mercoledì 8 marzo 2017

Il vangelo secondo Giuda



Dal suicidio di Giuda — «un fatto storico scomodo e imbarazzante con cui la Chiesa non ha paura di fare i conti» — è nata «un’opera di misericordia»: con quei trenta denari, che ha inutilmente tentato di restituire ai sacerdoti, «finisce infatti per essere costruito un cimitero per la sepoltura degli stranieri» a Gerusalemme. È proprio sulla «delicata questione» del suicidio di Giuda e sulla sua «perdita della fede nel Signore», che padre Giulio Michelini ha parlato di fronte al Papa e ai suoi collaboratori della Curia romana mercoledì mattina, 8 marzo, nella quinta meditazione degli esercizi spirituali, in corso nella Casa Divin Maestro ad Ariccia. E per il predicatore — che ha ricevuto una mail di testimonianza da un confratello francescano, parroco ad Aleppo, in cui si descrive il calvario della popolazione — è significativo che quel sangue, contrariamente alle accuse anti-giudaiche di deicidio, mosse soprattutto dal quinto secolo, non ricade «sul capo di Israele» ma nel campo comprato al prezzo del sangue di Cristo e divenuto, dunque, «opera di misericordia».
Le cronache dei nostri giorni, ha fatto presente il francescano, sono piene di «casi di suicidi e suicidi assistiti», riferendosi espressamente alla vicenda del «ragazzo di sedici anni che si è tolto la vita dopo che la sua stessa mamma aveva chiesto l’intervento della guardia di finanza», perché utilizzatore di stupefacenti. Ma «il suicidio di Giuda ci interpella tutti direttamente» ha affermato padre Michelini facendo riferimento al passo di Matteo (27, 1-10). E se «il Vangelo non ci dà elementi sicuri» per comprendere le ragioni del suo comportamento, «l’ipotesi è che a un certo punto abbia perduto la fede nel Signore». A sostegno di questa affermazione, il religioso ha proposto una testimonianza dello scrittore francese Emmanuel Carrère che, nel romanzo in parte autobiografico Le Royaume (2014), non nasconde affatto la propria esperienza di delusione: «In un certo periodo della mia vita sono stato cristiano. Lo sono stato per tre anni. Non lo sono più». Aggiungendo: «Ti abbandono Signore. Tu, non abbandonarmi».
In sostanza Carrère, ha commentato padre Michelini, «dice di aver abbandonato la fede in Cristo dopo averlo amato pur senza averlo visto». Giuda, invece, «è stato molto vicino a Gesù, lo ha conosciuto in carne e ossa». Di più: «Giuda ha seguito con entusiasmo Gesù che l’aveva chiamato, ha ascoltato le sue parole e ha visto i segni compiuti». Per dirla con Romano Guardini, «Giuda era realmente disposto alla sequela del maestro». Però, ha proseguito padre Michelini, «a un certo punto deve essere subentrato qualcosa che lo ha portato a perdere la fede in Gesù, a non fidarsi più». Ma «le ragioni non ci sono date nei Vangeli»: per Benedetto xvi «ciò che è accaduto a Giuda non è più psicologicamente spiegabile».
Da parte sua, il predicatore ha avanzato «l’ipotesi che Giuda abbia pensato di consegnare Gesù alle autorità religiose affinché si mostrasse come il messia di Israele». Insomma, «Giuda avrebbe proiettato sul volto di Gesù l’immagine del suo messia ideale: liberatore, combattente, politico». Tanto che nel vangelo di Matteo tutti i discepoli chiamano Gesù «Kyrie (Signore)»: solo Giuda lo chiama, per due volte, «Rabbì» perché in Lui «vede solo un maestro e mediante la consegna vuole forzarlo a fare quello che desidererebbe».
Ma «come è potuto accadere che un uomo scelto personalmente da Gesù sia arrivato a perdere la fede fino a non riconoscerlo più?»: è una domanda che non ci può lasciare indifferenti. «Guardini pensa a un processo a più fasi, con tanto di attaccamento al denaro» ha spiegato padre Michelini. «Meno articolata, ma altrettanto suggestiva, la finissima analisi dello scrittore israeliano Amos Oz, che vede nella crocifissione il momento della perdita della fiducia da parte di Giuda». E il predicatore non ha mancato di mettere in guardia dal non ritenersi «superiori a Giuda, perché tutti noi abbandoniamo Gesù, anche Pietro lo ha rinnegato». Ecco, allora, l’invito a chiedersi «se non vi sono nella nostra vita molti giorni in cui non abbiamo abbandonato Cristo, il nostro sapere migliore, il nostro sentimento più santo, il nostro dovere, il nostro amore per una vanità, una sensualità, un guadagno, una sicurezza, un odio, una vendetta?». E così, per dirla con Guardini, «abbiamo ben poche giustificazioni di parlare ancora con indignazione sul “traditore”, perché Giuda svela noi stessi».
Tornando sul fatto del suicidio di Giuda — «uno dei cinque di cui si parla nella Bibbia senza menzionare gli impulsi suicidi che toccano tante donne e tanti uomini» — il predicatore ha puntato sulla questione della motivazione. Più che «disperazione», quel gesto tragico esprime «rimorso, pentimento, consapevolezza e confessione del peccato commesso».
Ma c’è un altro punto focale che ci interpella senza sconti, ha affermato padre Michelini facendo ricorso a I promessi sposi, il cui autore Alessandro Manzoni — ha detto — «andrebbe persino beatificato, magari non in senso canonico, per quanto dice sulla nostra esperienza di vita». Dal Vangelo «non sappiamo chi è andato a cercare Giuda» dopo che i sacerdoti lo avevano cacciato in malo modo «dimenticando di essere pastori». Ma proprio «l’esperienza dell’Innominato», al capitolo 21 del romanzo di Manzoni, racconta di «un uomo che fa i conti con i propri gravi peccati». Fino all’incontro con il cardinale Federigo Borromeo che gli chiede perdono per non essere andato prima a incontrarlo. «La Chiesa, come ci insegna Papa Francesco, deve andare sempre incontro al peccatore» ha rilanciato padre Michelini. E così Giuda, in quelle ore terribili, «ha certamente incontrato la parte peggiore di sé, il suo errore e l’avversario, il nemico, tanto che si è tolto la vita».
Proprio in questa prospettiva, ha aggiunto, «è importante che la Chiesa scenda in strada per andare incontro a chi è nel peccato, sia presente nelle carceri e nei luoghi dove c’è quello che non si vorrebbe vedere», pub e discoteche comprese dove, ha confidato, alcuni confratelli vanno a ballare per evangelizzare «e io, da professore, simpaticamente li prendo in giro». Dal vangelo di Matteo, è l’indicazione del religioso, viene anche il suggerimento di saper «fare i conti con i propri problemi e scandali, senza nascondere nulla». Tanto che l’evangelista non evita di mettere per iscritto che tra gli antenati di Gesù c’è una prostituta.
Nel pomeriggio di martedì 7 il predicatore, nella quarta meditazione, aveva proposto una riflessione «sulla preghiera di Gesù e il suo arresto al Getsemani» (Matteo 26, 36-56). E ha suggerito di andare con il proprio cuore proprio al Getsèmani per assistere alla «tristezza» e all’«angoscia» di Gesù, chiedendosi come porsi davanti all’«angoscia del nostro prossimo», se si è in grado di tenere «gli occhi aperti» e pregare oppure se si cede alla tentazione del sonno. Un’altra questione da porre, poi, è anche «se posso comprendere la volontà buona di Dio come vera per me e per il mondo oppure se ho un’idea imperfetta di questa sua volontà, come quella di un “capriccio”, tipica degli atteggiamenti dei pagani».
Ed è importante verificare pure, ha insistito il predicatore, «se mi rendo conto di quanto sia importante quella che potremmo chiamare la versatilità del Padre di Gesù Cristo: la sua volontà di salvezza è certo ferma — come diceva Guardini — ma la forma in cui essa di realizza, questa è condizionata». E così «l’onnipotenza di Dio si ferma davanti alla libertà della sua creatura e poi se Dio può cambiare idea, addirittura, stando al libro di Giona (3, 10), può pentirsi, proprio come si convertiranno gli abitanti di Ninive, se anche Dio si converte, come può la sua Chiesa non cambiare, come possiamo noi stare fissi nelle nostre rigidità?».
Per la sua meditazione padre Michelini è partito da un confronto tra la preghiera di Gesù sul monte degli Ulivi e quella sul Tabor. Le due situazioni, ha spiegato, hanno somiglianze impressionanti e «la situazione esistenziale» di Gesù è provata: nel primo caso, perché Pietro e gli altri non hanno compreso il senso del suo primo annuncio di dover morire a Gerusalemme; nel secondo perché ha appena annunciato che qualcuno l’avrebbe consegnato. Ma in tutte e due i momenti, ha fatto presente il predicatore, i discepoli non capiscono quanto sta accadendo.
Una discriminante, però, separa le due scene: sul Tabor c’è la voce del Padre che consola il Figlio; al Getsemani, invece — tranne che per la versione di Luca per cui Gesù è rafforzato nella lotta da un angelo — non si sente nessuna voce. È Gesù invece, ha spiegato padre Michelini, che si rivolge al Padre, «accogliendo che sia fatta la sua santa volontà di bene». Questa volontà originaria non vuole la morte del Figlio, ma la sua salvezza, come ebbe a scrivere sempre Guardini ne Il Signore: «Gesù era venuto per redimere il suo popolo e, in esso, il mondo. Ciò doveva compiersi attraverso la dedizione della fede e dell’amore; ma essa venne meno. Tuttavia, rimase il mandato del Padre, ma esso mutò di forma». E anche la parabola dei vignaioli omicidi, ha spiegato il predicatore, ci presenta «un padre che invia il figlio», sicuro che verrà rispettato. Ma l’annuncio e la persona di Gesù non vengono accolti e il regno passerà dunque in un altro modo: quello che Gesù, al Getsèmani, è chiamato ad accettare. In proposito, il predicatore ha parlato della «teologica del piano b»: «Anche di fronte al rifiuto del suo popolo, che Gesù non poteva mettere in conto fin dall’inizio, egli non si ferma e accetta l’ “altro piano”, accettando il suo sacrificio». E Gesù, ha messo in evidenza il religioso, esorta ancora i suoi discepoli — come ha fatto egli stesso nel Getsèmani, mettendo in pratica lo Shemà, la preghiera di Israele — ad amare «Dio con tutto il cuore, le forze e fino a dare la vita». E questa non è certo teoria, ma realtà da vivere giorno per giorno.

L'Osservatore Romano