lunedì 6 febbraio 2017

“Ma io vi dico…”


Masaccio, Il tributo (particolare), 1425 circa, affresco, 255×598 cm, cappella Brancacci in Santa Maria del Carmine, Firenze
Masaccio, Il tributo (particolare), 1425 circa, affresco, 255×598 cm, cappella Brancacci in Santa Maria del Carmine, Firenze
12 febbraio 2017
VI domenica del tempo ordinario
di ENZO BIANCHI

Brevi note sulla prima lettura

Siracide 15,15-20

Il sapiente, figlio di Sira, ci presente l’insegnamento, la Torah di Dio, e i suoi comandi come un dono, non come un giogo. L’essere umano è stato creato capace di libertà, capace di scegliere il bene o il male, la vita o la morte. Ogni persona dunque, proprio perché è a immagine e somiglianza di Dio (cf. Gen 1,26-27), è capax boni, è capace di etica, di fare il bene. Quando si pecca, si perde la somiglianza con il Creatore, ma non si perde mai l’immagine, che resta sempre in ogni persona come sigillo. L’uomo è responsabile del proprio peccato, anche se la sua fragilità lo rende incline a commetterlo, a non vivere secondo la volontà di Dio. Per questo, anche nella preghiera insegnataci da Gesù, diciamo: “Padre, non permettere che soccombiamo alla tentazione” (Mt 6,13). La nostra volontà e la grazia del Signore, in efficace sinergia, ci possono rendere obbedienti alla sua Parola.

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: 17 Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento. 18 In verità io vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà un solo iota o un solo trattino della Legge, senza che tutto sia avvenuto. 19 Chi dunque trasgredirà uno solo di questi minimi precetti e insegnerà agli altri a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà, sarà considerato grande nel regno dei cieli. 
20 Io vi dico infatti: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli.
21 Avete inteso che fu detto agli antichi: Non ucciderai; chi avrà ucciso dovrà essere sottoposto al giudizio. 22 Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello dovrà essere sottoposto al giudizio. Chi poi dice al fratello: «Stupido», dovrà essere sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: «Pazzo», sarà destinato al fuoco della Geènna.
23 Se dunque tu presenti la tua offerta all'altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, 24 lascia lì il tuo dono davanti all'altare, va' prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono.
25 Mettiti presto d'accordo con il tuo avversario mentre sei in cammino con lui, perché l'avversario non ti consegni al giudice e il giudice alla guardia, e tu venga gettato in prigione. 26 In verità io ti dico: non uscirai di là finché non avrai pagato fino all'ultimo spicciolo!
27 Avete inteso che fu detto: Non commetterai adulterio. 28 Ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore.
29 Se il tuo occhio destro ti è motivo di scandalo, cavalo e gettalo via da te: ti conviene infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il tuo corpo venga gettato nella Geènna. 30 E se la tua mano destra ti è motivo di scandalo, tagliala e gettala via da te: ti conviene infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il tuo corpo vada a finire nella Geènna.
31 Fu pure detto: «Chi ripudia la propria moglie, le dia l'atto del ripudio». 32 Ma io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie, eccetto il caso di unione illegittima, la espone all'adulterio, e chiunque sposa una ripudiata, commette adulterio.
33 Avete anche inteso che fu detto agli antichi: «Non giurerai il falso, ma adempirai verso il Signore i tuoi giuramenti». 34 Ma io vi dico: non giurate affatto, né per il cielo, perché è il trono di Dio, 35 né per la terra, perché è lo sgabello dei suoi piedi, né per Gerusalemme, perché è la città del grande Re. 36 Non giurare neppure per la tua testa, perché non hai il potere di rendere bianco o nero un solo capello. 37 Sia invece il vostro parlare: «Sì, sì», «No, no»; il di più viene dal Maligno.

Dopo le beatitudini (cf. Mt 5,1-12) e la definizione di chi le vive come sale della terra e luce del mondo (cf. Mt 5,13-16), ecco il corpo del “discorso della montagna”: tre capitoli nei quali Matteo ha innanzitutto raccolto parole di Gesù riguardanti la Legge data a Dio attraverso Mosè e il discepolo che vuole veramente viverla secondo l’intenzione del Legislatore, Dio. Nella parte restante del capitolo 5 Gesù crea sei contrapposizioni tra lo “sta scritto” tramandato di generazione in generazione e ciò che egli vuole annunciare, come un’interpretazione della Torah più autorevole e autentica di quella fornita dalla tradizione dei maestri.
Gesù comincia con l’assicurazione di non essere venuto ad abrogare la Torah, a toglierle autorità, bensì a “compierla”, a svelarne il senso racchiuso, realizzandolo in primo luogo nella sua persona e rivelandone il pieno significato. Anche per Gesù resta vero che “Mosè ricevette la Torah sul Sinai, la trasmise a Giosuè, Giosuè la trasmise agli anziani e gli anziani ai profeti (Mishnah, Avot I,1); ma proprio in nome della sua autorità messianica egli ne dà l’interpretazione ultima e definitiva, dopo la quale non ce ne saranno altre. Matteo è stato molto intrigato dal rapporto fra tradizione e novità del Vangelo, perché si indirizzava a comunità cristiane di Siria e Palestina, nelle quali erano presenti numerosi giudeo-cristiani, che si interrogavano su cosa potesse essere tralasciato delle minuziose prescrizioni rabbiniche. Vi erano allora, come ancora oggi, conflitti fra tradizionalisti e innovatori, fra zelanti della Legge fino al legalismo e cristiani più sensibili al mutamento dei tempi e della cultura.
Secondo il primo vangelo, Gesù resta fedele alla Torah, non la sostituisce con un insegnamento altro, ma con exousía, con autorevolezza, rivela, alza il velo sulla Legge e ne svela la giustizia profonda, perché sia possibile al discepolo una sua osservanza autentica. Per Gesù non è sufficiente l’osservanza indicata dai teologi del tempo, interpreti ufficiali delle Scritture (gli scribi), né quella propria dei credenti impegnati e osservanti, associati nei movimenti (i farisei): vuole una giustizia superiore, più abbondante (verbo perisseúo), che superi quella indicata dalle scuole rabbiniche e fissate nella casistica. Gesù vuole inoltre che quella giustizia predicata sia osservata, vissuta da parte di chi la indica agli altri, perché proprio da questo vissuto dipendono lo stile e il contenuto di ciò che si predica agli altri.
Ecco allora la prima delle quattro antitesi proposte dal brano liturgico: “Avete inteso che fu detto agli antichi: ‘Non ucciderai’ (Es 20,13Dt 5,17) … Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello dovrà essere sottoposto al giudizio. Chi poi dice al fratello: ‘Stupido’, dovrà essere sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: ‘Pazzo’, sarà destinato al fuoco della Geenna”. Innanzitutto, cosa chiede veramente Dio al credente in alleanza con lui? Solo di non uccidere? Questo il detto tramandato, ma il non-detto è svelato da Gesù: in tutte le relazioni umane occorre frenare l’aggressività, spegnere la collera prima che diventi violenza, fermare la lingua che può uccidere con la parola. Prima di diventare azione, la violenza cova nel cuore umano, e a questo istinto occorre fare resistenza. L’astenersi dalla violenza è più decisivo di un’azione di culto fatta a Dio, il quale vuole la riconciliazione tra noi fratelli prima della riconciliazione con lui; anche perché la riconciliazione con lui che nessuno vede è possibile solo per chi sa riconciliarsi con il fratello che ciascuno vede (cf. 1Gv 4,20).
Eppure noi sentiamo il bisogno di scaricare il male che ci abita, dicendo poco o tanto male di qualcuno. Usiamo la parola come una pietra scagliata, dicendo: “Quello è uno stupido, uno scemo!”, e così autorizziamo chi ci ascolta a ritenere una persona da evitare colui che abbiamo definito tale. Del resto, già i rabbini dicevano che “chi odia il suo prossimo è un omicida”. Ecco dunque svelata la profondità del comandamento: “Non ucciderai”, che significa anche “Sii mite, dolce, e sarai beato” (cf. Mt 5,5).
Dopo la violenza viene la sessualità, materia della seconda e della terza antitesi. Si comincia con: “Non commetterai adulterio” (Es 20,14Dt 5,18). Ma per Gesù questo non è sufficiente. Occorre fare i conti con il desiderio che abita il cuore umano: se infatti uno desidera il possesso, se con il suo sguardo cerca di possedere l’altro, se con la sua brama non vede più la persona, ma solo una cosa di cui impadronirsi, allora anche se non arriva a consumare il peccato è già adultero nel suo cuore. Se si fa attenzione, qui Gesù sposta la colpa dalla donna sedotta, giudicata sempre lei come peccatrice e causa di peccato, a chi seduce e non sa resistere al desiderio. Tutto il corpo, e soprattutto i sensi attraverso i quali viviamo le relazioni con gli altri, devono essere dominati, ordinati e anche accesi dalla potenza dell’amore, non dall’eccitazione delle passioni. Certamente non è facile questa vigilanza e questa disciplina del cuore, ma non è possibile scindere la mente, il cuore e i sensi dalla sessualità. Proprio per questo Gesù ribadisce (e lo farà più ampiamente in Mt 19,1-9) che Dio non vuole il ripudio, l’infrazione dell’alleanza nuziale, non vuole la contraddizione alla storia d’amore sigillata nella pur faticosa avventura della vita.
La quarta antitesi riguarda la verità nei rapporti tra le persone. È l’ottavo comandamento dato al Sinai: “Non dirai falsa testimonianza” (Es 20,16Dt 5,20). Gesù conosce bene quello che gli esseri umani vivono: incapaci di vivere la fiducia nelle relazioni reciproche, giungono a giurare, a chiamare Dio come testimone (cf. Es 20,7Lv 19,12Dt 23,22). Così avviene nel mondo, così fan tutti, ma ecco la radicalità di Gesù: “Io vi dico di non giurare mai, né per il cielo, perché è il trono di Dio, né per la terra, perché è lo sgabello dei suoi piedi, né per Gerusalemme, perché è la città del grande Re”. Alla casistica della tradizione Gesù oppone la semplicità del linguaggio, la verità delle parole: Gesù invita alla responsabilità della parola. Il parlare di ciascuno dev’essere talmente limpido da non aver bisogno di chiamare Dio o le realtà sante a testimone di ciò che si esprime. Non sono necessari garanti della verità che si esprime, e invocare il castigo, la sanzione di Dio per ciò che si è detto come non vero o per ciò che non si è realizzato, è temerario. Dio non è al nostro servizio e non interviene certo a punire le nostre menzogne, almeno durante la nostra vita.
E allora quando uno dice sia “sì”, sia “sì”, e quando dice “no”, sia “no”, perché il di più viene dal Maligno”, che “è menzognero e padre della menzogna” (Gv 8,44). Nessun “cuore doppio” (Sal 12,3), nessuna possibilità di simulazione per il discepolo di Gesù, nessun tentativo di dire insieme “sì” e “no”. Non è forse Gesù stesso “l’Amen di Dio” (cf. Ap 3,14), il “Sì” di Dio alle sue promesse, come predica Paolo (cf. 2Cor 1,19-20)? L’essere umano rispetto agli animali ha il privilegio della parola, ma questo mezzo così umanizzante per sé e per gli altri è uno strumento fragile… Il dominio della parola è davvero alla base della sapienza umana.
Quella di Gesù non è dunque una “nuova legge”, una “nuova morale”, ma è l’insegnamento di Dio dato a Mosè, interpretato con autorità, risalendo all’intenzione del Legislatore stesso. Solo Gesù, il Figlio di Dio, poteva fare questo.