lunedì 6 febbraio 2017

Riforma e terapia...



... nella letteratura spirituale.

(Marcello Semeraro) Nel discorso per gli auguri natalizi del 22 dicembre scorso Francesco è tornato a riflettere, come nei precedenti due anni, sulla riforma della curia romana. Al termine ha ricordato che dopo il discorso del 2014, quando aveva parlato delle «malattie curiali», un partecipante gli aveva domandato «Dove devo andare, in farmacia o a confessarmi?» e che egli aveva risposto «Mah, tutt’e due». Ha riferito poi che, salutando il cardinale Brandmüller, questi aveva detto «Acquaviva». E il Papa ha proseguito nella spiegazione: «Io, al momento, non ho capito, ma poi, pensando, pensando, ho ricordato che Acquaviva, quinto generale della Compagnia di Gesù, aveva scritto un libro che noi studenti leggevamo in latino. I padri spirituali ce lo facevano leggere, si chiamava così: Industriae pro Superioribus ejusdem Societatis ad curandos animae morbos, cioè le malattie dell’anima». Aggiungendo subito dopo che aveva deciso di farne dono natalizio a tutti i presenti.
L’episodio merita di essere commentato, perché aiuta a mettere meglio a fuoco l’altro livello che, insieme con quelli ecclesiologico e istituzionale, Francesco intende quando fa uso della parola “riforma”. Intendo il livello spirituale, che fu dominante nel discorso del 22 dicembre 2014. Come ogni corpo umano — disse il Papa — la curia «è esposta anche alle malattie, al malfunzionamento, all’infermità»Francesco, in verità, ne parlò non soltanto come malattie, ma pure come «tentazioni» che indeboliscono il servizio al Signore. Propose perciò come orizzonte, nell’ultimo periodo di preparazione al Natale, la celebrazione del sacramento della riconciliazione.
Bisogna innanzi tutto accennare brevemente all’opera di padre Claudio Acquaviva (1543-1615), che fu il quinto preposito generale della Compagnia di Gesù. Le Industriae (pubblicate nel 1600 Apud Philippum Iunctam, famosa officina di Firenze) furono scritte dal generale per i superiori della Compagnia al fine di aiutarli ad rectam gubernationem, ossia “per il buon governo” e anche per la crescita delle comunità. Interessante da notare è l’uso dell’espressione cura animarum — Acquaviva alterna il termine cura con curatio, che intende come l’esercizio effettivo della cura — in senso non amministrativo, ma spirituale.
La cura delle malattie dell’anima è poi trattata in analogia con la cura delle malattie del corpo; infatti, subito si legge nel proemio la seguente affermazione: «La cura dell’anima, che è molto più importante e più difficile della cura del corpo, esige una sollecitudine e un’abilità ancora maggiori». Nel capitolo secondo (intitolato De suavitate et efficacia in gubernatione coniungendis), prima di dare inizio a una ben nutrita serie di malattie — ne sono elencate addirittura sedici — l’autore si diffonde sull’importanza di comporre nel governo mitezza e fermezza: fortiter in re, suaviter in modo direbbe un gesuita ispirandosi alle Costituzioni (ix, 727).
Parlando nel 2014 di un «catalogo delle malattie», il Papa disse esplicitamente di volersi rifare all’«esempio dei Padri del deserto». Classici in materia sono Evagrio Pontico (345-399) e Giovanni Cassiano (360 circa - 435). Il primo nel suo Trattato pratico e il secondo nelle sue Istituzioni cenobitiche ne elencano otto: ingordigia, fornicazione, avarizia, collera, tristezza, acedia, vanagloria e superbia. Si dirà, in ogni caso, che per la gran parte degli autori ascetici questi elenchi erano fatti risalire a due “passioni madri” che sono l’ingordigia, intesa come radicale avidità concernente le facoltà irrazionali (thymós ed epithymía), e la superbia, che s’attacca alla parte razionale (noús). Ma già Cicerone, nel De finibus bonorum et malorum (i, 59), aveva iniziato così il suo catalogo: animi autem morbi sunt cupiditates inmensae et inanes (“malattie dell’animo sono le cupidigie smisurate e vane”).
Alla radice di tutto e causa di ogni male vi è l’amore di sé, che i padri chiamano philautía. Noi potremmo anche renderlo con “narcisismo”. San Massimo il Confessore la indica come la somma di tutte le passioni e descrive analiticamente il processo che avendola come principio prende le mosse dall’ingordigia e si conclude nella superbia (cfr. Centurie sulla carità 3, 56-57). È il medesimo processo cui fece riferimento anche Francesco nell’omelia tenuta a Santa Marta il 26 settembre scorso, quando indicò nella cupidigia, nella vanità e nella superbia la radice di tutte le malattie spirituali: alla radice però c’è la «vanità» descritta come «osteoporosi dell’anima».
L’analogia fra le malattie del corpo e della psiche e le malattie dell’anima, o spirituali, in rapporto alla responsabilità di chi presiede la comunità è poi un classico nelle regole monastiche. Nelle Regole diffuse (30), ad esempio, san Basilio osserva che colui che presiede deve essere convinto «che aver cura di molti significa servire molti. E come dunque chi presta le proprie cure a molti feriti e raschia via l’infezione da ogni piaga usando i rimedi adatti al tipo di malattia che incontra, non trova in questo una occasione di vanto ma piuttosto di umiltà, di lotta e combattimento, così a maggior ragione colui al quale è stato affidato il compito di guarire le infermità della comunità».
Similmente scrive san Benedetto nel capitolo xxvii della sua Regola: «Con ogni premurosa diligenza l’abate deve curarsi dei fratelli colpevoli, perché non hanno bisogno del medico i sani ma gli infermi. Deve perciò comportarsi del tutto come un sapiente medico». La figura del sapiens medicus era cara a san Benedetto, che v’insiste anche nel capitolo successivo nel caso che il colpevole non si corregga, o monti in superbia: «L’abate faccia come un esperto medico: se ha usato i lenitivi, se gli unguenti delle esortazioni, se i medicamenti delle divine scritture, se infine la bruciatura della scomunica o quella delle piaghe della verga, e vede che a nulla approdano le sue industrie, adoperi anche, ciò che ancor vale di più, preghiera propria e di tutti i monaci per lui, perché il Signore che tutto può operi la salute del fratello infermo. Ma se neppure in tal modo quello guarirà, allora l’abate si serva ormai del ferro dell’amputazione».
Anche Giovanni Climaco nel suo Sermone al pastore paragona l’igumeno al medico e perciò gli prescrive di avere «impiastri, polveri disseccanti, colliri, pozioni, spugne, rimedi contro la nausea, lancette da salasso, cauteri, unguenti, sonniferi, bisturi, bende». E subito dopo (cfr. 11-13) spiega per quali malattie dell’anima tutto ciò deve servire. 
Insomma, ce n’è abbastanza per inserire nell’alveo di una solida tradizione ascetica che affonda le sue radici nei monaci del deserto quell’immagine della Chiesa come ospedale da campo di cui Francesco parlò nella notissima intervista rilasciata nell’estate del 2013: «Io vedo con chiarezza che la cosa di cui la Chiesa ha più bisogno oggi è la capacità di curare le ferite e di riscaldare il cuore dei fedeli, la vicinanza, la prossimità. Io vedo la Chiesa come un ospedale da campo dopo una battaglia. È inutile chiedere a un ferito grave se ha il colesterolo e gli zuccheri alti! Si devono curare le sue ferite. Poi potremo parlare di tutto il resto. Curare le ferite, curare le ferite... E bisogna cominciare dal basso».
In tema, però, di “riforma terapeutica” in rapporto alla curia romana l’antecedente più calzante è quello di san Giovanni Leonardi (1541-1609), grande figura di riformatore la cui opera risulta essere per alcuni versi affine a quella di Papa France sco. Si tratta del «memoriale» da lui scritto a Papa Paolo v per la riforma generale della Chiesa, conservato nell’archivio dell’ordine dei chierici regolari della Madre di Dio da lui fondato. Dopo avere sottolineato che quanti vogliono impegnarsi alla riforma dei costumi degli uomini debbono loro stessi essere «specchi di ogni virtù e come lucerne poste sul candelabro», scrive: «Chi vuole operare una seria riforma religiosa e morale deve fare anzitutto, come un buon medico, un’attenta diagnosi dei mali che travagliano la Chiesa per poter così essere in grado di prescrivere a ciascuno di essi il rimedio più appropriato». È un testo, questo, che è stato citato pure da Benedetto xvi nella sua catechesi del 7 ottobre 2009. 
Bisogna ricordare che prima di essere ammesso agli ordini sacri nel suo paese di origine Giovanni Leonardi era stato farmacista. Francesco, come si sa ha compiuto gli studi da perito chimico, ma non è probabilmente per questo che oggi egli parla di medicine e di ospedali da campo. Ritengo che la ragione sia da ritrovarsi piuttosto nel carisma ignaziano. In una meditazione dettata ai gesuiti Bergoglio (Meditaciones para religiosos, Buenos Aires, Ediciones Diego de Torres, 1982, pagine 123) riferiva loro quanto il padre Pedro de Ribadeneyra aveva annotato circa il «modo di governare di sant’Ignazio» spiegando come per colui che tratta con il prossimo sia molto necessario averne cura alla maniera di un buon medico, e che non si spaventi delle sue infermità, né provi ripugnanza delle sue piaghe, e che soffra con pazienza e con mansuetudine le sue debolezze e inadeguatezze, e per questa ragione lo guardi non come un figlio di Adamo o come un vaso fragile di vetro o di argilla, ma come una immagine di Dio, acquistato col sangue di Gesù Cristo. Secondo il modello ignaziano, dunque, vero ministro di Dio è el que trata con los prójimos para curarlos, “colui che tratta con il prossimo per curarlo”.
L'Osservatore Romano