giovedì 2 febbraio 2017

Perchè gli italiani si convertono all'Islam?




di Francesco Floris
C'è chi ha letto i testi di Shaykh 'Abd al-Wahid Yahya – al secolo Réne Guénon, intellettuale “metafisico” francese – ed è approdato al credo Sufi. Chi è giunto alla stessa fede per necessità, perché voleva un rapporto più verticale e meno mediato con Dio e la spiritualità. Chi si converte perché semplicemente inizia a crederci; docenti e professori che s'innamorano della disciplina che studiano al punto di interiorizzarla, nomi noti dello star system che recitano gli hadith, talvolta, perché figli di un carattere non conformista che li porta a volersi distinguere. In maniera non dissimile di chi nei decenni addietro ha abbracciato l'Induismo o il Buddismo.
Altri sono militanti di estrema destra e sinistra che trovano in alcune parole d'ordine dell'Islam, spesso le stesse ma per ragioni diverse, una forte ribellione contro i valori (o disvalori) della società occidentale che prima contestavano solo su un piano politico. E la religione diventa per questi uno strumento, nuova benzina sulla necessità della lotta.
Ci sono i plagiati e i “lupi solitari” radicalizzati sul web, come va molto di moda raccontare in questo periodo, quasi a voler instillare il sospetto che quella sia l'unica via. «Certo esistono alcuni tipi di religiosità che si adattano facilmente alla comunicazione su internet, spesso che si converte in questa maniera ha una religiosità con connotati riconoscibili, molto purista. Può valere anche per le seconde generazioni con legami deboli con il Paese di origine. Figli di immigrati che hanno attraversato duri processi di integrazione distanziandosi dalla propria identità. Ed è così che alcuni dei loro figli possano desiderare un ritorno all'origine che è più immaginata che non vissuta» spiega a Linkiesta Lorenzo Declich, traduttore e analista de mondo islamico contemporaneo che ha insegnato all'Università Orientale di Napoli. «Le conversioni via internet, tuttavia, reggono solo se all'esterno, nel mondo reale, esiste un qualche network nella società a cui appoggiarsi. Il tema della radicalizzazione è invece di tutt'altra natura perché presuppone un'appartenenza quanto meno lontana, ma un'appartenenza pre-esistente». La fibra ottica non sembra giustificare quindi che in minima parte il fenomeno del nuovo credo in Allah da parte di italiani ex atei, agnostici, cattolici o di qualunque altra confessione.
C'è dell'altro infatti: ci sono i bigotti e bacchettoni che vedono un cristianesimo secolarizzato non più in grado di combattere i costumi lascivi, veri o presunti, della nostra società e si rivolgono altrove; c'è chi inizia ad ascoltare la parola del profeta Maometto per opportunità e ragioni sociali, magari per sposare una donna di fede islamica e vedere riconosciuta la propria sacra unione anche nel Paese di origine della moglie. È una prassi che coinvolge ogni tipo di coppia mista, quel genere di matrimonio che è aumentato grazie alla “globalizzazione delle persone” dagli anni '70 in poi attraverso viaggi, spostamenti di lavoro o flussi migratori. Eppure aderire al credo del partner non sarebbe sempre obbligatorio per legge nemmeno se la/il coniuge ha origini in Paesi a maggioranza musulmana o la cui giurisprudenza riprende dettami religiosi. Spesso, però, è diventato obbligatorio per prassi, per poter ricevere l'approvazione di una delle due famiglie.
A quel punto basta recarsi in una moschea e pronunciare la professione di fede islamica oppure si va al consolato e si firma – niente riti d'iniziazione, battesimi o forme di catechismo musulmano. È un fenomeno interessante perché nasconde due sottotracce poco raccontate. La prima è che nelle nuove generazioni di musulmane nate in Italia si fa sempre più forte il desiderio che l'aspirante marito non si converta pro-forma o in maniera “menzognera”. La seconda è che i funzionari di consolati e ambasciate che riconoscono la conversione all'Islam sono di manica larga col nuovo adepto. Per vari motivi: si gonfiano le statistiche, anzitutto, sebbene il novello non sia un profondo conoscitore del Corano e magari nemmeno troppo convinto. E poi c'è la credenza diffusa che anche un'adesione “formale” alla nuova religione porterà col tempo a una più “sostanziale”, nelle prassi e nei comportamenti, pubblici e privati.
Stiamo parlando di un microcosmo complesso e sfaccettato dentro l'universo dei musulmani d'Italia. Il microcosmo dei convertiti all'Islam che è stato raccontato, per esempio, dal sociologo Stefano Allievi nel libro I nuovi musulmani. I convertiti all'Islam. È un universo complesso a partire da cose semplici come i numeri: tra i 50mila e gli 80mila scrivono diverse testate giornalistiche italiane; alcuni siti islamici riportano il dato di 77mila ma il dubbio che la stima sia al rialzo, per portare acqua al proprio mulino, è legittimo. «Proprio al Viminale si sta discutendo del problema che rappresenta non avere forme di censimento, dell'assenza di strutture adatte a raccogliere quel dato seppur in forma anonima» spiega ancora Lorenzo Declich. Il motivo di questo caos? Semplice, in Europa non viene indicata l'appartenenza religiosa nei documenti personali, al contrario di quanto accade altrove. La stessa Grecia – dove per larghi strati della popolazione non essere un fedele ortodosso significa mettere in dubbio la propria “grecità” – ha dovuto abbandonare questa pratica per entrare a far parte dell'Unione europea.
La complessità tuttavia non è solo nelle statistiche. I convertiti vengono guardati con sospetto dai connazionali e sono accusati da una parte delle seconde generazioni figlie di immigrati – quelle che hanno integrato modelli occidentali, i più svariati – di abbracciare versioni radicali dell'Islam. Il caso di cronaca, dai contorni ancora oscuri, scoppiato nelle ultime ore e che vede due coniugi napoletani accusati di aver introdotto armi in Paesi sottoposti a embargo, come Libia e Iran – previa conversione, o presunta tale – non fa che soffiare sul fuoco.
Ma i problemi, al netto delle azioni criminali, esistono. «Il neofita è un entusiasta» spiega a Linkiesta il professor Paolo Branca, associato di Islamistica all'Università Cattolica di Milano e conoscitore della comunità musulmana d'Italia «spesso più realista del re che pretende una scrupolosità per esempio sull'alcol o sugli usi e costumi o la libertà femminile che non appartiene a un musulmano “di nascita”». È d'accordo il sociologo Massimo Introvigne, direttore del Centro Studi sulle Nuove Religioni: «Il convertito ha investito energie nel suo nuovo credo e il momento di “rottura” può essere stato anche scioccante o traumatico, agli occhi della sua famiglia o delle sue relazioni precedenti. Come diciamo in sociologia, c''è stato un investimento di “capitale sociale”.
Fa specie che invece possano essere i musulmani “di nascita”, magari giunti per motivi di lavoro nella penisola, ad avere concetti più elastici e morbidi in merito ai dettami religiosi di quanto lo stereotipo vorrebbe. Sono una forma di “maggioranza silenziosa” o comunque una buona metà ignorata e non raccontata dai media, come mostrato dall'articolo di Karima Moual su La Stampadel 17 gennaio. Dove si dimostra come la televisione, certe trasmissioni e rotocalchi in particolare, preferiscano il musulmano “da attacco”, tanto da indurre alcuni dei partecipanti ai format a simulare come attori, polemizzando con pubblico e conduttore. Il tutto per avere il proprio estratto di “scontro di civiltà”, in un formato adatto al piccolo schermo.
Senza voler generalizzare, è invece nelle case dei convertiti che si possono trovare elementi esteriori molto visibili: immagini religiose affisse alle pareti, esemplari di Qamis – i camicioni bianchi indossati dagli uomini – anche una presenza inusuale di datteri. Molte non sono nemmeno icone religiose ma piuttosto “arabeggianti” e orientaliste, sinonimo di una confusione mentale che è dei vari attori in questa partita, anche quelli attivi, oltre che degli osservatori che cercano di descrivere il fenomeno.
Confusione, già, ma per quali ragioni? Per provare a rispondere bisogna partire dalla filologia e dall'esegesi dei testi. Di un testo: il Corano. «C'è una traduzione, la più diffusa, in vendita a tre euro in tutte le moschee» ci dice Maryan Ismail, somala di confesisone Sufi ed ex quadro dirigente del Partito democratico di Milano, proprio in queste ore impegnata al Ministero degli Interni nel tavolo delle comunità islamiche italiane, come rappresentante di quella somala. Ismail è uscita dal pd meno di un anno fa in polemica con la sua emanazione locale per come era stata gestita la quesitone delle moschee in città. «Quella traduzione dà un'interpretazione letterale del Corano, senza smussature, e che scritta in italiano rappresenta la principale modalità con cui avvicinarsi all'Islam». Smussature che a quanto pare esistono a bizzeffe: per esempio, i tribunali sciaraitici che davanti a una controversa violazione della legge hanno la possibilità e devono confrontare differenti interpretazioni dello stesso testo. Letture comparate per ottenere una giusta condanna o assoluzione.
Capita nei Paesi a maggioranza islamica mentre quasi lo ignorano i nuovi adepti in Italia. «Per esempio» prosegue la Ismail, «se sei un malikita in caso di adulterio è praticamente impossibile la lapidazione o la pena di morte». Esistono anche diversi gradi di giudizio al contrario di quanto avviene in Arabia Saudita dove la prima e unica sentenza è immediatamente esecutiva. È solo un caso particolare ma aiuta a comprendere la pluralità di una religione che abbraccia 1,5 miliardi di fedeli e tutti i continenti del pianeta. La ex dem sul fenomeno dei convertiti usa un paragone che suona come una provocazione intellettuale: «Pensate di insegnare la dottrina cristiana a un ragazzo della Costa d'Avorio. Pensate di farlo dicendogli di leggersi la Bibbia tradotta apposta per lui. Senza però specificare che c'è un vecchio e un nuovo Testamento, che il Cristianesimo è anche quattro Vangeli, catechismo, centinaia di filosofi e teologi che per secoli hanno dibattuto su questo. Quali effetti avreste?».
Una pluralità insomma. Che viene sistematicamente ignorata. Per Paolo Branca sono «i media a ingigantire tutto questo, dando al grande pubblico ciò che vuole e sguazzando fra barbonivelate e solo velatefanatici, frasi stereotipate ripetute sempre uguali come un mantra. Risvolti che esistono, certo, ma nella narrazione diventano gli unici al motto di “ciò che si vede esiste, ciò che non si vede no”». E le conseguenze sono pesanti per tutta la comunità: se fra tutti gli islam quello è l'unico Islam, allora a sedersi ai tavoli istituzionali ci andranno solo i suoi rappresentati a discapito di altri. Fu proprio questo il motivo che a Milano diede adito all'escalation sul caso delle moschee. Un'escalation interna alla stessa comunità islamica e fatta di veti incrociati, ricorsi al Tar e Consiglio di Stato, litigi, interviste al vetriolo e una legge regionale che poi si è rivelata incostituzionale. Tutto nato da un equivoco di fondo: la “monopolizzazione” di quella battaglia da parte di un islam lombardo sopra tutti gli altri presenti, vivi e vegeti in regione.
Tornando alla conversione, ci sono aspetti che vengono indagati dalla sociologia delle religioni e dalla psicologia negli ultimi 50 anni. «In assoluto è il tema più studiato, con ricerche mastodontiche» prosegue il professor Introvigne. «Alcuni punti fermi e accettati dalla comunità scientifica oggi possiamo metterli: l'approccio tradizionale insisteva sul tema della propaganda, sul disagio e l'esclusione sociale, come la chiamano gli inglesi “deprivation”. Oggi tutto questo è molto vecchio. L'elemento principale che individuiamo e che porta una persona ad aderire al nuovo credo non è macro sociale ma micro sociale. Significa che gli effetti hanno peso statistico sopratutto sulla propria rete quotidiana: famiglia, amicizie, colleghi».
Un punto, questo, che vale per i nuovi musulmani italiani come per i Testimoni di Geova, i mormoni o per Scientology. Nelle ricerche del docente torinese è emerso come il porta a porta per spargere la voce di Dio non sortisca in pratica nessun effetto nell'interlocutore ma abbia un forte connotato spettacolare e motivazionale nel credente che lo effettua. Cerchiamo una prova? Guardiamo a un caso estremo che parla non di semplice conversione ma radicalizzazione: Giuliano Delnevo, poi Ibrahim, uno dei due italiani (almeno noti) partiti per unirsi a un gruppo ribelle islamista in Siria e che sul campo di battaglia ha perso la vita. «Quel ragazzo non solo è diventato musulmano da cattolico che era, ma nella scuola scuola di Genova che frequentava divenne il migliore amico di un coetaneo marocchinoI due partirono insieme alla volta di Aleppo». Non solo. Anche il padre, che alla notizia della morte lo definì “un eroe”, si è convertito dopo il fattaccio abbracciando tesi forti. Di nuovo, la micro rete sociale influisce, dove internet, la propaganda o altre forme di reclutamento possono fare solo da catalizzatore, non da causa tout court.
Il secondo punto fermo che la comunità scientifica pone riguarda le due modalità principali di conversone. Un binario che si biforca a prescindere da quale sia il punto di partenza e quello di approdo. Il primo riguarda i militanti politici o gli attivisti religiosi che passano anche con rapidità da un estremo all'altro. In Italia lo conosciamo e spesso lo bolliamo come trasformismo, opportunismo politico dettato dalle poltrone, ma è qualcosa d'altro: per passare da Lotta Continua a tesi anti-abortiste magari più volte nella vita, ad esempio, non basta essere opportunisti o incoerenti. Oppure la vicenda biografica dell'editorialista Magdi Allam, diventato fervente cristiano in contrapposizione, quasi in odio, all'Islam da lui bollata come religione di guerra e morte. Per poi abbandonare, almeno in parte, anche il Cristianesimo in polemica prima con Papa Ratzinger con una dura lettera inviatagli a chiusura del suo papato e poi in aperto contrasto a Papa Francesco. Ma non è il solo: il carismatico e storico leader dell'Ucoii (Unione delle comunità islamiche d'Italia), Hamza Roberto Piccardo, spesso al centro di polemiche, l'ultima ad agosto per aver chiesto il riconoscimento della poligamia come diritto civile, ha un passato di appartenenza ideologica alla sinistra politica mentre oggi basta leggere il suo commento al Corano per coglierne l'interpretazione rigida. Vale per molti militanti politici: del resto i legami, strumentali e culturali, di una certa eversione in Italia degli anni '70-'80 con gli Hezbollah libanesi o l'Olp palestinese sono un fatto storico.
Infine c'è la via del sufismo, del misticismo, dell'esoterico. «Chi fra gli italiani convertiti si rifà a una tradizione Sufi ha spesso un approccio invece moderato ai temi della politica e del costume». Hanno letto e Guenon senza passare dai Fratelli Musulmani o Khomeyni. Spesso questi soggetti tendono a raccontare di una fulminazione. Ecco, non sempre e così: «La conversione istantanea è più raccontata che reale. La narrativa stereotipata di certi culti, il loro storytelling ti porta, in perfetta buona fede, a raccontarla in maniera diversa da come è andata in realtà. C'è voluto del tempo perché le cose si sedimentassero, spesso anche con un percorso travagliato e costoso per il nuovo fedele».
Non a caso il mito della fulminazione prende forma in una particolare sacra scrittura: neppure San Paolo ha detto tutta la verità su quanto successo lungo la via di Damasco.
http://www.linkiesta.it
Vedi anche:
http://centroastalli.it/io-sono-musulmano-ti-racconto-di/