sabato 11 febbraio 2017

Se l’uomo si scopre fragile



Il segretario di Stato legato pontificio a Lourdes.  

«Dio non ci chiede di essere dei “super eroi”. Non chiede neanche di negare che stiamo vivendo delle difficoltà», magari «indossando la maschera di un uomo o di una donna “superiore” a ciò che lo umilia o limita. Dio ci chiede di dargli credito e di fidarci di lui». Il cardinale Pietro Parolin, legato papale a Lourdes per la celebrazione della venticinquesima giornata mondiale del malato, ha offerto quest’immagine di consolante certezza alla folla di fedeli radunati nella cittadella mariana.
Il segretario di Stato ha presieduto la celebrazione della messa internazionale sabato mattina, 11 febbraio, rilanciando l’esortazione a «non avere paura» perché il Signore «si fa vicino, non ci dimentica; noi siamo importanti per lui; noi siamo coloro con i quali egli vuole condividere la sua stessa vita». 
Nel commentare le letture liturgiche, il porporato ha invitato i malati presenti a impedire che i timori trovino terreno fertile nelle debolezze della malattia, sottolineando come spesso sia la fragilità «il principale ostacolo nella relazione con Dio e con gli altri». E ha offerto come modello proprio l’Immacolata, che con il suo “eccomi” ha avuto un ruolo insostituibile nella storia della salvezza e della Chiesa. Certo, qualcuno potrebbe obiettare che quell’“eccomi” al momento dell’annunciazione non fu pronunciato nel tempo della malattia, della sofferenza, della fragilità, della morte. Tuttavia, ha chiarito il cardinale Parolin, «in realtà non è così». Anzi l’evangelista Luca «è molto preciso quando dice che il dialogo dell’“eccomi” prende forma nel mezzo di molteplici esperienze problematiche».
La prima — ha spiegato il legato pontificio — «riguarda la famiglia, della quale la giovane Maria entrerà a far parte: la famiglia reale» ma anche quella «che ha portato Israele alla divisione e alla rovina per avere scelto gli idoli al posto del vero Dio». Insomma «la famiglia in cui non risuona il reciproco “eccomi” che ha guidato la vita del re Davide», quella «che ha portato Israele a scomparire dalla carta geografica». Ed entrando nella casa di Davide, la sposa di Giuseppe si spoglia di sé: «È chiamata a lasciare tutto per fare le esperienze della povertà e dell’esclusione che la storia riserva a quanti, in un modo o nell’altro e per i motivi più svariati, si sono persi» venendo privati al tempo stesso della stima, dell’apprezzamento e della benevolenza della comunità di appartenenza. Da qui le domande del cardinale Parolin che sono un invito a riflettere: «Non è questa la stessa esperienza che abbiamo fatto al momento della malattia, della sofferenza, della fragilità, della morte? Vivendo questi momenti non ci si ritrova improvvisamente spogliati, privati delle abitudini quotidiane? Quanti si sono sentiti in uno stato di povertà radicale, abitato più dal buio che dalla luce? Quanti hanno avvertito improvvisamente di essere diventati un peso per se stessi e per gli altri? Quanti si sono sentiti o sono stati trasformati in oggetti, numeri, protocolli?».
Un secondo spunto per l’omelia è venuto poi dal fatto che l’evangelista ricorda come l’“eccomi” di Maria venga pronunciato «non a Gerusalemme, il centro della vita e della fede di Israele, ma alla sua periferia»: a Nazareth, nella “Galilea delle genti”, un territorio «che è sinonimo di morte» per il solo fatto che è considerato “lontano”: lontano da quanto conferisce identità e da quanto garantisce sicurezza, lontano dal tempio che era il cuore della speranza religiosa. E questa “lontananza” — ha evidenziato il cardinale Parolin — ha molto in comune con «il tempo della malattia, della sofferenza, della fragilità, della morte. Tutti questi momenti, infatti, sono tempi di diverse “lontananze”». Da qui l’invito del celebrante ai presenti: «Se oggi, qui e ora, la madre Immacolata ci spinge ad accogliere, a desiderare, a cercare e a costruire il dialogo dell’“eccomi”, il dialogo che rende credenti, ella lo fa non come una privilegiata ma come una povera, che sa bene cosa vuol dire tutto ciò che ruota attorno al tempo della sofferenza e della fragilità perché lo ha vissuto prima». 
Del resto, ha continuato, «Cristo apre la porta della gioia, dell’amore a tutti, indipendentemente dalla lingua, dal popolo, dalla cultura, dal colore della pelle». E di conseguenza il tempo della malattia e della morte va affrontato insieme «con lui come “viventi”, come egli stesso era “vivente” nell’ora della croce». 
La sera precedente, venerdì 10, il legato pontificio aveva salutato i partecipanti alla tradizionale processione aux flambeaux che precede la celebrazione principale. Davanti alla grotta di Massabielle, il cardinale Parolin ha parlato della fragilità. «In tempi — ha detto — in cui l’autonomia, direi l’autosufficienza, è esaltata come un valore assoluto, tutti abbiamo bisogno di ripensare l’essere umano per scoprire come una delle sue caratteristiche intrinseche è la dipendenza, la non autosufficienza. La persona umana, in ogni fase della sua esistenza, è consapevole dei propri limiti fisici, caratteriali, spirituali, dell’incapacità di bastare a sé stessi, del bisogno costante dell’altro». E «la malattia, quando si verifica, chiarisce tutto questo come forse nessun’altra esperienza». Ciò porta l’essere umano a vivere in modo «inequivocabile l’interruzione di alcune relazioni, la solitudine, la perdita di alcune libertà e opportunità. Ma — ha concluso — la fragilità e i limiti non distruggono la dignità altissima e intrinseca di ogni essere umano».

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Quale risposta alla sofferenza? 

(Peter Kodwo Appiah Turkson) Nel messaggio per la venticinquesima giornata mondiale del malato, Papa Francesco invita tutta la Chiesa e, in modo particolare, i nostri fratelli infermi a rivolgere lo sguardo verso Maria, la “bella Signora di Massabielle”, con l’atteggiamento di un sempre vivo «stupore per quanto Dio compie: “Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente”».
Istituita da Giovanni Paolo II nel 1992, la giornata mondiale — celebrata per la prima volta proprio a Lourdes l’11 febbraio 1993 — costituisce un’occasione ecclesiale di attenzione speciale alla condizione umana, soprattutto a chi ne sperimenta la fragilità e la vulnerabilità e a quanti si prendono cura dei malati e dei sofferenti con affetto e devozione. Il messaggio del Pontefice offre un’opportunità unica per riflettere sullo stupore della cura premurosa di Dio in Maria e per tutta l’umanità, l’impegno misericordioso della Chiesa e di chi si dedica al servizio dei malati. Invitando tutta la Chiesa a porsi spiritualmente ai piedi di Maria presso la grotta di Massabielle, Papa Francesco esorta a contemplare nella Vergine, colei «nella quale l’Onnipotente ha fatto grandi cose, per la redenzione dell’umanità». Lo stupore dinanzi all’Immacolata ravviva la fede nella speranza che il Signore rivolgerà anche verso ciascuno dei malati il suo sguardo di bontà e di tenerezza. Il Papa esorta a trovare nella fede nutrita dalla Parola e dai sacramenti la forza che alimenti una vita di fiducia in Dio nella solidarietà con il fratello, soprattutto quello debole e fragile. 
In ciò Maria ci viene incontro quale madre consolatrice e misericordiosa, per introdurci nella relazione con il suo figlio, assumendo nei nostri confronti la propria responsabilità materna. Trasmette al mondo l’umanità e la tenerezza di Dio e soprattutto la fiducia con la quale avvicinare, scrutare e custodire il mistero della vita, in particolare nell’ora della prova. Lei ci innesta nella giustizia dell’onnipotenza di Dio, poiché «è colei che conosce più a fondo il mistero della misericordia divina. Ne sa il prezzo, e sa quanto esso sia grande» (Dives in misericordia, 9). 
È lo sguardo materno e amorevole di Maria a trasformare la vita di Bernadette. La grotta di Massabielle diventa il santuario della tenerezza di Maria che «ci ricorda — afferma il Papa nel suo messaggio — che ogni malato è e rimane sempre un essere umano e come tale va trattato». 
Dall’Immacolata, Bernadette riceve la grazia di servire i malati come suora della carità, una missione che esprime in una misura così alta da diventare modello per ogni operatore sanitario. È il prototipo della discepola, oggetto della misericordia di Dio, che diventa un autentico esempio di testimone. 
La malattia non è un impedimento alla realizzazione del progetto di Dio sull’uomo, bensì l’esperienza della vulnerabilità di quest’ultimo che non oscura la sua capacità innata di cura. È un’occasione che rende anche possibile riscoprire come la vicinanza salvifica di Dio illumina e rende sopportabile l’esperienza della precarietà umana. La croce di Cristo è la risposta dell’amore di Dio che dà senso alla speranza di ogni sofferente, di ogni malato e di ogni bisognoso in virtù della preziosità del suo essere dinanzi a Dio.
Il servizio al malato passa attraverso una rete relazionale; la presuppone e la costituisce come alleanza di relazione, terapeutica, assistenziale, familiare, umana, religiosa, spirituale ed ecclesiale. Relazionarsi a un malato è dunque, come afferma il Papa, «relazionare a una persona che, certamente, ha bisogno di aiuto, a volta anche per le cose più elementari, ma che porta in sé il suo dono da condividere con gli altri». Ogni ospedale, ogni casa di cura o di assistenza, deve essere segno visibile ed espressione di quell’attenzione premurosa alla condizione umana ispirata a Bernadette da Maria, per promuovere una rete umana dell’incontro dove l’aiuto, professionale e fraterno, al sofferente o al malato contribuisca a superare il limite della cultura dello scarto e dell’ingiustizia. 
L’invito di Francesco, pertanto, è quello di vivere la giornata mondiale del malato con un «nuovo slancio per contribuire alla diffusione di una cultura rispettosa della vita, della salute e dell’ambiente». In questa prospettiva, il Pontefice auspica che i momenti di preghiera, le liturgie eucaristiche e l’unzione degli infermi, la condivisione con i malati e gli approfondimenti bioetici e teologico-pastorali, che si tengono a Lourdes in questi giorni di straordinaria celebrazione, offrano un nuovo importante contributo al servizio ecclesiale al malato. Egli rinnova la sua vicinanza di preghiera e di incoraggiamento ai medici, agli infermieri, ai volontari e a tutti i consacrati e le consacrate impegnati in favore dei malati e dei disagiati; alle istituzioni ecclesiali e civili che operano in ambito sanitario così come alle loro famiglie. A tutti augura di essere sempre segni gioiosi della presenza e dell’amore di Dio, imitando la luminosa testimonianza di tanti amici e amiche di Dio, tra i quali ricorda san Giovanni di Dio e san Camillo de’ Lellis, patroni degli ospedali e degli operatori sanitari, e santa Teresa di Calcutta, missionaria della tenerezza di Dio.
L'Osservatore Romano