lunedì 27 febbraio 2017

La cruna dell’ego.



 Pubblichiamo la parte centrale dell’introduzione del libro di Pierangelo Sequeri, La cruna dell’ego. Uscire dal monoteismo del sé (Milano, Vita e Pensiero, 2017, pagine 148, euro 15).
(Pierangelo Sequeri) Il primo santo del calendario post-moderno non è più Prometeo, come annunciava Marx, proiettando sul soggetto collettivo la potenza dell’auto-realizzazione umana. E Narciso, come aveva enunciato Max Stirner (1806-1856), prefigurando l’unicità individuale di quell’auto-realizzazione. Prometeo annuncia la decostruzione della religione, sfidando “il dio” dell’antico assoggettamento, in favore degli uomini.
La ribellione è ancora in favore dell’umano, almeno, e disposta a pagare il prezzo della trasgressione. Narciso annuncia la decostruzione della società, ma non vuole subirne alcuna conseguenza. Narciso vive dell’amore dell’altro, ma se ne attribuisce il merito esclusivo: non riconosce e non restituisce nulla. Narciso non lavora e non si sacrifica, non ci pensa neppure. L’Unico di Stirner non vuole avere altro fondamento che se stesso, e non pretende di essere il fondamento per nessuno. Questo tratto potrebbe farlo sembrare politicamente corretto, dato che non vuole essere assoggettato, ma nemmeno pretende di assoggettare. In realtà l’Unico, che vuole essere semplicemente se stesso e determinarsi da sé, è il parassita perfetto. Il perfezionamento della sua anaffettività è pericoloso per noi, e dannoso per lui stesso. L’Unico, che sembra il trionfo individuale della volontà di potenza, in realtà è il brodo di coltura dell’indebolimento della volontà, destinato a consumare lui stesso. Questo non gli impedirà di essere attraente e fascinoso, nella sua immagine di eterno adolescente che si sottrae a ogni legame e si fa da sé. Per rimanere tale, e vincere la disperazione crescente di una compiutezza che gli sfugge, sarà pronto a tutto: dalla finzione cosmetica alla dipendenza chimica, dal godimento dell’impotenza altrui al gregarismo irresponsabile del branco.
Mi domando, a proposito di questa odierna mescolanza del carattere anaffettivo e di quello distruttivo, se non ci sia una correlazione profonda tra l’affermazione pseudo-secolare del monoteismo del sé e il fondamentalismo pseudo-religioso dell’annullamento dell’altro. L’elemento comune è l’impressionante regresso della pietas erga hominem, che abita in forme diverse i due mondi, apparentemente in conflitto fra loro. Il tratto anaffettivo — il vuoto del puro non-amore — stabilisce un nesso rivelatore. Non c’è passione, in questo nuovo odio che si vorrebbe religioso; né desiderio, in questa nostra ossessione di sé che si vorrebbe razionale: c’è istupidimento mediatico, e fredda disperazione.
Dobbiamo guardare proprio alle giovani e giovanissime generazioni per cogliere i sintomi di questa affinità, oltre le apparenze. La stessa mancanza di orrore per l’avvilimento e la morte dell’altro essere umano filtra qua e là — ancora del tutto incompresa nella sua allarmante sintomaticità — dall’accanimento anaffettivo del branco sul clochard indifeso, sul compagno handicappato, sull’adolescente stuprata, sulla vittima designata dai social. E la stessa che ci colpisce nel vuoto affettivo dell’adolescente religiosamente radicalizzato, nel quale la pulsione mediatica alla celebrazione del sé si è aperta un varco nella sublimazione religiosa del nichilismo. L’impressionante maschera anaffettiva dei bambini soldato, sublimata nell’icona dell’esecutore professionale di un omicidio a sangue freddo, è la rappresentazione del quietismo emozionale che può assumere la postura narcisistica del carattere distruttivo. Non si ottengono questi risultati senza ingegneria della perversione (e perdonatemi ancora il lessico tecno-economico: ma in questo modo deve risaltare ancor meglio l’adattamento reciproco del pathos distruttivo al logos dell’efficienza, che ottunde la sensibilità emozionale per l’umana giustizia delle affezioni). Questa regia non è nelle corde dei bambini e degli adolescenti. La perversione del godimento, che induce a incorporare il lavoro della morte, è contaminazione e alienazione calcolata dell’ordine degli affetti, a opera delle potenze mondane che si nutrono di sacrifici umani.
Le riflessioni proposte in questo libro, nella varietà dei loro punti di applicazione tematica, si lasciano ispirare dalla necessità di andare al nodo che istituisce la metamorfosi della libertà dei moderni nella costellazione narcisistica dell’auto-realizzazione. La potenza dell’ego chiede di essere verificata nella debolezza dell’io altrui: perciò, quando l’auto-realizzazione di sé diventa il tema ossessivo di un’ingiunzione assoluta, anche la de-realizzazione dell’altro lo sarà. L’invidia dei divini si insinua nello spirito della competizione fra gli umani, e la sovrana insensibilità della loro apatheia si propone come un modello: la neutralizzazione emotiva della compassione per l’altro diviene un complemento necessario del culto della propria identità.
Nell’odierna configurazione culturale, la duplice novità è iscritta nell’ambivalenza del sacro. Da un lato, il narcisismo auto-referenziale dell’eros, omologato al legittimo amore di sé, vive e cresce parassitariamente nella luce (scopertamente, non più nell’ombra) delle sue conquiste: dignità della persona, principio dell’auto-determinazione, diritto al riconoscimento, ricerca dell’identità. A tali conquiste, com’è del resto concordemente riconosciuto, il seme evangelico ha offerto ispirazione religiosa e cultura globale. La versione immanente dell’auto-realizzazione umana, tuttavia, che mira a sradicarla dall’alterità della generazione divina in cui è creata sin da prima della creazione del mondo (l’incarnazione del Figlio), ha incominciato a svuotarla dall’interno: il soggetto che si nutre di sé consuma il mondo e si consuma in tutte le sue relazioni. La semantica dell’auto-realizzazione si è trovata così disponibile a servire la pulsione dell’autoreferenzialità narcisistica. Proprio come il costume della corruzione può arrivare a incistarsi nella normale disposizione alla gratitudine per il bene ricevuto, o la giustificazione dell’usura trova copertura nella legittima ricompensa della fiducia accordata. Tu parli della libertà di essere se stessi e del desiderio di realizzarsi come fine supremo, e l’intero dominio dell’alterità si trova automaticamente consegnato alla sfera dei mezzi e degli strumenti di questa libertà e di questa realizzazione. L’umano stesso, nella sua costituzione psichica e biologica, lo sta diventando: grazie alla potenza resa disponibile dalle tecniche dell’homo faber.
Il fatto che questo dirottamento auto-referenziale del desiderio possa convertirsi (e addirittura convivere) con il perfetto assoggettamento dell’io all’imperativo etero-diretto del suo modello assoluto — religioso o secolare che sia — non è così strano. Una secolarità debosciata o una religiosità perversa vi possono attingere entrambe a piene mani: nella perfetta incoscienza delle giovani generazioni, che sempre meno sono orientate a padroneggiare intellettualmente ed emotivamente la differenza.
Un doppio legame si attiva comunque. Per sostenere un dispositivo dell’emancipazione nutrito dalla retorica dell’Unico, si finisce per alimentare, con gli stessi strumenti culturali (razionali, ma anche affettivi), la deriva parassitaria dell’auto-referenzialità. E viceversa. Se vuoi essere riconosciuto da un modello narcisistico dell’auto-realizzazione (la Causa sui), devi offrire in cambio l’assoggettamento della tua vulnerabilità alla sua indifferenza. Il dispotismo del sacro (la Potentia absoluta), poi, quando viene semplicemente rimosso — e non affrontato e decostruito nella ricerca dell’adorazione di Dio in spirito e verità —, esce da ogni logos di prossimità: il ritorno del suo nomos sacrificale appare più rozzo e vendicativo. Insomma, occorre occuparsi più seriamente di questa tendenza dell’epoca al contagio del virus dell’individualismo auto-referenziale e del ripiegamento narcisistico del desiderio, che istupidisce il soggetto ed eccita il sacro.
Le contraddizioni che la democrazia delle monadi va accumulando sono evidenti, e persino concordemente denunciate. Ma nessuna convergenza sui rimedi appare all’orizzonte di un’etica condivisa. Del resto, il virus è talmente pervasivo, anche all’interno della critica teorica, che si fonda pur sempre su una ragione anaffettiva e conforme, che infilare la cruna dell’ego con qualche filo che ci ricongiunga all’umano-che-è-comune appare impresa più che ardua.
L’ipotesi che sta sullo sfondo di questi saggi è radicata nella convinzione della necessità di rovesciare il tavolo del soggetto moderno. Il punto in questione non è la critica dell’egoismo o dell’individualismo, che consegue, al massimo, un appello morale: sempre necessario, ma, per così dire, ammonizione di complemento che deve accompagnare tutte le epoche e le storie di vita. Né si tratta di progettare un sacrificio del sé che dissolva semplicemente il soggetto, imponendogli di annientarsi in funzione dell’altro. La riduzione del sé a una grandezza di valore nullo, che si dispone quale puro strumento della realizzazione dell’altro, fa pur sempre un morto. E comunque, rischia di assumere una posizione incautamente incoraggiante, e persino perfettamente servizievole, nei confronti del narcisismo prevaricatore dell’altro. È proprio il dispositivo auto-referenziale, come gesto del desiderio che cerca anzitutto in se stesso il proprio compimento, che va decostruito. Il tema chiave del desiderio non è la sua origine, è la sua destinazione. L’accanimento sulla domanda «chi sono io?» conduce all’ossessione di una risposta che l’io non è in grado di dare: genera frustrazione, malinconia, angoscia e disperazione. La scarnificazione dell’autocoscienza è sanguinosa e sterile. L’inizio della sapienza è piuttosto chiedersi «per chi sono io?». Questa domanda apre la frontiera, inaugura l’avventura, ci rende esploratori di terre sconosciute e creatori di rapporti fecondi.
L'Osservatore Romano