domenica 19 febbraio 2017

Quel desiderio grande che ci muove

Don Simone Gulmini

di Simone Gulmini*

Uno sguardo sulla povertà, sull'amore e sull'umanità. E' quello di don Simone Gulmini, sacerdote ferrarese della Fraternità Sacerdotale San Carlo che da qualche mese vive in Cile. Per gentile concessione dell'autore e del superiore della FSCB riportiamo una toccante riflessione che invita a guardare l'umano con gli occhi di Dio, spogliandosi delle nostre incrostazioni ideologiche. 
Da circa quattro mesi mi trovo in Cile, a Puente Alto. Vivo con don Marco Aleo, il parroco, don Lorenzo Locatelli, il capo casa, don Alessandro Camilli e don Diego Garcia, viceparroci. Vi racconto due fatti da cui ho imparato molto.
Il primo è accaduto una domenica, quando sono arrivato in parrocchia per celebrare la messa festiva. Entro in chiesa e mi si presenta un’anziana signora vestita da regina. La saluto e lei mi chiede di confessarsi. Le persone presenti si mettono a ridere, dicono che è pazza. Entriamo nel confessionale e scopro che non voleva confessarsi ma dirmi che tutta la vita aveva desiderato essere una regina e che finalmente aveva esaudito il suo sogno. A Puente Alto esistono club per anziani che ogni anno eleggono la loro regina. Penso che il desiderio dell’anziana signora sia in fondo il mio: non essere solo, essere amato e dunque felice. Alla fine della messa, allora, ho detto a tutti che quel giorno, tra di noi, c’era una regina. Si sono messi a ridere pensando che alludessi all’anziana signora, ma io ho aggiunto: “Si chiama Vergine Maria”. E ho continuato dicendo che erano presenti numerose regine, perché tutte avevano come signore un re. Gesù stesso lo dice: “Io sono re”. Ma quel giorno – ho proseguito – avevamo tra noi anche una signora vestita da regina. L’ho invitata a salire all’ambone e a raccontare la sua storia. Così lei si è alzata, ha sfilato fino all’ambone e, raccontando la sua storia, è scoppiata in lacrime. I fedeli sono ammutoliti. Quando si è ripresa, è vero, il problema è stato toglierle il microfono, ma intanto quella signora aveva rivelato a me e ai presenti il desiderio grande che ci muove, di essere amati.
Il secondo fatto è accaduto ad una amica, insegnante universitaria di fisica. In questo periodo, nelle università sta accadendo quello che accadeva negli anni ’70 in Europa, con l’occupazione degli istituti da parte degli studenti. Un giorno, davanti all’università c’era un mendicante che gridava: “Ho fame”. Gli studenti gli passavano accanto senza accorgersi di lui. La mia amica si è fermata e lo ha portato con sé in un ristorante dove i camerieri non volevano farlo entrare, perché puzzava ed era violento. La mia amica li ha convinti e lui ha mangiato, tra una imprecazione e l’altra. Poi se n’è andato.
Questa storia mi ha fatto venire in mente un’opera teatrale scritta da Karol Wojty?a, Fratello del nostro Dio, ispirata a un uomo realmente esistito, Adam Chmielowsky. Era un pittore polacco che, dopo avere appoggiato il regime marxista, terminerà il suo percorso fondando un ordine religioso, e che lo stesso Giovanni Paolo II canonizzerà durante il suo pontificato. Mentre dialoga con un amico rappresentante dell’intellighenzia polacca, Adam passa a lato di un vagabondo mezzo morto, disteso al suolo. Chiede all’amico se si è accorto del povero, ma quegli afferma che il povero non dice più nulla alla sua intelligenza, ha smesso di essere un problema per lui, può ignorarlo. L’intellettualismo non è attratto dalla persona concreta, postula un bene universale che schiaccia l’individuo, elimina la storia singolare in cerca di soluzioni atemporali e per questo inumane. Sogna – come scrive T. S. Eliot – «con sistemi talmente perfetti, che più nessuno avrebbe bisogno di essere buono». Adam dice all’amico: “Quante cose ti mancano” e i due si salutano. Poi torna sui suoi passi e, incontrando il vagabondo, lo solleva e gli dice: “Mi hai salvato”. Hai salvato il mio cuore, la mia umanità.
Che cosa mi hanno insegnato questi fatti? Che le persone concrete, pazze o vagabonde che siano, ci salvano dalla tirannia dell’idea che abbiamo sulla realtà. Un giorno don Massimo Camisasca ci ha detto: “Quando pensiamo che la persona che abbiamo davanti è un poveretto o che le persone che abbiamo in parrocchia sono quattro poveracci, è perché la povertà ce l’abbiamo dentro”. Nell’epilogo dell’opera teatrale di Wojty?a, quando Adam farà presente all’amico il desiderio di fondare un ordine religioso dedicato alla carità, lui obietterà che i poveri non lo seguiranno. Sarà lui a seguirli, ribatterà Adam. Così io vado all’ospedale e faccio ciò che faccio perché ci sono e ci saranno sempre delle persone che salvano la mia umanità.
*Sacerdote della Fraternità San Carlo Borromeo