sabato 18 febbraio 2017

VII Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) — 19 febbraio 2017. Ambientale e commento al Vangelo.

Gesù parla ai discepoli

Cristo, che è il nuovo Adamo, 
proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore 
svela anche pienamente l’uomo all’uomo 
e gli fa nota la sua altissima vocazione.

Gaudium et spes, n. 22


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Nella settima Domenica del Tempo ordinario, la liturgia ci propone il Vangelo in cui Gesù dice ai suoi discepoli: 
“Se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu pórgigli anche l’altra … Amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano (…) Infatti, se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste”.
“Io vi dico: non opponetevi al malvagio, ma se qualcuno ti colpisce sulla guancia destra porgigli anche l’altra…amate i vostri nemici, pregate per coloro che vi perseguitano”. “Com’è possibile che Gesù faccia affermazioni così scomode, anzi, esagerate? Io non sono Gesù Cristo…” potremmo dire. “Ma se facciamo tutti così allora il male dilaga…” aggiungeremmo. “In realtà questa parola va adattata ai tempi odierni” spiegherebbe, forse, il buon senso umano. Ecco alcune reazioni tipiche di chi tenta di addomesticare la parola di Dio, annullandola di fatto, e giudicando le Scritture, il Signore e la Chiesa che la proclama fedelmente. Lasciamoci, piuttosto, interrogare in profondità da ciò che costituisce il cuore del Kerigma. Può darsi che questo Vangelo metta in luce come la nostra identità cristiana sia fragile a causa di una formazione insufficiente, forse non abbiamo ancora la statura adulta della fede. Se così fosse, non perdiamoci d’animo! Al contrario, è una grazia rendersene conto, scoprire i propri peccati e sentirsi comunque incoraggiati da Dio ad intraprendere un cammino graduale di salvezza. Chiediamo a Maria che ci indichi, nella Chiesa, una via, un carisma, un movimento nel quale la nostra fede possa crescere fino a giungere alla pienezza. Da sempre i cristiani sono detti “coloro che camminano” verso la Pasqua. (Sanfilippo)

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“Un amore che si fa peccato perché l’altro si salvi”

Con il brano di questa domenica entriamo nel cuore del Discorso della Montagna, il cuore di Dio. Qui il Padre ci ha pensato con struggente tenerezza, chiamandoci all’esistenza in un battito d’amore. Ogni fibra del nostro spirito e ciascun millimetro della nostra carne è stato creato in questa Parola: l’amore è in ogni nostra cellula, nelle pupille come nei polpastrelli, nei muscoli come nel cervello.
Quel giorno sulla splendida erta del Monte Korazim, di fronte al Mare di Galilea, Gesù dava voce al Mistero nel quale siamo stati creati. Un prodigio di “perfezione”, un ingranaggio fatto di carne e spirito plasmato per schiudere in terra una finestra sul Cielo.
Sappiamo come poi sia andata, l’invidia del demonio e il peccato che ci ha graffiato il cuore. Per questo Gesù era salito su quel Monte, per annunciare a tutti il perdono di ogni peccato e la speranza di vivere amando. Quelle parole venivano dall’eternità e planavano finalmente in terra, nella storia degli uomini che non le avevano mai viste compiute. 
Con esse Gesù annuncia che Dio ama ciascuno esattamente come è: il Discorso della montagna, infatti, è storia e cronaca diretta dell’amore fatto carne in Gesù per ciascuno di noi. Racconta come Egli ci ami istante dopo istante descrivendo l’attitudine paziente e misericordiosa con cui ha sempre risposto ad ogni nostro peccato. E profetizza l’uomo nuovo ricreato in Lui, tu ed io liberi per amare come siamo amati.
Quante volte Gesù ci ha offerto “l’altra guancia” mentre lo schiaffeggiavamo sulla destra, sfidandolo a duello. Per dare uno schiaffo sulla guancia destra, infatti, occorre darlo di manrovescio, nel gesto proprio della sfida a duello. Magari è stato ieri, quando, incapaci di accettare la stanchezza della moglie o l’ira del marito, abbiamo sbattuto la porta e urlato più forte, chiudendo il cuore per ottenere giustizia. 
Era Gesù che sfidavamo per lavare nel sangue il tradimento che crediamo ci abbia fatto non compiendo la nostra volontà di cambiare l’altro. E Lui ha offerto l’altra guancia a parare il colpo, salvando ancora una volta il matrimonio…  
Quante volte si è lasciato “citare in giudizio” dalle nostre mormorazioni che lo hanno condannato a non contare nulla nelle decisioni. E Lui lì zitto, come un agnello di fronte ai suoi tosatori, a lasciarsi condannare perché noi fossimo assolti.
Quante “tuniche” e quanti “mantelli” gli abbiamo chiesto e mai restituito, gli unici beni inalienabili dei poveri, secondo la legge dell’Antico Testamento, e per questo segni della stessa vita. E giudicare un fratello come spessissimo facciamo con una superficialità disarmante, è togliergli la vita, così come la calunnia o il parlar male e lo spettegolare. E Gesù, eccolo lasciarsi spogliare di tutto e morire nudo sulla Croce, dalla quale ha abbracciato calunniatori e calunniati per riconciliarli nel mantello della sua misericordia.
Quante volte Gesù ha accettato l’ingiustizia di “percorrere un miglio in più”, qualcosa di proibito secondo la Legge che stabiliva in meno di un miglio il limite massimo del lavoro permesso; uno sforzo sovrumano, destinato alla morte. E sulla via del Calvario quante miglia ha percorso al posto nostro, pigri nello zelo e nel compiere la volontà di Dio. 
Ogni volta che siamo scappati imboscandoci, schivando le responsabilità di coniugi, genitori, pastori, Lui era lì a fare quel tratto di strada che toccava a noi, sino a morire per proteggerci da una pena che avremmo meritato. Per questo oggi ci è concesso di ascoltare ancora la sua Parola, mentre dovremmo essere rinchiusi in qualche prigione…
E’ Lui che anche oggi ci “dona tutto quel chiediamo”, senza sperarne nulla, sapendo di aver gettato la sua vita in mano a degli “ingrati” che usano della religione per aggiustarsi la vita. 
Così, istante dopo istante, ci ama Dio, innanzi tutto lasciandoci liberi, perfino di diventare suoi nemici. L’amore, infatti, è prima di tutto libertà. Ma quella vera, che rischia tutto, anche di perdere l’amato. Per questo l’amore è anche dolore, chiodi e aceto e Croce, altro che sentimento… Se lasci davvero libera la persona amata sai che potrebbe tradirti, abbandonarti, rivolgersi contro di te.
E allora l’amore non potrà che essere quello che appare nelle parole di Gesù. Un amore che si fa peccato perché l’altro si salvi; l’amore crocifisso che prende su di sé il male dell’amato divenuto nemico perché desidera solo il suo bene. 
Le anime belle diranno che non hanno nemici, ingannandosi. L’eros dei “pagani”, infatti, è passione, sentimento che si esaurisce nel perimetro del contraccambio; evapora quando l’altro non corrisponde all’affetto profuso, secondo quanto ci si aspetta. Si spegne dinanzi al nemico  perché il massimo che un uomo può fare è “occhio per occhio e dente per dente”, ovvero amore per amore e odio per odio. 
Ne facciamo esperienza tutti. Creati nell’amore e rinati nel battesimo, dobbiamo convenire che il seme ricevuto nel fonte ha prodotto un bonsai e non un albero pieno di frutti. Amore? Zero, o quasi… “Salutiamo solo i fratelli”, perché in tutto, anche negli slanci più generosi, speriamo il contraccambio, e quando non arriva… Siamo ancora “come i pagani”, rinchiusi in una vita grigia e monotona, che però finisce per scontrarsi con l’imprevedibilità del cuore. 
Abbiamo bisogno di rinascere dall’alto, di rientrare nel seno della Chiesa ed essere gestati perché il seme dell’amore giunga a “perfezione. L’amore dei “perfetti”, come erano chiamati i cristiani nella Chiesa primitiva, supera la carne e la routine; è, appunto, la “perfezione”, che significa, innanzi tutto, non mancare di nulla. E’ l’amore di ogni pecora perduta e ritrovata e issata sulle spalle del Buon Pastore che nulla fa mancare al suo gregge. 
Nella Chiesa possiamo giungere alla statura “perfetta”, per vivere senza difendere nulla, sperimentando ogni giorno che la vita ricevuta è eterna, non può finire. Anche se strappata non si esaurisce e può donarla al nemico.
Ma chi è il nemico? Ne abbiamo una lista infinita… La moglie, il marito, i figli, sì proprio i figli, e poi i colleghi, i condomìni, i parenti, gli amici, che diventano i nostri nemici. Non si tratta dei nemici delle istituzioni, tanto di moda, o dei confini del nostro Paese. Gesù parla di chi cerca di invadere i nostri territori, il posto dello spazzolino, il programma alla televisione, la decisione di comprare le scarpe, sino a quelli più intimi, come le relazioni sessuali e i tempi di ciascuno, gelosamente custoditi e troppo spesso usati per ricattare e vendicarsi.
Quando l’altro parte alla conquista delle nostre idee, dei nostri schemi, delle nostre certezze, delle decisioni, del tempo, del denaro, dei nostri diritti diventa un nemico acerrimo. Non possiamo amarlo ed essere felici e pienamente realizzati se non siamo profondamente uniti a Cristo, nella concretezza spesso acida e inospitale: “Sono stato crocifisso con Cristo, e non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me” (Gal. 2,20).
Questa è la perfezione dell’amore, perché si compia in noi lo “straordinario” per il quale siamo nati: amare il prossimo straordinariamente, oltre i confini dei pagani: l’amore all’altro sino alla fine, dove termina la sua dolcezza, la sua simpatia, la sua bellezza e iniziano i difetti, l’insopportabilità, i peccati. 
Siamo la carne dove si compie il “ma ora io vi dico” di Gesù. La nostra vita è la novità che infonde speranza al mondo. E’ L’amore che “prega per i persecutori” perché si offre senza sperare nulla; l’amore che fa gli straordinari non pagati secondo la giustizia umana ma secondo quella celeste, una “ricompensa” di gioia e pace che il mondo non conosce. L’amore che, “come pioggia”, scende sull’altro, sia come sia, che “sorge come sole” di giustizia ogni giorno.

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Lectio divina delle Letture della VII Domenica del Tempo Ordinario – Anno A – 19 febbraio 2017


VII Domenica del Tempo Ordinario – Anno A – 19 febbraio 2017
Penultima Domenica dopo l’Epifania detta “della divina clemenza”
di Francesco Follo
1) Perfezione è accogliere l’amore.
Nelle letture della Messa di questa domenica ci sono due  frasi che mi hanno colpito particolarmente: “Siate santi, perché io, il Signore vostro Dio, sono santo (Lv 19, 2 – I lettura) e Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt 5, 48 – Vangelo), e che fanno nascere la seguenti domande: “In cosa consiste allora la santità alla quale Dio nel libro del Levitico ci spinge e la perfezione a cui ci invita Gesù? Chi può diventare perfetto come Dio Padre?”
La frase di Cristo riportata da San Luce “Siate misericordiosi come il Padre vostro” (Lc 6, 36) ci può aiutare nella risposta. Unendo questa frase a quella riportata da San Matteo: Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt 5, 48), possiamo, in primo luogo, dire che la perfezione di Dio è la sua misericordia. Allora anche l’uomo può essere perfetto se vive la misericordia. “La bontà e la perfezione si radicano sulla misericordia” (Papa Francesco). Dunque con il Papa possiamo affermare che la perfezione dell’uomo è la conquista della misericordia, e la misericordia è la sintesi della lieta, buona notizia portata del Redentore.
In secondo luogo, possiamo dire che la nostra perfezione è vivere con umiltà come figli di Dio compiendo concretamente la sua volontà che ci da indicazioni chiare: i comandamenti, per essere come Lui. San Cipriano scriveva che “alla paternità di Dio deve corrispondere un comportamento da figli di Dio, perché Dio sia glorificato e lodato dalla buona condotta dell’uomo” (De zelo et livore, 15: CCL 3a, 83).
In terzo luogo, va ricordato che Cristo non ci chiede la perfezione nell’osservanza dei codici legali e dei regolamenti. Ci vuole perfetti, certo, ma nell’amore.
Mi spiego prendendo un episodio della vita di Santa Teresa del Bambin Gesù. In un momento della sua vita, questa santa Suora si domandò come in paradiso tutti potremo essere felici pienamente, perfettamente, avendo raggiunto ognuno gradi differenti di santità. A un certo punto, la piccola Teresa ebbe questa illuminazione: “Immaginiamo che il Paradiso sia come un meraviglioso campo pieno di fiori di tutte le specie, dai più grandi ai più piccoli, dalle rose alle margherite, dai gigli ai ciclamini. La rugiada del mattino riempie i vari fiori secondo la loro grandezza. Nessuno di essi è più pieno degli altri. Ognuno è colmo, perfetto di amore e di gioia e non ha, quindi, gelosia di chi è più grande”.
Noi non possiamo essere santi come lo sono, per esempio, santa Teresa del Bambin Gesù o san Benedetto o San Francesco o P. Pio da Pietrelcina o Madre Teresa di Calcutta . Certamente saremo molto meno, ma non è questo che conta. Conta il fatto che lasciamo colmare il nostro cuore – piccolo come una margherita o grande come un giglio- dall’amore di Dio.
Insomma essere perfetti nella santità vuol dire credere all’Amore, dilatando il nostro cuore perché accolga Dio.
Apriamoci all’amore di Dio. In ultima analisi la santità, anche se è una nostra risposta a Dio, è dono di Dio. A noi tocca aprirci a Lui nella fede e accogliere il suo amore.
2) La santità delle beatitudini.
Qualcuno potrebbe obiettare che questa santità come accoglienza dell’Amore è troppo facile. Non è più facile di quella che acquistò santa Maria Maddalena, la peccatrice pubblica. Questa donna si gettò ai piedi del Cristo e quando si alzò ottenne il suo elogio: “Le sono perdonati i suoi molti peccati, poiché ha molto amato” (Lc 7, 47). Perché “ha molto amato”? Che cosa aveva fatto? Aveva creduto all’Amore, non ha fatto  altro. Tutto il suo peccato non l’aveva arrestata nel suo amore, che l’aveva gettata ai piedi del Cristo. Aveva creduto e si era abbandonata, si era aperta a ricevere il dono dell’amore divino, che l’ha colmata.
La storia di ogni cristiano è quella di un amore ogni volta colmato, e allo stesso tempo aperto su nuovi orizzonti, perché Dio dilata continuamente le possibilità dell’anima, per renderla capace di beni sempre maggiori. Dio stesso, che ha deposto in noi i germi di bene, e dal quale parte ogni iniziativa di santità, “modella il blocco… Limando e pulendo il nostro spirito, forma in noi il Cristo” (San Gregorio di Nissa, In Psalmos 2,11: PG 44,544B).
Questo amore è messo in pratica di chi vive le Beatitudini. E’, infatti, significativo che San Matteo riporti l’espressione di Gesù “siate perfetti com’è perfetto il Padre vostro che è nei cieli” a conclusione del Discorso della Montagna, in cui Gesù proclama le Beatitudini e promulga il codice della nuova legge dell’amore.
Non a caso Gesù dice ai suoi discepoli che sono sale della terra e luce del mondo, dopo aver enunciato le Beatitudini. Senza lo spirito e la pratica delle Beatitudini non si può essere sale e luce, di cui il mondo avvolto dalle tenebre del nuovo paganesimo ha tanto bisogno.
In una società dominata dall’odio e dalla violenza e lacerata da divisioni e contrapposizioni, annunciare l’amore eroico ai nemici e la preghiera per i persecutori significa attuare la vera rivoluzione, di cui ha sempre bisogno la società di ogni tempo e di ogni luogo la rivoluzione dell’amore, che ha la sua fonte e il suo modello nell’amore infinito e umile del Padre Celeste.
E’ chiara l’indicazione del Redentore: per imitare il Padre Celeste bisogna vivere nello spirito delle beatitudini evangeliche e aprirsi totalmente all’amore del Padre, “che fa sorgere il Suo sole sopra i malvagi e i buoni e fa piovere sopra i giusti e gli ingiusti” (Mt 5, 45). In effetti, come potremmo affermare di voler imitare il Padre che tutto ama, dona e perdona, se rimanessimo così chiusi nel guscio del nostro egoismo, schiavi dei beni effimeri del mondo, con il cuore sbarrato davanti al bisogno e alla sofferenza del fratello?
L’invito ad essere perfetti come il Padre non è una richiesta di scalare la cima di un’alta montagna. Non ci è chiesto di essere forti ed esperti scalatori dello Spirito, come sono stati i santi già canonizzati dalla Chiesa. La perfezione di Dio è la meta di tutti i discepoli di Gesù, per tutti i cristiani che vogliono portare molto frutto e dare così gloria al Padre Celeste (Gv 15, 8).
La grandezza o perfezione divina è a misura d’uomo, perché è la grandezza dell’umiltà. “Dio, umile, si abbassa: viene da noi e si abbassa” (Papa Francesco). Dal cielo alla terra. Il Figlio di Dio si abbassa nella Grotta di Betlemme e in Croce di Gerusalemme, passando attraverso l’inginocchiarsi davanti agli apostoli per lavare loro i piedi. L’umiltà di Cristo, Figlio diDio è un’offerta inginocchiata dell’Amore. E’ un’umiltà la cui fonte e centro sono il cuore divino. Come già insegnava San Tommaso d’Aquino, che scrisse cose profonde sull’umiltà di Dio, “Dio è davvero la fonte, il centro e il cuore dell’umiltà. In Lui non c’è egoismo. Lui è tutto slancio verso l’Altro: del Padre verso il Figlio e del Figlio verso il Padre nell’unità dello Spirito Santo” (P. Maurice Zundel). Questo donarsi reciproco si comunica a noi e fa di noi dei “perfetti” se umilmente doniamo a Lui non solo quello che abbiamo, ma quello che siamo. Dio si abbassa sulla nostra fragilità e la salva con la sua tenerezza.
Se fossimo davvero persuasi che Dio “crede” in noi, noi crederemmo in Lui. Se fossimo coscienti di essere amati da Lui in modo tenero e senza limiti, risponderemmo al Suo amore e faremmo di tutta la nostra vita un dono totale a Lui nell’umiltà, nella pace, nella verità, nella gioia.
Un modo significativo di questa risposta totale a Dio, offrendosi a Lui, è quello delle Vergini consacrate nel mondo. Con il rito della consacrazione e poi, con la vita quotidiana vissuta teneramente e umilmente in Lui, queste donne testimoniano che il fatto di appartenere a Dio non limita la libertà. Una vita vissuta nel dialogo di amore con Lui è una vita nella libertà, che la verità dell’Amore rende effettiva. La concupiscenza della carne e degli occhi e la superbia della vita sono trasformate in purezza di cuore e di sguardo a Cristo che – sulla croce – tiene per sempre aperte le sue braccia con tenerezza e umiltà. Queste donne consacrate testimoniano che la vita consacrata è vita di perfezione e segno per tutti i cristiani come insegna il Card. Newman insegna: “E’ opinione di molti santi che, se noi vogliamo essere perfetti, non dobbiamo fare altro che adempire i nostri doveri quotidiani. Ecco una via breve che porta alla perfezione; breve, non perché sia facile, ma perché tutti la possono seguire…
Sull’essenza della perfezione è facile avere idee vaghe, idee che ci possono aiutare a parlarne, quando non abbiamo alcuna intenzione di tendervi risolutamente. Ma quando si desidera realmente la perfezione, e si cerca di raggiungerla, allora solo ciò che è chiaro e si tocca con mano può dare risultati soddisfacenti, giacché offre una specie di direzione pratica, che è una via per arrivarci. …
E’ perfetto chi fa in modo giusto le sue azioni giornaliere; per raggiungere la perfezione non abbiamo bisogno di oltrepassare questi limiti.
Se tu mi domandi che cosa devi fare per essere perfetto, io ti risponderò così: non rimanere a letto dopo l’ora fissata per la levata; rivolgi i tuoi primi pensieri a Dio; fa’ una breve visita a Gesù sacramentato; recita bene la corona; sii raccolto; caccia i cattivi pensieri; fa’ con devozione a meditazione della sera; esamina ogni giorno la tua coscienza. Fa’ questo e sarai perfetto” (Card. John-Henri Newman). Gesti semplici che fanno si che la nostra “preghiera sia l’effusione del nostro cuore in quello di Dio” (San Pio da Pietrelcina) e le nostra azioni, piccole o grandi che siano, ne manifestino la misericordia verso tutti.
Lettura Patristica
Salviano di Marsiglia
De gubernatione, 3, 5-6
Forse qualcuno obietta che oggi non è più il tempo in cui ci sia dato di sopportare per Cristo ciò che gli apostoli sopportarono ai loro giorni. È vero: non vi sono imperatori pagani, non vi sono tiranni persecutori; non si versa il sangue dei santi, la fede non è messa alla prova con i supplizi. Dio è contenta che gli serviamo in questa nostra pace, che gli piacciamo con la sola purità immacolata delle azioni e la santità intemerata della vita. Ma per questo gli è dovuta più fede e devozione, perché esige da noi meno, pur avendoci elargito di più. Gli imperatori, dunque, sono cristiani, non c’è persecuzione alcuna, la religione non viene turbata, noi non veniamo costretti a dar prova della fede con un esame rigoroso: perciò dobbiamo piacere di più a Dio almeno con gli impegni minori. Dimostra infatti di essere pronto a imprese maggiori, se le cose lo esigeranno, colui che sa adempire i doveri minori.
Omettiamo dunque ciò che sostenne il beatissimo Paolo, ciò che, come leggiamo nei libri di religione scritti in seguito, tutti i cristiani sostennero, ascendendo così alla porta della reggia celeste per i gradini delle loro pene, servendosi dei cavalletti di supplizio e dei roghi come di scale. Vediamo se almeno in quegli ossequi di religiosa devozione che sono minori e comuni e che tutti i cristiani possono compiere nella pace più stabile ed in ogni tempo, ci sforziamo realmente di rispondere ai precetti del Signore. Cristo ci proibisce di litigare. Ma chi obbedisce a questo comando? E non è un semplice comando, giungendo al punto di imporci di abbandonare ciò che è lo stesso argomento della lite pur di rinunciare alla lite stessa: “Se qualcuno” – dice infatti -“vorrà citarti in giudizio per toglierti la tunica, lasciagli anche il mantello” (Mt 5,40). Ma io mi chiedo chi siano coloro che cedano agli avversari che li spogliano, anzi, chi siano coloro che non si oppongano agli avversari che li spogliano? Siamo tanto lontani dal lasciare loro la tunica e il resto, che se appena lo possiamo, cerchiamo noi di togliere la tunica e il mantello all’avversario. E obbediamo con tanta devozione ai comandi del Signore, che non ci basta di non cedere ai nostri avversari neppure il minimo dei nostri indumenti, che anzi, se appena ci è possibile e le cose lo permettono, strappiamo loro tutto! A questo comando ne va unito un altro in tutto simile: disse infatti il Signore: “Se qualcuno ti percuoterà la guancia destra, tu offrigli anche l’altra” (Mt 5,39). Quanti pensiamo che siano coloro che porgano almeno un poco le orecchie a questo precetto o che, se pur mostrano di eseguirlo, lo facciano di cuore? E chi vi è mai che se ha ricevuto una percossa non ne voglia rendere molte? È tanto lontano dall’offrire a chi lo percuote l’altra mascella, che crede di vincere non solo percuotendo l’avversario, ma addirittura uccidendolo.

Ciò che volete che gli uomini tacciano a voi” – dice il Salvatore – fatelo anche voi a loro, allo stesso modo” (Mt 7,12). Noi conosciamo tanto bene la prima parte di questa sentenza che mai la tralasciamo; la seconda, la omettiamo sempre, come se non la conoscessimo affatto. Sappiamo infatti benissimo ciò che vogliamo che gli altri ci facciano, ma non sappiamo ciò che noi dobbiamo fare agli altri. E davvero non lo sapessimo! Sarebbe minore la colpa dovuta ad ignoranza, secondo il detto: “Chi non conosce la volontà del suo padrone sarà punito poco. Ma chi la conosce e non la eseguisce, sarà punito assai” (Lc 12,47). Ora la nostra colpa è maggiore per il fatto che amiamo la prima parte di questa sacra sentenza per la nostra utilità e il nostro comodo; la seconda parte la omettiamo per ingiuria a Dio. E questa parola di Dio viene inoltre rinforzata e rincarata dall’apostolo Paolo, il quale, nella sua predicazione, dice infatti: “Nessuno cerchi ciò che è suo, ma ciò che è degli altri” (1Co 10,24); e ancora: “I singoli pensino non a ciò che è loro, ma a ciò che è degli altri” (Ph 2,4). Vedi con quanta fedeltà abbia egli eseguito il precetto di Cristo: il Salvatore ci ha comandato di pensare a noi come pensiamo agli altri, egli invece ci comanda di badare più ai comodi altrui che ai nostri. È il buon servo di un buon Signore e un magnifico imitatore di un Maestro unico: camminando sulle sue vestigia ne rese, quasi, più chiare e, scolpite le orme. Ma noi cristiani facciamo ciò che ci comanda Cristo o ciò che ci comanda l’Apostolo? Né l’uno né l’altro, credo. Siamo tanto lungi tutti noi da offrire agli altri qualcosa con nostro incomodo, che badiamo sommamente ai nostri comodi, scomodando gli altri.