venerdì 31 marzo 2017

Preghiera del cuore e conversione di un peccatore

Il libro dei Salmi

Uniti per un mondo in frantumi



(Karl-Hinrich Manzke«Cristiani uniti per un mondo in frantumi»: questo il tema del dies academicus della Pontificia università Gregoriana. A svolgere le lectio magistralis, sono stati il cardinale presidente del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, Kurt Koch (del cui testo abbiamo ripreso stralci nell’edizione del 16 marzo) e il vescovo evangelico-luterano di Schaumburg-Lippe nonché incaricato per gli affari ecumenici delle Chiese luterane di Germania. Del suo intervento pubblichiamo ampi passaggi.

Il cardinale Karl Lehmann, uno dei maggiori studiosi di ecumenismo cattolici, in Germania, alunno della Gregoriana, una volta ha detto: «Con l’unità non si va avanti così rapidamente, come si era sperato dopo il concilio Vaticano II. La prima generazione ecumenica, cui io appartengo, avrà un destino simile a quello di Mosè sul monte Nebo: vediamo la terra promessa, ma non vi giungeremo». Di fatto, l’unità dei cristiani non ci è ancora data, ma, in lontananza, si scorgono profili chiaramente delineati, che 60 anni fa non si sarebbe assolutamente pensato di poter intravvedere. Per il nostro cammino ecumenico, abbiamo bisogno di fiato lungo. Ma, al tempo stesso, non dobbiamo dimenticare quel che si è verificato dopo il concilio Vaticano II, che toglie però il fiato. 
Qui va citato, anzitutto, il ragguardevole avvicinamento tra la cristianità ortodossa e quella cattolica. L’incontro tra Papa Paolo VI e il patriarca ecumenico Atenagora, avvenuto a Gerusalemme nel 1964, è indimenticabile. La loro dichiarazione congiunta orientò il cammino: le sentenze di scomunica del 1054 «di cui ci si rammarica che il loro ricordo ostacoli, fino ad oggi, l’avvicinamento nell’amore; esse sono tolte dalla memoria e dal mezzo della Chiesa, votandole all’oblio». Da allora in poi, questo «dialogo dell’amore» ha elaborato intensamente gli ostacoli che impedivano il ripristino della piena comunione. Anche se continuano a sussistere questioni irrisolte — papato, proselitismo — in questo dialogo, molto importante per la Chiesa cattolica, la meta è già ben visibile. L’incontro tra Papa Francesco e il patriarca di Mosca Cirillo, a Cuba, ha costituito un passo ulteriore, decisivo, su questo cammino, che non definirei verso la terra promessa, ma che è comunque verso la comunione piena e visibile.
Anche le relazioni anglicano-luterane sono prova ulteriore che le Chiese della Riforma luterana hanno seguito l’appello di Gesù all’unità e che hanno superato le divisioni. Le Chiese anglicane delle isole britanniche e le Chiese luterane di Scandinavia sono oggi riunite in una comunione, come anche le Chiese luterane e anglicane del Nordamerica. In tutti questi casi, la comunione raggiunta include anche il riconoscimento reciproco del ministero episcopale storico.
Con ciò arrivo a trattare di luterani e cattolici. Anche il nostro rapporto si è trasformato, in modo fondamentale e irreversibile. Il dialogo internazionale tra la Federazione luterana mondiale (Flm) e il Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani ha elaborato, negli ultimi 50 anni, una molteplicità di questioni, oggetto di controversie teologiche, che nel Cinquecento portarono alla divisione della nostra Chiesa. Con il successo e la capacità di orientare il cammino si è dimostrato il metodo del «consenso differenziato», che «vuol dire: che il consenso raggiunto ha, in qualche modo, “due” livelli o, per meglio dire, comprende due affermazioni. Nella prima, dice e mostra che in ciò che è necessario al consenso, su una questione finora controversa, è stato raggiunto consenso; nella seconda affermazione, dice e mostra che le differenze restano, ma non mettono in discussione il consenso raggiunto e perciò sono accettabili, addirittura opportune». Tale metodo consente, dunque, di enunciare ciò che è comune, senza tacere le differenze che continuano a sussistere. Il dialogo bilaterale, servendosi di tale approccio, ha potuto presentare avvicinamenti d’avanguardia, riguardanti campi teologici importanti come quello della concezione dell’eucaristia o la questione del ministero. Purtroppo, tali conoscenze ecumeniche non si sono potute tradurre in accordi vincolanti tra le nostre due Chiese; con un’eccezione storica: la Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione, firmata ad Augusta, il 31 ottobre 1999 dalla Flm e dal Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani. Proprio riguardo la dottrina che, nel Cinquecento, costituì la causa centrale della divisione della Chiesa d’occidente, che è il punto d’ancoraggio centrale della teologia luterana, oggi non esistono più differenze, tra le nostre Chiese, in grado di dividerle. 
Di recente, Papa Francesco ha reso onore a questo dato di fatto, dicendo: «Con il concetto di “solo per grazia divina”, ci viene ricordato che Dio ha sempre l’iniziativa e che precede qualsiasi risposta umana, nel momento stesso in cui cerca di suscitare tale risposta. La dottrina della giustificazione, quindi, esprime l’essenza dell’esistenza umana di fronte a Dio». Ma la Dichiarazione congiunta ha portato, in molte parti del mondo, a cambiamenti notevoli nelle relazioni bilaterali, non solo sul piano teologico, ma anche nell’atmosfera. È impressionante, per esempio, quanto riferito da Ismael Noko, ex segretario generale della Flm, che proviene da una Chiesa africana: nella sua patria, lo Zimbabwe, in conseguenza della Dichiarazione congiunta, nel cimitero sono state abbattute le recinzioni tra il settore cattolico e quello evangelico, che separavano le persone anche nella morte. 
Non è possibile inoltre tralasciare la più recente pietra miliare delle relazioni luterano-cattoliche: la commemorazione congiunta della Riforma luterana, il 31 ottobre 2016. Chi mai avrebbe osato sognare, 100 anni fa o 20 anni fa, che, nel 2016, la Chiesa cattolica romana e la Flm sarebbero state, insieme, le padrone di casa di un culto della Riforma, elaborato insieme. Chi mai avrebbe potuto immaginare che questo culto sarebbe stato condotto insieme dal presidente e dal segretario generale della Flm e dal Papa. Ma proprio questo è diventato possibile, nella festa della Riforma 2016. Il documento intitolato Dal conflitto alla communione ha aperto gli occhi per capire che è possibile una narrazione congiunta della storia della Riforma. La via percorsa dal conflitto alla comunione ha reso perfino possibile che Papa Francesco così pregasse, insieme con la comunità riunita nel duomo di Lund: «O Spirito santo, aiutaci a gioire dei doni veramente cristiani, che sono venuti nella Chiesa per mezzo della Riforma». Che grande gesto. 
La grande manifestazione conclusiva, nell’Arena di Malmö, ha reso evidente che la nostra testimonianza congiunta ci incoraggia e ci impegna anche a un servizio congiunto nel mondo. La cooperazione, già esistente, tra Servizio mondiale della Flm e Caritas Internationalis, che, per esempio, è stata presentata nell’ambito dell’attività con i rifugiati e della difesa del clima, ne è manifestazione impressionante. Martin Junge, Segretario generale della Flm, ha riassunto la situazione in questo giudizio: «In un mondo in cui molti dialoghi vengono interrotti, la commemorazione congiunta della Riforma luterana attesta l’alto valore del dialogo. In un mondo ferito da violenza e guerre, questo narra la storia di conflitti superati. In un mondo incerto sul significato di fede e religione, questo riferisce della forza e bellezza della nostra fede comune, che ci rende capaci di prestare servizio compassionevole e testimonianza lieta».
Questa panoramica mostra che l’unità visibile non è stata ancora raggiunta, ma che ci troviamo sul monte Nebo, grati di quanto già raggiunto e in attesa desiderosa dell’unità che ci si prospetta e a cui Cristo ci chiama. 
Uno sguardo retrospettivo all’origine e agli inizi della Chiesa mostra che i primi cristiani si sentivano legati gli uni agli altri, nel convincimento comune che, nella dottrina e nel destino di Gesù di Nazareth, si fosse verificata l’attenzione di Dio, definitiva e alla fine dei tempi, verso il suo popolo e il suo creato intero. Gli scritti cristiani delle origini rispecchiano il fatto che l’importanza di Gesù per la fede poté essere interpretata in modi molto differenti, anzi, in parte, addirittura controversi. Certo, si riscontrano molteplici sforzi verso la comprensione e la concordia; e Paolo lotta con decisione contro la discordia nelle comunità. Anche la colletta per la comunità, a Gerusalemme, rivela una consapevolezza, attivamente curata, del legame ecumenico. Ma non si può parlare di una standardizzazione. Gli scritti neotestamentari documentano che la Chiesa cristiana conobbe e riconobbe una pluralità di accessi alla comprensione di Gesù, senza volerli rendere omogenei. Lo stesso vale per la nascita di strutture organizzative. Il nuovo testamento conosce una pluralità di differenti forme direttive, che non dovevano essere equiparate le une alle altre o che potevano esserlo solo parzialmente. Tutte queste differenze non mettono in dubbio, evidentemente, il legame elementare in Cristo. Il legame fu tematizzato nelle metafore teologiche dell’unità o nelle narrazioni, che però furono più programmatiche che realtà effettiva.
Fin dalla nascita del movimento ecumenico, nel secolo scorso, si cerca un modello di unità. Ci sono differenti formule e tentativi di descrivere un modello di unità che corrisponda a quanto riscontrato nel nuovo testamento. Un concetto di unità è stato portato alla discussione, nel 1977, dalla Flm. Si tratta del concetto «Unità nella diversità riconciliata». Il modello unità nella diversità riconciliata, spiega un documento della Flm, «deve esprimere che le impronte confessionali della fede cristiana, nella loro diversità, possiedono un valore permanente; che queste differenze, però, se sono riferite insieme al centro del messaggio di salvezza e della fede cristiana, e non mettono in dubbio tale centro, perdono il loro carattere di separazione e possono essere riconciliate le une con le altre». La via dell’unità nella diversità riconciliata è una via di incontro vivo, di esperienza spirituale insieme, di dialogo teologico e di correzione intellettuale, in cui non si perde la singola peculiarità dell’interlocutore, ma si spiega, si trasforma e si rinnova. E così la propria forma diventa, per l’altro, impronta visibile dell’essere cristiani e di una fede cristiana. Le diversità non vengono spente, ma non vengono neanche mantenute immutate. Ma perdono il loro carattere di separazione e vengono riconciliate le une con le altre: nell’incontro, nell’apprendimento.
Dalla prospettiva luterana, per l’unità della Chiesa occorrono tre condizioni essenziali: il consenso sulla concezione del Vangelo; l’uso dei sacramenti, conforme alla loro istituzione; il consenso sulla comprensione ossia sul reciproco riconoscimento del ministero legato all’ordinazione. Se sono presenti queste condizioni, si raggiunge la comunione piena della Chiesa, nel senso dell’unità intesa dal Credo apostolico. In tale prospettiva, non c’è differenza tra comunione e unità. 
Il concilio Vaticano II ha descritto, nell’Unitatis redintegratio, l’atteggiamento con cui, in epoca ecumenica, le Chiese separate lavorano insieme: «Questo santo concilio desidera vivamente che le iniziative dei figli della Chiesa cattolica procedano congiunte con quelle dei fratelli separati, senza che sia posto alcun ostacolo alle vie della Provvidenza e senza che si rechi pregiudizio ai futuri impulsi dello Spirito Santo. Inoltre dichiara d’essere consapevole che questo santo proposito di riconciliare tutti i cristiani nell’unità di una sola e unica Chiesa di Cristo, supera le forze e le doti umane. Perciò ripone tutta la sua speranza nell’orazione di Cristo per la Chiesa, nell’amore del Padre per noi e nella potenza dello Spirito Santo. La speranza non inganna, poiché l'amore di Dio è largamente diffuso nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci fu dato». E Papa Francesco, nella sua esortazione apostolica Evangelii gaudium, spiega che «la Chiesa desidera vivere un profondo rinnovamento missionario»; che «c’è una forma di predicazione che compete a tutti noi come impegno quotidiano». Si tratta «di portare il Vangelo alle persone con cui ciascuno ha a che fare, tanto ai più vicini quanto agli sconosciuti». E ha aggiunto: «Non voglio una Chiesa preoccupata di essere il centro e che finisce rinchiusa in un groviglio di ossessioni e procedimenti».
Le ricerche esegetiche sull’atto della professione di fede, nel cristianesimo delle origini e negli scritti biblici, concordano, di là dai limiti confessionali, sul risultato: al centro di ogni professione di fede e di ogni formazione di essa, c’è la professione di fede in Cristo. Alla fonte, è professione per Gesù Cristo, per il suo messaggio e per la sua persona. Nell’atto del professare la fede si tratta di comunione originaria e personale con Gesù Cristo; non si tratta di un impegno solenne nel vincolarsi a una serie di affermazioni dottrinarie. Nei vangeli, questo carattere personale della professione di fede si esprime nelle parole che risalgono a Gesù stesso: «Chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anche il Figlio dell’uomo riconoscerà lui davanti agli angeli di Dio» (Luca, 12, 8). 
La professione originaria della fede cristiana è quella che Gesù di Nazareth, in quanto Risorto, è il Signore. L’unità della Chiesa non è, in prima linea, unità di dottrina. Riposa, invece, sulla professione di fede comune in Gesù Cristo. La comunanza di tale professione di fede non viene limitata necessariamente da differenze o addirittura da contrapposizioni nella concezione della fede. Tali contrapposizioni possono essere considerate forme espressive, che si integrano e talvolta si correggono l’un l’altra, aventi in definitiva le medesime intenzioni di fede.
Nel discorso ecumenico si tratta di descrivere questo fondamento comune del riferimento personale a Cristo come fondamento sul cui sfondo sono possibili forme espressive e sviluppi differenti nella formazione della dottrina, che però si rifanno a questo. Il movimento ecumenico internazionale del XX secolo è di certo spiegabile anche attraverso l’esperienza crescente di comunione che travalica i confini confessionali e, soprattutto, di sfide comuni alla cristianità; in modo speciale, in Europa. Tutte le confessioni sono unite dall’esperienza di vivere in un continente che diventa sempre più estraneo alla religione. Al tempo stesso, ci unisce l’esperienza mondiale che la pluralità delle forme di Chiesa è in aumento. Va qui citata la crescita vertiginosa delle Chiese pentecostali. Il cristianesimo, considerato sotto l’aspetto istituzionale, non è mai stato tanto diversificato come oggi.
Su questo sfondo, si pone la questione dell’unità visibile della cristianità. Noi luterani siamo convinti che la nostra comprensione di una Chiesa, che mira alla concordia nella dottrina del Vangelo di Gesù Cristo e all’uso corretto dei sacramenti, secondo la loro istituzione, sia, in senso neotestamentario, sufficiente per descrivere l’unità. Solo il movimento coerente verso un’unità nella diversità riconciliata potrà portare la Chiesa a essere all’altezza del suo compito comune di portare il Vangelo tra la gente e ad aiutarlo a raggiungere un’intensità luminosa rinnovata. Ma potrebbe convenire continuare a sviluppare la formula dell’unità nella diversità riconciliata, di fronte alla critica, che le viene mossa, di essere troppo statica. Forse, la formulazione di una «unità visibile nella molteplicità organizzata» è più adeguata al risultato neotestamentario dello sviluppo della professione di fede in Gesù Cristo, per descrivere il compito della cristianità: diventare segno di unità per le genti.
L'Osservatore Romano

Meditare la Via Crucis



di Silvia Lucchetti

14 invocazioni con cui Costanza Miriano ci invita a prepararci alla Pasqua

“Via Crucis. Dall’epifania della violenza all’epifania dell’amore” (San Paolo edizioni) è un libro per pregare durante la Via Crucis, scritto da Costanza Miriano. Le riflessioni, una per ciascuna delle quattordici stazioni, che la giornalista propone, sono brevi ma molto intense, piccole preghiere da innalzare al cielo come mendicanti bisognosi di Spirito Santo.
Stiamo vivendo il tempo quaresimale, quel momento speciale dell’anno liturgico che ci conduce alla Pasqua del Signore. Ogni venerdì, memoria del venerdì santo, riviviamo nella via crucis la passione e morte di Gesù, meditando le offese e le sofferenze recate al Signore. La Quaresima è un tempo di silenzio che si fa preghiera per poi divenire grido di giubilo, perché – dopo i quaranta giorni nel deserto e le tentazioni del demonio – il Salvatore testimonia il Suo amore per noi patendo e morendo in croce, per regalarci la salvezza e la gioia della resurrezione.
“DALL’EPIFANIA DELLA VIOLENZA ALL’EPIFANIA DELL’AMORE”
Nella prefazione don Alessandro Amapani chiarisce ai lettori il senso del titolo:
«Ma se è vero che la Via della croce è epifania della violenza, è anche vero che è testimonianza di come Gesù ha vissuto questa violenza, dunque è epifania di amore».
Abbiamo scelto per voi lettori sei delle quattordici meditazioni scritte da Costanza Miriano, sperando che possano aiutarvi nel vostro cammino quaresimale per giungere a vivere pienamente la veglia pasquale.
PRIMA STAZIONE: GESÙ CONDANNATO A MORTE
Insegnaci a vivere secondo lo Spirito e non secondo la carne
«Nostro Signore, ti benediciamo perché sei stato mite, sottomesso, non ti sei ribellato, non hai giudicato da solo, ma hai ascoltato il Padre. Hai resistito alla tentazione di mostrare il tuo valore agli occhi del mondo, secondo la sua logica. Benediciamo la tua obbedienza che ha sconfitto la morte e ci ha aperto le porte della vita eterna. Insegna anche a noi a vivere secondo lo Spirito e non secondo la carne».
 TERZA STAZIONE: GESÙ CADE LA PRIMA VOLTA
Nelle mani di Cristo nulla andrà perduto
«La vita cristiana è un combattimento, non può non saperlo chi prende il suo battesimo sul serio. Ma la risurrezione, quel fatto che duemila anni fa ha cambiato la storia dell’umanità, ha fatto entrare nel mondo la certezza che neanche una goccia del nostro sudore, nessuna lacrima andrà perduta se messa nelle tue mani, Signore».
QUARTA STAZIONE: GESÙ INCONTRA LA MADRE
Gesù abbi pietà della nostra infedeltà
«Gesù, noi cerchiamo e desideriamo solo il tuo volto, e inseguiamo te, che sei più intimo a noi di noi stessi. Vogliamo davvero esserti sorella e fratello, essere una madre che porta te, suo figlio, stretto sotto al cuore e poi lo offre agli altri. Abbi pietà della nostra infedeltà, di quando siamo tentati di sovrapporre a te la nostra idea di Dio, non ti stancare di noi quando usciamo da questa intimità che tu incarnandoti ci hai spalancato».
SESTA STAZIONE: LA VERONICA ASCIUGA IL VOLTO DI GESÙ
Innamorarsi di Gesù
«Gesù, che ci hai promesso di essere figlio, fratello, sposo nostro, dacci la grazia di contemplare il tuo viso sfigurato dal dolore, facci innamorare di te in modo struggente, perché il nostro cuore sia rapito dal tuo volto. Solo così tutta la nostra fame e la sete e il desiderio saranno saziati, e piano piano cominceremo a somigliarti».
NONA STAZIONE: GESÙ CADE LA TERZA VOLTA
Gesù cade sotto il peso dei nostri peccati
«Tu cadi sotto il peso dei nostri peccati, per prenderli su di te. Per questo possiamo contemplare la tua caduta, la terza, e osare chiederti, supplicarti di sostenerci quando anche noi cadiamo, più e più volte, ogni giorno, sempre con la stessa debolezza, sempre con la stessa fragilità, nella stessa tentazione di sfuggire alla realtà che ci è stato chiesto di vivere. Rivelati, o Signore, quando ci sembra di non farcela più».
QUATTORDICESIMA STAZIONE: GESÙ DEPOSTO NEL SEPOLCRO
Gesù confido in te
«Comincia nel sepolcro l’attesa dell’evento che ha cambiato la storia dell’umanità intera. Aiutaci, o Signore, a mettere anche noi nell’attesa di quello che l’obbedienza e la conversione compirà nella nostra vita, grazie al tuo amore incondizionato, grazie alla tua onnipotenza. Insegnaci ad affidarti tutto il nostro cuore, e a dirti davvero: Gesù, confido in te».  
LASCIAMOCI GUARDARE DA CRISTO CROCIFISSO
Don Alessandro Amapani, autore della prefazione, scrive a conclusione del suo intervento:
“È questo il tempo per lasciarsi guardare dallo sguardo di Cristo crocifisso, che ci converte e che apre il nostro cuore ad accoglierlo nella totalità della sua umanità, ferita e sanante per tutti i “discepoli amati” della vita cristiana, che seguono Gesù dalla cattura nel Getsemani fino alla crocifissione”.
La Quaresima è “l’occasione propizia di una profonda revisione di vita” (Giovanni Paolo II, Messaggio per la Quaresima 2001), quel tempo di penitenza e preghiera in cui la Chiesa ci incoraggia “a pensare e ad operare nel segno di una carità autentica”.
E così conclude il Santo pontefice:
«Ecco perché, in questa Quaresima, desidero invitare tutti i credenti ad un’ardente e fiduciosa preghiera al Signore, perché conceda a ciascuno di fare una rinnovata esperienza della sua misericordia. Solo questo dono ci aiuterà ad accogliere e vivere in modo sempre più gioioso e generoso la carità di Cristo, che “non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità” (1 Cor 13, 5-6)».

Perché un corpo malato può dare salute all'anima

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di Mario Melazzini*

Ancora una volta le storie umane, di grande sofferenza e dolore, ci pongono di fronte a riflessioni importanti sul valore della vita e sul suo significato, sul perché si decida di intraprendere determinati percorsi. Quando si è colpiti da una malattia, una grave disabilità, qualunque essa sia, a prima vista pare impossibile se non insensato coniugarla con il concetto di salute. Ancora di più se si tratta di malattie rare, poco conosciute e di cui, allo stato attuale, non si conoscono terapie efficaci per guarirle, oppure di una patologia oncologica né chemio sensibile, né radio sensibile e neppure proponibile per un approccio chirurgico.
A volte, però, può succedere che una malattia o una grave disabilità che mortifica e limita il corpo, anche in maniera molto evidente, possa rappresentare una vera e propria medicina per chi deve forzatamente convivere con essa senza la possibilità di alternative. Perché la malattia può davvero disegnare, nel bene e nel male, una linea incancellabile nel percorso di vita di una persona. O, ancora meglio, edificare una serie di Colonne d’Ercole superate le quali ci è impossibile tornare indietro, ma se lo si vuole, ci è ancora consentito di guardare avanti. Ed è proprio questo il nocciolo della questione. Quando si ha la fortuna di conservare intatte e inalterate le proprie capacità cognitive, è comunque possibile pensare a ciò che è possibile fare piuttosto che a quello a cui non si è più in grado di ottemperare. Se si ragiona in questi termini, la malattia può davvero diventare una forma di salute. È salutare perché permette di sentirsi ancora utili per se stessi e per gli altri, incominciando dai propri famigliari per proseguire con gli amici ed i colleghi di lavoro.
Ed è salutare perché aiuta a rendersi conto che nella vita non bisogna dare nulla per scontato, neppure bere un bicchiere d’acqua senza soffocare. A volte siamo così concentrati su noi stessi che non ci accorgiamo della bellezza delle persone e della cose che abbiamo intorno da anni, magari da sempre. Così, quando è la malattia a fermarti bruscamente, può accadere che la propria scala di valori cambi. E che ci si renda conto che quelli che noi, fino a quel momento, consideravamo i più importanti invece non erano proprio così meritevoli dei primi posti. In questi tempi in cui si parla sempre più, con scarsa chiarezza, di 'diritto alla morte', del principio di autodeterminazione, di autonomia del paziente, si deve lavorare concretamente sul riconoscimento della dignità dell’esistenza di ogni essere umano che deve essere il punto di partenza e di riferimento di una società che difende il valore dell’uguaglianza e si impegna affinché la malattia e la disabilità non siano o non diventino criteri di discriminazione sociale e di emarginazione. Il dolore e la sofferenza (fisica, psicologica), in quanto tali, non sono né buoni né desiderabili, ma non per questo sono senza significato: ed è qui che l’impegno della medicina e della scienza deve concretamente intervenire per eliminare o alleviare il dolore delle persone malate o con disabilità, e per migliorare la loro qualità di vita, evitando ogni forma di accanimento terapeutico.
Questo è un compito prezioso che conferma il senso della nostra professione medica, non esaurito dall'eliminazione del danno biologico. La medicina, i servizi sociosanitari e, più in generale, la società, forniscono quotidianamente delle risposte ai differenti problemi posti dal dolore e dalla sofferenza: risposte che vanno e devono essere implementate e potenziate e che sono l’esplicita negazione dell’eutanasia, del suicidio assistito e di ogni forma di abbandono terapeutico. Noi medici, gli operatori sanitari in generale, le Istituzioni stesse, abbiamo questa grandissima fortuna: quella di poterci rapportare e relazionarci con l’essere umano che soffre, ma che può e riesce a trasmetterci e a insegnare molto. Non si possono o si devono creare le condizioni per l’abbandono di tanti malati e delle loro famiglie. È inaccettabile avallare l’idea che alcune condizioni di salute rendano indegna la vita e trasformino il malato o la persona con disabilità in un peso sociale. Si tratta di un’offesa per tutti, ma in particolar modo per chi vive una condizione di malattia, questa idea, infatti, aumenta la solitudine dei malati e delle loro famiglie, introduce nelle persone più fragili il dubbio di poter essere vittima di un programmato disinteresse da parte della società, e favorisce decisioni rinunciatarie. Ciò che manca è una reale presa in carico del malato, la corretta informazione sulla malattia e sulle sue problematiche, la comunicazione personalizzata con la condivisione familiare per poter 'spianare' il percorso della consapevolezza per poter facilitare e applicare concretamente le decisioni condivise durante la progressione della malattia. Non si può chiedere a nessuno di uccidere. Una civiltà non si può costruire su un simile falso presupposto.
Perché l’amore vero non uccide e non chiede di morire. È necessario aprire una concreta discussione su che cosa si stia facendo per evitare l’emarginazione delle persone con gravi patologie invalidanti e su quanto realmente, al momento attuale, si sta investendo nel percorso medico, di continuità assistenziale domiciliare e di cultura della salute e delle problematiche legate alle patologie disabilitanti e alla disabilità in senso lato, chiedendosi con molta sincerità se proprio dalla mancanza sempre più evidente di assistenza domiciliare qualificata, supporto adeguato alla famiglia, reti di servizi sociali e sanitari organizzati, solidarietà, coinvolgimento e sensibilità da parte dell’opinione pubblica scaturiscano quelle condizioni di sofferenza e di abbandono a causa delle quali alcuni malati chiedono di porre fine alla propria vita.
Dovremmo essere anche noi medici a contribuire, insieme alle Istituzioni, a rinsaldare nel nostro Paese la certezza che ognuno riceverà trattamenti, cure e sostegni adeguati. Si deve garantire al malato, alla persona con disabilità e alla sua famiglia ogni possibile, proporzionata e adeguata forma di trattamento, cura e sostegno. La Costituzione italiana, tutte le leggi vigenti in Italia, il nostro Codice di deontologia medica, oltre alla Convenzioni sui diritti dell’uomo e la Convenzione sui diritti e la dignità delle persone con disabilità, affermano la dignità di tutti e il diritto all’accesso alle cure. Ecco perché penso che un corpo malato può portare salute all’anima, rendendola più forte più tenace, più determinata, più disponibile a buttarsi con tutta sé stessa in quello che si vuole. L’urgenza dettata da uno stato patologico può diventare uno stimolo enorme per raggiungere traguardi considerati impensabili e apparentemente preclusi nella 'vita precedente'. E faccio tesoro di quanto scritto da Stephen Hawking: «Ricordatevi di guardare le stelle e non i vostri piedi... Per quanto difficile possa essere la vita, c’è sempre qualcosa che è possibile fare, e in cui si può riuscire». La malattia non porta via le emozioni, i sentimenti, la possibilità di comprendere che l’«essere» conta di più del «fare». Può sembrare paradossale, ma un corpo nudo, spogliato della sua esuberanza, mortificato nella sua esteriorità fa brillare maggiormente l’anima, ovvero il luogo in cui sono presenti le chiavi che possono aprire, in qualunque momento, la via per completare nel modo migliore il proprio percorso di vita. In tutto questo la speranza che definisco come quel sentimento confortante che provo quando vedo con l’occhio della mia mente quel percorso che mi può condurre a una condizione migliore, diventa il mio strumento di vita quotidiana.
*Medico, malato di Sla e direttore generale dell’Agenzia italiana del farmaco (Aifa)

Sofferenza personale e sofferenza comunitaria




Quaresima, tempo di penitenza, di pianto per i propri peccati e di ritorno al Signore, attraverso l’amore fraterno. Scegliamo di accompagnare questo cammino con il commento ai sette salmi penitenziali, uno per ogni venerdì di Quaresima: giorno particolarmente simbolico, nel quale, anche grazie alla pratica intelligente del digiuno a cui la chiesa ci invita, possiamo conoscere meglio il nostro cuore e disporci ad accogliere la chiamata del Signore a fare ritorno a lui.

Questi sette salmi non sono una raccolta messa in evidenza dal Salterio con qualche titolo specifico, non appartengono neanche a un determinato genere letterario. È la sapienza della grande tradizione cristiana ad averli costituiti in un settenario glorioso, da leggere, meditare e pregare per accompagnare il proprio pentimento. Tracce di tale raggruppamento sono già presenti in Origene (185-254) e in Agostino (354-430; il suo biografo scrive che egli amava e meditava con particolare intensità una collezione di “pochissimi salmi di penitenza”); ma il primo a collegare esplicitamente tra loro questi sette salmi è Cassiodoro (485-580): “Nel libro del Salterio, secondo l’uso recepito dalle chiese, i penitenti vengono ammaestrati da sette particolari insegnamenti, utilissimi a chi vuole chiedere perdono al Signore … Questi salmi sono gli strumenti più efficaci per la purificazione del nostro cuore, per rinascere dalla morte dei peccati e passare dal pianto alla gioia nel Signore”.

Intraprendiamo dunque questo itinerario dal pianto alla gioia, percorrendo le sette tappe indicate dalla sapienza di questi salmi.

***
Salmo  102 SOFFERENZA PERSONALE, SOFFERENZA COMUNITARIA
1 Preghiera di un povero che soffre 
e sfoga davanti a Dio il suo lamento.
2 Signore, ascolta la mia preghiera 
il mio grido giunga no a te, 
3 non nascondere a me il tuo volto 
nel giorno in cui sono nell’angoscia 
verso di me piega il tuo orecchio 
quando ti chiamo, presto, rispondimi.
4 Come fumo svaniscono i miei giorni 
le mie ossa ardono come brace, 
5 il mio cuore secca come erba falciata 
mi dimentico di mangiare il mio pane 
6 a forza di gridare il mio lamento 
la mia pelle aderisce alle mie ossa.
7 Somiglio alla civetta del deserto 
sono come il gufo tra le rovine 
8 nella notte resto insonne a vegliare 
solitario come un passero su un tetto.
9 I miei nemici mi oltraggiano tutto il giorno 
accaniti imprecano contro di me 
10 la cenere è il pane che mangio
alla mia bevanda mescolo le lacrime.
11 A causa della tua collera e del tuo sdegno 
mi hai sollevato e poi scagliato a terra 
12 i miei giorni come l’ombra che declina 
e io avvizzisco come l’erba.
13 Ma tu, Signore, regni per sempre 
il tuo ricordo di età in età, 
14 tu sorgerai e avrai compassione di Sion 
l’ora è venuta di usarle misericordia: 
15 i tuoi servi hanno care le sue pietre 
per la sua polvere provano amore.
16 Le genti temeranno il Nome del Signore 
la tua gloria tutti i re della terra, 
17 quando il Signore ricostruirà Sion 
quando vi apparirà nella sua gloria 
18 esaudirà la preghiera del solitario
non avendo disprezzato la sua supplica.
19 Si scriva questo per la generazione futura 
e il popolo ricreato loderà il Signore: 
20 dall’alto del Santo osserva il Signore 
dai cieli egli guarda sulla terra
21 per ascoltare il lamento del prigioniero 
per liberare i condannati alla morte.
22 Il Nome del Signore sarà esaltato in Sion 
sarà lodato in tutta Gerusalemme 
23 quando si raduneranno i popoli 
e i regni e insieme serviranno il Signore.
24 Lungo il cammino [il Signore] ha fiaccato la mia forza 
ha abbreviato il numero dei miei giorni 
25 e io ho gridato: «Mio Dio!
non prendermi alla metà dei miei giorni!».
I tuoi anni nei secoli dei secoli
26 dal principio hai fondato la terra, 
i cieli sono opera delle tue mani 
27 ma essi passeranno, tu resterai 
si consumano come un tessuto 
come un vestito tu li rinnoverai.
28 Saranno rinnovati, ma tu resterai 
i tuoi anni non hanno mai fine 
29 i figli dei tuoi servi avranno una dimora
la loro discendenza resterà alla tua presenza.

Preghiera di un povero che soffre e sfoga davanti a Dio il suo lamento”: nella soprascritta del salmo  102 è contenuta la sua efficace sintesi. Siamo di fronte a un testo composito, che alterna la dimensione personale e quella comunitaria, collettiva:
lamento per la sofferenza personale (vv. 2-12);
lamento per la sofferenza comunitaria, del popolo di Dio in esilio (vv. 13-23; si veda il riferimento alle rovine di Sion, Gerusalemme, ai vv. 14-15);
lamento per la sofferenza personale (vv. 24-28);
speranza finale: la discendenza dei servi del Signore vivrà in pace alla sua presenza (v. 29).
Riprendendo numerose affermazioni tratte da altri salmi e da passi profetici, l’orante descrive con immagini molto intense la sofferenza che lo attanaglia. Per una volta, soprattutto dopo l’ampio e dettagliato commento al salmo 50 (51), lascio ai lettori il compito di soffermarsi su tali immagini, di gustarne tutto l’aspro sapore leggendole, rileggendole e riascoltandole nell’audio qui proposto. Faccio solo notare che quest’uomo sente la propria condizione come punizione divina, secondo quel riflesso psicologico che abbiamo già commentato in altri salmi. In realtà non è Dio che castiga, ma nella nostra debolezza umana, non riusciamo a esprimerci diversamente… Il miglior commento alle parole del v. 11 si trova in un altro salmo, che ancora una volta si esprime con gli stessi toni:
Siamo consumati dalla tua ira, Signore,
dalla tua collera siamo spaventati:
tu metti le nostre colpe davanti a te
le nostre opacità alla luce del tuo volto.
Per la tua collera svaniscono i nostri giorni,
i nostri anni se ne vanno come un soffio.
La nostra vita arriva a settant’anni,
a ottanta se ci sono le forze:
quasi tutti sono pena e fatica.
passano presto e noi ci dileguiamo (Sal  89,7-10).
Qui addirittura il salmista non può nemmeno spingersi così avanti, ma è come annichilito da una tristissima prospettiva: “Ho gridato: ‘Mio Dio! Non prendermi alla metà dei miei giorni!’” (v. 25; cf. Is 38,10).
Eppure, anche in tale condizione, continua a confidare nel Signore, a rivolgersi a lui con enorme fiducia e speranza: “Tu, Signore, regni per sempre, il tuo ricordo di età in età … Il Nome del Signore sarà esaltato in Sion, sarà lodato in tutta Gerusalemme … I cieli sono opera delle tue mani, ma essi passeranno, tu resterai; si consumano come un tessuto, come un vestito tu li rinnoverai. Saranno rinnovati, ma tu resterai” (vv. 13.22.26-28). Da dove nasce questo slancio interiore? Dalla coscienza che “l’amore del Signore è per sempre” (ritornello del salmo 135), ed è un amore che tocca certamente il singolo, ma si estende anche a tutto il popolo dei credenti di cui egli fa parte, anzi a tutti gli umani, per sempre: “I tuoi anni nei secoli dei secoli … I tuoi anni non hanno mai fine” (vv. 25.28). Ecco un discernimento davvero liberante, che ci fa alzare lo sguardo e respirare nell’esteso spazio della misericordia di Dio: i miei giorni finiranno, ma l’amore di Dio no, il suo amore è per sempre. Amore per me, per ciascuno, per tutti.
Dunque, anche quando si consumeranno i cieli e giungerà il Giorno, il giorno del giudizio, della venuta gloriosa del Signore, della fine di questo cielo e di questa terra (cf. 2P 3,8-10), non dovremo temere nulla. Sarà l’ora del suo giudizio temibile e misericordioso, del quale Gesù ci ha svelato il criterio: saremo giudicati in base all’amore concreto che avremo saputo vivere verso ogni nostro fratello e sorella in umanità, soprattutto gli ultimi, i più poveri (cf. Mt 25,31-46). La prospettiva del nostro salmo non è molto diversa: unire la propria sofferenza a quella comunitaria (in una visione che si allarga fino al mondo intero, alla comunità di tutti gli esseri umani), significa già ampliare i nostri orizzonti, dilatare i nostri cuori ai “sentimenti che furono in Cristo Gesù” (Fili 2,5), sapere anche noi ascoltare il lamento di ogni prigioniero (di ogni tipo di catene!), soffrire insieme a quanti vanno verso la morte (cf. v. 21), cioè tutti gli umani. Nessuna sofferenza di nessun essere umano ci può essere estranea: solo con questa chiara consapevolezza, potremo rivolgerci a Dio e supplicarlo anche per le nostre personali sofferenze, con “cuore puro e spirito saldo” (Sal 50,12).
È esattamente ciò che ha fatto Gesù, come ha saputo cogliere con un’intelligente sintesi Agostino, commentando la soprascritta del salmo:
Un povero prega. Quale povero? Colui che “si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà” (2Cor 8,9). Guarda le sue ricchezze: “Tutto è stato fatto per mezzo di lui” (Gv 1,3). Come è giunto a mangiare un pane di cenere e a mescolare la sua bevanda con le lacrime (cf. v. 10)? Sì, è lui che ha assunto la forma di schiavo (cf. Fili 2,7), è lui lo stesso povero che dice: “Dai confini della terra ho gridato a te” (Sal 60,3).
Sì, nel farsi uomo il Signore Gesù ha assunto dall’interno tutta e ogni nostra povertà, dunque si è fatto povero della nostra povertà, fino a “prendere su di sé le nostre debolezze e caricarsi delle nostre malattie” (cf. Mt 8,17Is 53,4), fino a morire d’amore, potremmo dire. Proprio per l’amore che ha vissuto e patito è stato richiamato dai morti e ora, risorto per sempre, “sta alla destra di Dio e intercede per noi” (Rm 8,34): ormai in Dio c’è la nostra umanità crocifissa con Cristo e risorta con lui (cf. Rm 6,8Col 2,12)!
Questo stile proprio del passare sulla terra di Gesù, del suo condividere le nostre sofferenze, è espresso splendidamente in un testo liturgico che dovremmo meditare con più attenzione, in particolare in questo tempo di Quaresima:
O Cristo,
la tua passione è anche passione dell’umanità:
è la fame degli affamati, la sete degli assetati.
O Cristo,
la tua passione continua tra i viventi:
è il languire dei malati, l’agonia dei morenti.
O Cristo,
la tua passione è presente nella storia:
è l’oppressione dei poveri, la tortura dei perseguitati.
O Cristo,
la tua passione è sofferta in mezzo a noi:
ogni dolore è tuo dolore, ogni vergogna è tua vergogna.
Ed è proprio per Cristo, con Cristo e in Cristo che possiamo accogliere con gratitudine un’audace intuizione della tradizione ebraica sul nostro salmo: “Sta scritto: ‘Preghiera di un povero’, ma si può anche leggere: ‘Preghiera a un povero’”. È Dio il povero che soffre con noi e ci prega di accogliere il suo patire insieme a noi: a ciascuno di noi e a noi tutti insieme.

Signore, tu che ascolti la nostra preghiera,
porgi l’orecchio alla nostra supplica.
Schiavi del peccato,
noi appassiamo come erba secca:
donaci di essere risollevati
grazie al tuo sguardo pieno di misericordia.

(Orazione salmica di tradizione romana, inizio VI secolo)
Fr. Ludwig Monti

Beyond HE or SHE



di Davide Vairani
Liberi di sentirsi ciò che si vuole e  si desidera al momento. E’ il gender bellezza, è trend e cool. Non ci puoi fare niente. La narrazione che il Potere vuole imporci a tutti i costi quale esempio di libertà e progresso ha arruolato di buon grado anche la prestigiosa rivista settimanale “Time”. Titolo della copertina di “Time”: “Beyond he or she”, cioè oltre “lui” o “lei”. Il settimanale racconta in un lungo reportage come i Millenials ridefiniscono il proprio genere.
I Millennials per convenzione sono i giovani, la generazione del nuovo millennio (anche detta generazione Y) ed esattamente sono tutti coloro nati tra il 1980 e 2000, che hanno la caratteristica di essere la prima generazione al mondo ad essere nata nel mondo della comunicazione globale dove tutto è connesso e relazionato. Lo aveva già fatto qualche tempo fa’ un’altra prestigiosa e blasonata rivista: il National Geographic, quando aveva sbattuto in copertina una bambina transgender di nove anni e un lungo reportage che aveva lo stesso obiettivo.
L’intero reportage di “Time” tenta di esplorare, per mezzo di testimonianze dirette e ricostruzioni congetturali, la vasta gamma di combinazioni che consente ai Millennials di moltiplicare i generi cui sentono di appartenere. Tutto il reportage si basa su sondaggio commissionato da GLAAD  (Gay & Lesbian Alliance Against Defamation), un’organizzazione americana no-profit tra le più potenti nell’attivismo LGTB. Quella – per capirci – che ogni anno assegna il “GLAAD Media Awards, premio assegnato alle persone e alle produzioni dell’intrattenimento, “per il loro contribuito nel dare un’immagine più veritiera e accurata della comunità LGBT e delle questioni che riguardano la loro vita”.
L’articolista definisce questi ragazzi “hyperindividual, you-do-you”, cioè iperindividualisti e fai da te, cogliendone un aspetto fondamentale. Il comune denominatore delle loro singole storie non è tanto la non appartenenza a uno dei generi prefissati – maschio e femmina -, ma la ferma convinzione che sia la loro interiorità a plasmare l’esteriorità o, meglio, che il solo modo di conoscere una verità oggettiva riguardo a sé sia la propria stessa sensibilità. Harris Poll – il curatore tecnico del reportage – ha scritto che il GLAAD ha intervistato decine di persone in tutti gli Stati Uniti circa i loro atteggiamenti verso la sessualità e il genere, da San Francisco a una piccola città del Missouri. Risultato? Il 20% dei Millennials si dichiarano aperti ad ogni forma di identità sessuale. Quando la società di ricerche di mercato “Cultura Co-op” – specializzata in ricerche e studi sugli atteggiamenti dei giovani americani- ha chiesto a circa 1.000 i giovani se pensano che le famose 60 opzioni di genere previste da Facebook siano troppe, quasi un terzo di loro ha risposto che credono siano troppo poche e che tale impostazione sia influenzata negativamente dell’oscurantista e tradizionalista “destra”.
Che dire? Ho l’impressione che queste operazioni mediatiche ormai comincino a stancare la gente e sortiscano – dal loro punto di vista – l’effetto opposto. Sbaglierò, ma ho la sensazione che la gente comune stia piano piano capendo l’imbroglio che si nasconde e che – soprattutto – si stia assistendo ad una overdose e ad una sovraesposizione del tema talmente invasivo da generare una sensazione di ripulsa più o meno motivata o consapevole. Possibile che accendendo la Tv o leggendo un quotidiano a qualsiasi ora e in qualsiasi giorno ci siano sempre gay, gender-fluid, analisi più o meno corrette, pensieri dei vip, parole sparate in ogni contesto, sempre e comunque indirizzate a convincerci che tutto questo non solo è normale, ma rappresenti il progresso al quale tutti ci dobbiamo adeguare? E’ una regola della comunicazione, indipendentemente da aspetti etici o antropologici: il troppo stroppia. In una società sempre più globalizzata nella quale è facile per ciascuno di noi cercare notizie e informazioni, non so quanto funzioni ancora la famosa Finestra Overton. Ripetere all’infinito e in maniera ossessionante sui giornali e in Tv che ciascuno è libero di scegliere quando e come vuole la propria sessualità, il proprio genere, il proprio modo di viverli e al tempo stesso imporre questo dato come regola del progresso che avanza di fronte al quale è giusto e bene che tutti noi ci adeguiamo, bhè, ho qualche dubbio che oggi funzioni come accaduto fino a qualche tempo fa’.
Ho compassione per giovani così. E sono convinto che la stessa impressione ce l’abbiano sempre più persone. Semplicemente perché il Potere funziona e dura fino ad un certo punto. La gente non è né scema e né tantomeno così manipolabile come il Potere pensa. E’ troppo tempo che sul piano mediatico assistiamo ad un bombardamento senza limiti di una realtà che è finta, di plastica, non vera e che produce solo un senso di compassione e tristezza. Se ci si ricorda che dietro le copertine i giornali contengono articoli, e se dunque si legge lo sterminato e interessante reportage su come la scienza ci stia aiutando a capire il genere, si apprendono alcuni elementi piuttosto istruttivi. Nel reportage del National Geographic in realtà l’unica cosa che veniva confermata (se lo leggiamo fino in fondo) è che si tratti soprattutto di una questione di pronomi, di definizioni, insomma di parole: come quelle che dalla Nigeria alla Thailandia, dal Messico a Tonga, consentono di codificare e dunque definire un terzo genere, che esiste solo entro determinati confini geografici. In Samoa uno può essere maschio, femmina o fa’afafine, ma appena va all’estero scopre che i generi restano due.
Emerge anche che il genere è “un amalgama di parecchi elementi: cromosomi, anatomia, ormoni, psicologia e cultura”. Ne consegue che il genere ha a che fare con convinzioni e condizionamenti, e infatti National Geographic dice testualmente che “ci si interroga sulla propria identità di genere perché oggigiorno si parla molto di questi argomenti”. È un raro caso di nome che crea la cosa: per questo non ci si limita ad accettare il proprio approccio alla sessualità come “hobby e scelta di vestiario”; per questo sta aumentando vertiginosamente il numero di “non conformisti di genere, una vasta categoria che nella scorsa generazione non aveva nemmeno un nome”. È una questione di parole, quindi di discorsi e teorie che creano la casella che uno, ingenuamente, crede ritagliata apposta sulla propria identità oggettiva e intima.
Nel reportage di “Time” la cosa è ancora in realtà più lampante: tale sensibilità individuale dei giovani viene identificata con l’emotività, tralasciando il discernimento che è la capacità di chi è sensibile di trovare una mediazione fra sentimenti e circostanze. Ciò vincola l’oggettività alle emozioni: “Mi piace essere neutro”, spiega un giovane, sancendo di conseguenza di essere neutro; scelta ammirevole in quanto sarebbe molto vantaggioso, ammetto, che per diventare ricco bastasse l’evenienza che mi piaccia essere ricco. Senza considerare che le emozioni sono per definizione passeggere, come nel caso del giovane che dichiara: “Alcuni giorni sento che il mio genere possa coincidere con quello assegnatomi alla nascita, altri giorni no”. Anche in questo caso ammetto che sarebbe una soluzione geniale sentirmi ricco (e quindi esserlo) alcuni giorni all’anno ma non in quelli in cui devo pagare le tasse, abbattendo l’aliquota.
Insomma, ne esce una caricatura dei Millennials. La realtà è ciò che ciascuno si figura allo scopo di sentirsi bene. “I vostri termini non riflettono la mia realtà”; “Per me va bene essere me, qualsiasi cosa sia”; “Un determinato genere risulta sensato nelle loro teste, quindi va bene”, sono alcune delle frasi che vengono messe in bocca ai giovani intervistati.
Ho come l’impressione che sia ancora una volta la solita bufala che si vuole spacciare per maggioranza: sul piano statistico e sociologico, cosa rappresentano 1.000 interviste su una popolazione (quella americana) di 325 milioni di persone? Nulla. I Millennials sono molto di più di ciò che troppi vogliono rappresentare: sono una generazione che si sottostima. Una generazione che ha tutte le potenzialità per fare grandi cose: se solo gli adulti che comandano il Mondo la smettessero di manipolarli anziché accompagnarli nella scoperta di sé.

Eutanasia e pena di morte



(Lucetta Scaraffia) Credo di non essere stata la sola a provare un brivido di orrore leggendo l’articolo che Mario Marazziti ha scritto alcuni giorni fa su «Avvenire». Come antico militante e successivamente vicepresidente della Coalizione mondiale contro la pena di morte, il parlamentare italiano ha osservato che il farmaco somministrato al dj Fabiano Antoniani per assicurargli la morte in una clinica svizzera era lo stesso Pentobarbital che viene usato per i condannati a morte negli Stati Uniti. 
Già questa confusione fra condanna a morte e morte volontaria è inquietante, ma ancora più inquietante è scoprire le modalità opposte con le quali viene descritta e valutata l’azione di questo farmaco. Se, come nel caso svizzero, si assicura una morte dolce e felice, quando si passa al penitenziario dove avviene l’esecuzione della condanna a morte, secondo la voce delle associazioni che la combattono tutto cambia.
Il farmaco stesso è stato messo sotto accusa, perché i suoi effetti, guardati con una lente diversa, risultano meno rassicuranti, tanto da indurre le associazioni in questione a chiederne alla ditta farmaceutica produttrice il ritiro. E questo, sia pure con tempi lenti, sembra che stia avvenendo. Secondo le associazioni che combattono la pena di morte, infatti, l’obiettivo di una morte “pulita” non è stato raggiunto neppure questa volta. Certo, si prepareranno altri farmaci, e si ricomincerà daccapo tutto: da una parte verrà assicurata una morte “dignitosa” — quella dignità che il nome stesso della clinica svizzera, Dignitas, vuole garantire — dall’altra si confermerà il sospetto di un uso che non solo è da condannare in sé, ma da giudicare con severità a proposito degli effetti sulla vittima. In un gioco di specchi che impedisce di vedere la realtà, e che testimonia come sia facile caderevittime delle manipolazioni ideologiche.

Questa situazione era stata anticipata da uno dei libri oggi più ricordati, La morte moderna, dello svedese Carl-Henning Wijkmark, uscito negli anni settanta e tradotto in Italia da Iperborea. Si presentava come un libro di fantascienza, molto rapidamente diventato stretta attualità. Nel paese scandinavo paradiso del welfare i governanti si accorgono che, a causa dell’allungamento della vita, non riescono più a sostenere l’assistenza statale dei numerosi anziani, e pensano di risolvere il problema con l’eutanasia. Ma, per riuscirci, devono trasformare la morte da disgrazia temuta a oggetto del desiderio, cioè renderla «attraente, desiderabile, e la domanda di eutanasia sarà spontanea».
Ci lasciamo così convincere facilmente che si può “comprare” una morte facile e indolore. Ma la realtà mette in dubbio questa consolante certezza, anche se non la si vuole vedere: leggendo gli articoli relativi ai due diversi scenari, l’eutanasia e l’esecuzione capitale, in genere si rimane convinti che si tratta di realtà profondamente diverse. E non solo perché l’una è volontaria e l’altra è involontaria.
Ma tutto cambia se scopriamo che la sostanza è la stessa, e che il procedimento è esattamente uguale sia che si tratti di una costosa clinica svizzera oppure di una prigione per condannati a morte. Non possiamo più continuare a vedere due esperienze distinte: qui forse la tortura, là una liberazione dignitosa. Soprattutto diventiamo consapevoli di quanto poco si sappia della morte, su quanto tempo ci voglia a morire, soprattutto su come questo processo coinvolga gli aspetti più propriamente umani — la mente, la psiche, lo spirito — e non solo il corpo nella sua materialità.
Questo sconvolgente confronto fra due realtà, così diverse e invece così profondamente simili, apre molte questioni. E soprattutto fa capire che quella dell’eutanasia è una strada sbagliata, e molto, molto pericolosa.

L'Osservatore Romano

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Parola d'ordine: fare finta che non sia eutanasia La posizione di Avvenire spacca i giuristi cattolici
di Marco Ferraresi e Vincenzo Luna

Con uno sconcertante editoriale del professor Francesco D'Agostino (clicca qui), il quotidiano Avvenire - e quindi la Cei - si schiera decisamente a favore dell'attuale proposta di legge sulle Dichiarazioni anticipate di trattamento (Dat) in discussione alla Camera (per quanto migliorabile), e critica pesantemente quanti si oppongono alla legge e la considerano il primo passo verso la legalizzazione dell'eutanasia. D'Agostino - che scrive in qualità di presidente dell'Unione Giuristi Cattolici Italiani (Ugci), organismo sotto la diretta tutela del segretario della CEI, monsignor Nunzio Galantino - sostiene la necessità di una buona legge sul fine vita e quella attualmente in dicussione per lui evidentemente lo è, seppure sia da emendare in alcuni punti. Si tratta di una posizione che non solo non è condivisa dalla maggioranza dei medici, ma neanche da quella dei giuristi cattolici. E infatti l'uscita di D'Agostino ha provocato l'immediata presa di distanza da parte di Marco Ferraresi, membro del Comitato centrale dell'Ugci, che nella lettera aperta che qui pubblichiamo contesta a D'Agostino le sue affermazioni. E contemporaneamente il Centro Studi Livatino presenta un appello ai parlamentari in cui si spiega perché tale proposta di legge sia inaccettabile.
- CARO D'AGOSTINO, SULLE DAT NON MI RAPPRESENTI, di Marco Ferraresi
«Quale membro del Consiglio centrale dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani mi dissocio dalle considerazioni del presidente». Così afferma il presidente dell'Unione Giuristi Cattolici di Pavia in risposta allo sconcertante commento del professor Francesco D'Agostino che dalle colonne di Avvenire difende la legge sulle Dat.

Un appello ai parlamentari promosso dal Centro Studi Livatino alla vigilia del dibattito alla Camera sulla legge del fine vita, rigetta completamente il testo che va in discussione: rende disponibile il diritto alla vita, e orienta la medicina non al bene del paziente ma al rispetto assoluto di una volontà espressa un giorno

Via Crucis al Colosseo con le meditazioni di Anne-Marie Pelletier




Via Crucis al Colosseo con le meditazioni di Anne-Marie Pelletier
Fondazione Ratzinger

Sono state preparate dalla biblista francese Anne-Marie Pelletier, docente di Sacra Scrittura ed Ermeneutica biblica, le meditazioni che saranno lette il prossimo 14 aprile, Venerdì Santo, durante il rito della Via Crucis presieduto da Papa Francesco al Colosseo.
La professoressa Pelletier, personalità di rilievo nel cattolicesimo francese contemporaneo, nel 2014 ha ricevuto il Premio Ratzinger.
La Fondazione Vaticana Joseph Ratzinger – Benedetto XVI, che ne ha alta stima, è molto lieta che proprio a lei sia stato affidato questo incarico così importante.
- Anne-Marie Pelletier: «Témoigner d’une vie chrétienne au féminin»
Conférence des évêques de France
- Le pape, le mariage et les “oui“ ou “non“ de l'Évangile 
La Vie
- I riconoscimenti a due biblisti. Per la prima volta a una donna il premio Ratzinger 
L'Osservatore Romano