venerdì 10 marzo 2017

Effetti collaterali dell’abuso dei social media.



(Cristian Martini Grimaldi) Tutto a un tratto in molti si stanno ricredendo sulle reali capacità dei social network di plasmare una società migliore. Solo ora coloro che li avevano esaltati come il più grande strumento di condivisione di informazioni mai inventato dall’umanità iniziano a riflettere su un possibile lato oscuro, ovvero la manipolazione delle nostre coscienze.«Un flagello sta uccidendo le menti delle persone — ha affermato recentemente il ceo di Apple Tim Cook — e il mondo ha bisogno di una massiccia campagna per debellarlo». 
A cosa si riferisce il capo dell’azienda che ha reinventato il nostro modo di comunicare? Alle fake news, quelle notizie totalmente inventate che attraverso i social media si diffondono alla velocità della luce e modificano la percezione che abbiamo della realtà.
Su Wired.it, noto anche come la Bibbia di Internet, si cominciano a leggere avvertenze del tipo: «La complessità dell’ambiente mediatico impone strumenti culturali e di interpretazione per decifrare il suo funzionamento. A sentirsi chiamati in causa devono essere le scuole e le università».
Ci si chiede come mai ci si svegli tutto a un tratto solo ora, solo ora si cominci a valutare la dimensione ingannevole di un mondo parallelo fatto non di realtà concreta, ma di mero touch screen
Solo pochi anni fa c’era chi (sempre su Wired) affermava che i social potevano perfino diventare uno strumento terapeutico, il mondo a cui avremmo dovuto comunque abituarci perché voltarsi a guardare indietro verso un passato fatto di “analogico passaparola” era da romantici sognatori o, peggio, ottusi nostalgici.
Ci chiedevamo, noi scettici, noi nostalgici del face-to-face, se veramente avremmo potuto affidare tutta la nostra vita sociale a uno strumento così palesemente manipolatore delle nostre reali intenzioni (anche a nostra insaputa): un like significa veramente apprezzare? Accettare un’“amicizia” significa veramente aver trovato un amico? Cliccare sul pulsante “condividi” significa veramente approvare o capire il contenuto di quel materiale?
Erano domande banali, ad alcuni sembravano fin troppo elementari tanto che bastava avanzare un piccolo dubbio per venire etichettati immediatamente come moderni luddisti. Eppure adesso anche i molti cheerleader della rete cominciano a prenderne le distanze, a partire proprio dalle fake news, quel continuo bombardamento di informazioni false. 
Ma ci si può veramente meravigliare se una macchina concepita fin dal suo primordiale algoritmo, ovvero il suo codice genetico, come “finzione” — già anni fa abbiamo fatto notare come i più famosi social network siano del tutto incapaci di prevenire che un dodicenne apra un proprio profilo e scriva e posti quello che vuole — diventi anche il vettore primo della circolazione di notizie false?
Si dirà, e si è sempre detto, il mezzo in sé non c’entra, è l’uso che se ne fa. Ma l’uso che facciamo di questi mezzi è condizionato dalla loro reale efficacia, e piuttosto che strumenti per la ricerca di amicizie, si sono rivelati un congegno efficacissimo di puro marketing, dove ognuno, nel suo piccolo, ha come obiettivo quello di “vendere” se stesso. Dunque non cercherà affatto amicizie ma potenziali consumatori del proprio prodotto.
Ora, d’improvviso, la rete tanto osannata assume l’aspetto di un campo di battaglia, la battaglia per la ricerca della verità o quantomeno per smascherare quelle che sono vere e proprie bufale messe in circolo non solo per divertimento (poche) ma per ben più concreti fini di lucro. Notizie false poi rilanciate dagli stessi ignari user della rete, che non riescono ad astenersi dal condividere quelle news dai titoli così accattivanti visto che in fondo non esistono, e mai potranno esistere, sanzioni contro chi condivide un fake. False notizie o dichiarazioni imprudenti fatte sui social media hanno causato minacce di morte e hanno istigato bulli di ogni tipo a commettere atti violenti.
Giusto un paio di mesi fa, dopo aver letto sui social che Comet Ping Pong (un negozio di pizza a Washington d.c.) era un rifugio per i pedofili, Edgar Maddison Welch del North Carolina aveva deciso di intervenire e fare giustizia da sé. Si presentò in quel negozio armato di pistola nel tentativo di compiere una strage. Purtroppo la storia a cui si era abbeverato tramite Facebook era completamente falsa e per fortuna in quell’occasione nessuno è rimasto ferito. 
C’è chi si domanda se i nostri leader politici possano o vogliano intervenire per porre argine a questo circolo vizioso di auto-brainwashing involontario. Ma ahimè pare che i leader preferiscano la strategia opposta, ovvero quella di assecondare queste tattiche dello spararla grossa per ampliare il proprio seguito e dunque per ottenere un immediato — ma si spera effimero — beneficio politico. «Storie false abbondano sui social media», è diventata ormai una frase talmente ricorrente nel quotidiano così come nei corsivi degli analisti che quasi non ci facciamo più caso. Ma ahimé erano le nostre stesse storie social a esserlo, a cominciare dai nostri profili, le nostre micro-biografie esagerate, quelle foto ritoccate, quell’allegria di facciata, era tutto un abbondare di fake news la nostra vita in rete, a cominciare dai suoi primi balbettii digitali ormai una dozzina di anni fa. Causa mali est ipse clamabit.
L'Osservatore Romano