria vita. Il perdono che tagli alla radice il peccato che ci impedisce di perdonare e amare, ed essere finalmente persone libere che vivono e annunciano la Pace.
In quell’Eucarestia mia madre ha visto la sua storia redenta nello stesso perdono che aveva sanato il suo cuore. Solo in questa luce si può comprendere come anche il dolore che l’ha accompagnata per cinque decenni sia stato necessario per curarla nell’incontro decisivo con l’amore di Cristo più forte di ogni ingiustizia.
Era volontà di Dio la guerra, e poi le foibe e quell’ingiustizia macchiata di sangue innocente? Era volontà di Dio che tante famiglie venissero strappate dalla propria terra? No, assolutamente, come non lo fu la disobbedienza di Adamo ed Eva. Eppure, dal giorno in cui Cristo è salito sulla Croce ed è entrato nel sepolcro, Dio ha come allargato le maglie della sua volontà, assorbendo anche gli orrori della storia e le nostre cadute. Cristo infatti è sceso con ogni uomo ucciso barbaramente nelle foibe, per fare di quelle cavità carsiche il suo sepolcro e risuscitare quei morti e per lasciare su quelle rocce il suo sangue perché anche gli assassini avessero speranza. La volontà di Dio, infatti, è una sola: che nessuno vada perduto e tutti gli uomini siano salvati.
E così è stato: da quella messa mia madre è uscita trasformata. E’ accaduto l’impensabile di poter abbracciare in un segno di Pace autentico tanti fratelli croati; di ascoltare le loro storie e i loro dolori, e di sentire dentro nascere amore vero per ognuno. Al punto di ospitarli a Roma, e lasciar loro il suo letto. Sino a pregare ogni giorno per Tito e i suoi partigiani, insieme ovviamente a tutti i suoi fratelli istriani.
Certo ancora molto cammino l’attende. Nessuna beatificazione anticipata, ci mancherebbe. Mia madre è, come tutti, una persona debolissima, e certo non è insensibile alle immagini e ai racconti di quegli anni, anzi. Il dolore è lì, come quello di chiunque abbia perso un figlio o una persona cara, e quella “terra benedetta” come la chiama lei, le è cosa molto, molto cara. Ma Dio è stato fedele con lei, e oggi è Lui che devo celebrare, offrendo una testimonianza che sia un segno di speranza per tanti, per chi ha vissuto la stessa esperienza, per chi ne vive altre simili, e per chi non conosce questa storia italiana.
Una cosa è certa, mia madre mai avrebbe potuto entrare nella Pace della riconciliazione se non avesse percorso con Cristo il suo Esodo dal rancore al perdono, trasfigurando in esso quello che oggi ogni italiano è chiamato a celebrare.

Articolo pubblicato su “La Croce” del 10 febbraio 2015