venerdì 24 marzo 2017

Udienza di Papa Francesco ai Capi di Stato e di Governo dell’Unione Europea.



Udienza di Papa Francesco ai Capi di Stato e di Governo dell’Unione Europea. "I Padri fondatori ci ricordano che l’Europa non è un insieme di regole da osservare, non un prontuario di protocolli e procedure da seguire. Essa è una vita, un modo di concepire l’uomo a partire dalla sua dignità trascendente e inalienabile e non solo come un insieme di diritti da difendere, o di pretese da rivendicare"
Sala stampa della Santa Sede
[Text: Italiano, English, Español, Français]
Oggi pomeriggio, alle ore 18.00, presso la Sala Regia del Palazzo Apostolico, il Santo Padre Francesco riceve in udienza 27 Capi di Stato e di Governo dell’Unione Europea, accompagnati dalle loro Delegazioni, in occasione del 60.mo anniversario della firma dei Trattati di Roma. Sono presenti anche i rappresentanti delle Istituzioni europee: On. Antonio Tajani, Presidente del Parlamento Europeo; On. Donald Tusk, Presidente del Consiglio Europeo, e l’On. Jean-Claude Junker, Presidente della Commissione Europea. Dopo il discorso del Presidente del Consiglio dei Ministri della Repubblica Italiana, On. Paolo Gentiloni, e del Presidente del Parlamento Europeo, On. Antonio Tajani, il Santo Padre pronuncia il discorso che riportiamo di seguito:

Discorso del Santo Padre
Illustri Ospiti,
Vi ringrazio per la Vostra presenza questa sera, alla vigilia del 60° anniversario della firma dei Trattati istitutivi della Comunità Economica Europea e della Comunità Europea dell’Energia Atomica. A ciascuno desidero significare l’affetto che la Santa Sede nutre per i Vostri rispettivi Paesi e per l’Europa intera, ai cui destini è, per disposizione della Provvidenza, inscindibilmente legata.
Particolare gratitudine esprimo all’On. Paolo Gentiloni, Presidente del Consiglio dei Ministri della Repubblica Italiana, per le deferenti parole che ha rivolto a nome di tutti e per l’impegno che l’Italia ha profuso nella preparazione di questo incontro; come pure all’On. Antonio Tajani, Presidente del Parlamento Europeo, che ha dato voce alle attese dei popoli dell’Unione nella presente ricorrenza.
Ritornare a Roma sessant’anni dopo non può essere solo un viaggio nei ricordi, quanto piuttosto il desiderio di riscoprire la memoria vivente di quell’evento per comprenderne la portata nel presente. Occorre immedesimarsi nelle sfide di allora, per affrontare quelle dell’oggi e del domani. Con i suoi racconti, pieni di rievocazioni, la Bibbia ci offre un metodo pedagogico fondamentale: non si può comprendere il tempo che viviamo senza il passato, inteso non come un insieme di fatti lontani, ma come la linfa vitale che irrora il presente. Senza tale consapevolezza la realtà perde la sua unità, la storia il suo filo logico e l’umanità smarrisce il senso delle proprie azioni e la direzione del proprio avvenire.
Il 25 marzo 1957 fu una giornata carica di attese e di speranze, di entusiasmo e di
trepidazione, e solo un evento eccezionale, per la portata e le conseguenze storiche, poteva renderla unica nella storia. La memoria di quel giorno si unisce alle speranze dell’oggi e alle attese dei popoli europei che domandano di discernere il presente per proseguire con rinnovato slancio e fiducia il cammino iniziato.
Ne erano ben consapevoli i Padri fondatori e i leader che, apponendo la propria firma sui due Trattati, hanno dato vita a quella realtà politica, economica, culturale, ma soprattutto umana, che oggi chiamiamo Unione Europea. D’altra parte, come disse il Ministro degli Affari Esteri belga Spaak, si trattava, «è vero, del benessere materiale dei nostri popoli, dell’espansione delle nostre economie, del progresso sociale, di possibilità industriali e commerciali totalmente nuove, masoprattutto (…) [di] una particolare concezione della vita a misura d’uomo, fraterna e giusta» [1].
Dopo gli anni bui e cruenti della Seconda Guerra Mondiale, i leader del tempo hanno avuto fede nella possibilità di un avvenire migliore, «non hanno mancato d’audacia e non hanno agito troppo tardi. Il ricordo delle passate sventure e delle loro colpe sembra averli ispirati e donato loro il coraggio necessario per dimenticare le vecchie contese e pensare ed agire in modo veramente nuovo per realizzare la più grande trasformazione […] dell’Europa» [2].
I Padri fondatori ci ricordano che l’Europa non è un insieme di regole da osservare, non un prontuario di protocolli e procedure da seguire. Essa è una vita, un modo di concepire l’uomo a partire dalla sua dignità trascendente e inalienabile e non solo come un insieme di diritti dadifendere, o di pretese da rivendicare. All’origine dell’idea d’Europa vi è «la figura e la responsabilità della persona umana col suo fermento di fraternità evangelica, […] con la sua volontà di verità e di giustizia acuita da un’esperienza millenaria» [3]. Roma, con la sua vocazioneall’universalità [4], è il simbolo di questa esperienza e per questo fu scelta come luogo della firma dei Trattati, poiché qui – ricordò il Ministro degli Affari Esteri olandese Luns – «furono gettate le basi politiche, giuridiche e sociali della nostra civiltà» [5].
Se fu chiaro fin da principio che il cuore pulsante del progetto politico europeo non poteva che essere l’uomo, fu altrettanto evidente il rischio che i Trattati rimanessero lettera morta. Essi dovevano essere riempiti di spirito vitale. E il primo elemento della vitalità europea è la solidarietà.
«La Comunità economica europea – affermava il Primo Ministro lussemburghese Bech – vivrà e avrà successo soltanto se, durante la sua esistenza, resterà fedele allo spirito di solidarietà europea che l’ha creata e se la volontà comune dell’Europa in gestazione è più potente delle volontà nazionali» [6]. Tale spirito è quanto mai necessario oggi, davanti alle spinte centrifughe come pure alla tentazione di ridurre gli ideali fondativi dell’Unione alle necessità produttive, economiche e finanziarie.
Dalla solidarietà nasce la capacità di aprirsi agli altri. «I nostri piani non sono di natura egoistica» [7], disse il Cancelliere tedesco Adenauer. «Senza dubbio, i Paesi che stanno per unirsi (…) non intendono isolarsi dal resto del mondo ed erigere intorno a loro barriere invalicabili» [8], gli fece eco il Ministro degli Affari Esteri francese Pineau. In un mondo che conosceva bene il dramma di muri e divisioni, era ben chiara l’importanza di lavorare per un’Europa unita e aperta e la comune volontà di adoperarsi per rimuovere quell’innaturale barriera che dal Mar Baltico all’Adriatico divideva il continente. Tanto si faticò per far cadere quel muro! Eppure oggi si è persa la memoria della fatica. Si è persa pure la consapevolezza del dramma di famiglie separate, della povertà e della miseria che quella divisione provocò. Laddove generazioni ambivano a veder cadere i segni di una forzata inimicizia, ora si discute di come lasciare fuori i “pericoli” del nostro tempo: a partire dalla lunga colonna di donne, uomini e bambini, in fuga da guerra e povertà, che chiedono solo la possibilità di un avvenire per sé e per i propri cari.
Nel vuoto di memoria che contraddistingue i nostri giorni, spesso si dimentica anche un’altra grande conquista frutto della solidarietà sancita il 25 marzo 1957: il più lungo tempo di pace degli ultimi secoli. «Popoli che nel corso dei tempi spesso si sono trovati in campi opposti, gli uni contro gli altri a combattersi, (…) ora, invece, si ritrovano uniti attraverso la ricchezza delle loro peculiarità nazionali» [9]. La pace si edifica sempre con il contributo libero e consapevole di ciascuno. Tuttavia, «per molti oggi [essa] sembra, in qualche modo, un bene scontato» [10] e così è facile finire per considerarla superflua. Al contrario, la pace è un bene prezioso ed essenziale, poiché senza di essa non si è in grado di costruire un avvenire per nessuno e si finisce per “vivere alla giornata”.
L’Europa unita nasce, infatti, da un progetto chiaro, ben definito, adeguatamente ponderato, anche se al principio solo embrionale. Ogni buon progetto guarda al futuro e il futuro sono i giovani, chiamati a realizzare le promesse dell’avvenire [11]. Nei Padri fondatori era, dunque, chiara la consapevolezza di essere parte di un’opera comune, che non solo attraversava i confini degli Stati, ma anche quelli del tempo così da legare le generazioni fra loro, tutte egualmente partecipidella edificazione della casa comune.
Illustri Ospiti,
Ai Padri dell’Europa ho dedicato questa prima parte del mio intervento, perché ci
lasciassimo provocare dalle loro parole, dall’attualità del loro pensiero, dall’appassionato impegno per il bene comune che li ha caratterizzati, dalla certezza di essere parte di un’opera più grande delle loro persone e dall’ampiezza dell’ideale che li animava. Il loro denominatore comune era lo spirito di servizio, unito alla passione politica, e alla consapevolezza che «all’origine della civiltà europea si trova il cristianesimo» [12], senza il quale i valori occidentali di dignità, libertà e giustizia risultano per lo più incomprensibili. «E ancor oggi – affermava san Giovanni Paolo II –, l’anima dell’Europa rimane unita, perché, oltre alle sue origini comuni, vive gli identici valori cristiani e umani, come quelli della dignità della persona umana, del profondo sentimento della giustizia e della libertà, della laboriosità, dello spirito di iniziativa, dell’amore alla famiglia, del rispetto della vita, della tolleranza, del desiderio di cooperazione e di pace, che sono note che la caratterizzano» [13]. Nel nostro mondo multiculturale tali valori continueranno a trovare piena cittadinanza se sapranno mantenere il loro nesso vitale con la radice che li ha generati. Nella fecondità di tale nesso sta la possibilità di edificare società autenticamente laiche, scevre da contrapposizioni ideologiche, nelle quali trovano ugualmente posto l’oriundo e l’autoctono, il credente e il non credente.
Negli ultimi sessant’anni il mondo è molto cambiato. Se i Padri fondatori, che erano sopravvissuti ad un conflitto devastante, erano animati dalla speranza di un futuro migliore e determinati dalla volontà di perseguirlo, evitando l’insorgere di nuovi conflitti, il nostro tempo è più dominato dal concetto di crisi. C’è la crisi economica, che ha contraddistinto l’ultimo decennio, c’è la crisi della famiglia e di modelli sociali consolidati, c’è una diffusa “crisi delle istituzioni” e la crisi dei migranti: tante crisi, che celano la paura e lo smarrimento profondo dell’uomo contemporaneo, che chiede una nuova ermeneutica per il futuro. Tuttavia, il termine “crisi” non ha una connotazione di per sé negativa. Non indica solo un brutto momento da superare. La parola crisi ha origine nel verbo greco crino (κρίνω), che significa investigare, vagliare, giudicare. Il nostro è dunque un tempo di discernimento, che ci invita a vagliare l’essenziale e a costruire su di esso: è dunque un tempo di sfide e di opportunità.
Qual è allora l’ermeneutica, la chiave interpretativa con la quale possiamo leggere le difficoltà del presente e trovare risposte per il futuro? La rievocazione del pensiero dei Padri sarebbe infatti sterile se non servisse a indicarci un cammino, se non diventasse stimolo per l’avvenire e sorgente di speranza. Ogni corpo che perde il senso del suo cammino, cui viene a mancare questo sguardo in avanti, patisce prima un’involuzione e a lungo andare rischia di morire.
Quale dunque il lascito dei Padri fondatori? Quali prospettive ci indicano per affrontare le sfide che ci attendono? Quale speranza per l’Europa di oggi e di domani?
Le risposte le ritroviamo proprio nei pilastri sui quali essi hanno inteso edificare la Comunità economica europea e che ho già ricordati: la centralità dell’uomo, una solidarietà fattiva, l’apertura al mondo, il perseguimento della pace e dello sviluppo, l’apertura al futuro. A chigoverna compete discernere le strade della speranza, questo è il vostro compito!, identificare i percorsi concreti per far sì che i passi significativi fin qui compiuti non abbiano a disperdersi, ma siano pegno di un cammino lungo e fruttuoso.
L’Europa ritrova speranza quando l’uomo è il centro e il cuore delle sue istituzioni. Ritengo che ciò implichi l’ascolto attento e fiducioso delle istanze che provengono tanto dai singoli, quanto dalla società e dai popoli che compongono l’Unione. Purtroppo, si ha spesso la sensazione che sia in atto uno “scollamento affettivo” fra i cittadini e le Istituzioni europee, sovente percepite lontane e non attente alle diverse sensibilità che costituiscono l’Unione. Affermare la centralità dell’uomo significa anche ritrovare lo spirito di famiglia, in cui ciascuno contribuisce liberamente secondo le proprie capacità e doti alla casa comune. È opportuno tenere presente che l’Europa è una famiglia di popoli [14] e – come in ogni buona famiglia – ci sono suscettibilità differenti, ma tutti possono crescere nella misura in cui si è uniti. L’Unione Europea nasce come unità delle differenze e unità nelle differenze. Le peculiarità non devono perciò spaventare, né si può pensare che l’unità siapreservata dall’uniformità. Essa è piuttosto l’armonia di una comunità. I Padri fondatori scelsero proprio questo termine come cardine delle entità che nascevano dai Trattati, ponendo l’accento sul fatto che si mettevano in comune le risorse e i talenti di ciascuno. Oggi l’Unione Europea ha bisogno di riscoprire il senso di essere anzitutto “comunità” di persone e di popoli consapevole che «il tutto è più della parte, ed è anche più della loro semplice somma» [15] e dunque che «bisognasempre allargare lo sguardo per riconoscere un bene più grande che porterà benefici a tutti» [16]. I Padri fondatori cercavano quell’armonia nella quale il tutto è in ognuna delle parti, e le parti sono – ciascuna con la propria originalità – nel tutto.
L’Europa ritrova speranza nella solidarietà, che è anche il più efficace antidoto ai moderni populismi. La solidarietà comporta la consapevolezza di essere parte di un solo corpo e nello stesso tempo implica la capacità che ciascun membro ha di “simpatizzare” con l’altro e con il tutto. Se uno soffre, tutti soffrono (cfr 1 Cor 12,26). Così anche noi oggi piangiamo con il Regno Unito le vittime dell’attentato che ha colpito Londra due giorni fa. La solidarietà non è un buon proposito: ècaratterizzata da fatti e gesti concreti, che avvicinano al prossimo, in qualunque condizione si trovi.
Al contrario, i populismi fioriscono proprio dall’egoismo, che chiude in un cerchio ristretto e soffocante e che non consente di superare la limitatezza dei propri pensieri e “guardare oltre”.
Occorre ricominciare a pensare in modo europeo, per scongiurare il pericolo opposto di una grigia uniformità, ovvero il trionfo dei particolarismi. Alla politica spetta tale leadership ideale, che eviti di far leva sulle emozioni per guadagnare consenso, ma piuttosto elabori, in uno spirito di solidarietà e sussidiarietà, politiche che facciano crescere tutta quanta l’Unione in uno sviluppo armonico, così che chi riesce a correre più in fretta possa tendere la mano a chi va più piano e chi fapiù fatica sia teso a raggiungere chi è in testa.
L’Europa ritrova speranza quando non si chiude nella paura di false sicurezze. Al contrario, la sua storia è fortemente determinata dall’incontro con altri popoli e culture e la sua identità «è, ed è sempre stata, un’identità dinamica e multiculturale» [17]. C’è interesse nel mondo per il progetto europeo. C’è stato fin dal primo giorno, con la folla assiepata in piazza del Campidoglio e con i messaggi gratulatori che giunsero da altri Stati. Ancor più c’è oggi, a partire da quei Paesi che chiedono di entrare a far parte dell’Unione, come pure da quegli Stati che ricevono gli aiuti che, con viva generosità, sono loro offerti per far fronte alle conseguenze della povertà, delle malattie e delle guerre. L’apertura al mondo implica la capacità di «dialogo come forma di incontro» [18] a tutti i livelli, a cominciare da quello fra gli Stati membri e fra le Istituzioni e i cittadini, fino a quello con i numerosi immigrati che approdano sulle coste dell’Unione. Non ci si può limitare a gestire la grave crisi migratoria di questi anni come fosse solo un problema numerico, economico o di sicurezza. La questione migratoria pone una domanda più profonda, che è anzitutto culturale. Quale cultura propone l’Europa oggi? La paura che spesso si avverte trova, infatti, nella perdita d’ideali la sua causa più radicale. Senza una vera prospettiva ideale si finisce per essere dominati dal timore che l’altro ci strappi dalle abitudini consolidate, ci privi dei confort acquisiti, metta in qualche modo in discussione uno stile di vita fatto troppo spesso solo di benessere materiale. Al contrario, la ricchezza dell’Europa è sempre stata la sua apertura spirituale e la capacità di porsi domandefondamentali sul senso dell’esistenza. All’apertura verso il senso dell’eterno è corrisposta anche un’apertura positiva, anche se non priva di tensioni e di errori, verso il mondo. Il benessere acquisito sembra invece averle tarpato le ali, e fatto abbassare lo sguardo. L’Europa ha un patrimonio ideale e spirituale unico al mondo che merita di essere riproposto con passione e rinnovata freschezza e che è il miglior rimedio contro il vuoto di valori del nostro tempo, fertile terreno per ogni forma di estremismo. Sono questi gli ideali che hanno reso Europa quella “penisola dell’Asia” che dagli Urali giunge all’Atlantico.
L’Europa ritrova speranza quando investe nello sviluppo e nella pace. Lo sviluppo non è dato da un insieme di tecniche produttive. Esso riguarda tutto l’essere umano: la dignità del suo lavoro, condizioni di vita adeguate, la possibilità di accedere all’istruzione e alle necessarie cure mediche. «Lo sviluppo è il nuovo nome della pace» [19], affermava Paolo VI, poiché non c’è vera pace quando ci sono persone emarginate o costrette a vivere nella miseria. Non c’è pace laddove manca lavoro o la prospettiva di un salario dignitoso. Non c’è pace nelle periferie delle nostre città, nelle quali dilagano droga e violenza.
L’Europa ritrova speranza quando si apre al futuro. Quando si apre ai giovani, offrendo loro prospettive serie di educazione, reali possibilità di inserimento nel mondo del lavoro. Quando investe nella famiglia, che è la prima e fondamentale cellula della società. Quando rispetta la coscienza e gli ideali dei suoi cittadini. Quando garantisce la possibilità di fare figli, senza la paura di non poterli mantenere. Quando difende la vita in tutta la sua sacralità. 
Illustri Ospiti,
Nel generale allungamento delle prospettive di vita, sessant’anni sono oggi considerati il tempo della piena maturità. Un’età cruciale nella quale ancora una volta si è chiamati a mettersi in discussione. Anche l’Unione Europea è chiamata oggi a mettersi in discussione, a curare gli inevitabili acciacchi che vengono con gli anni e a trovare percorsi nuovi per proseguire il proprio cammino. A differenza però di un essere umano di sessant’anni, l’Unione Europea non ha davanti a sé un’inevitabile vecchiaia, ma la possibilità di una nuova giovinezza. Il suo successo dipenderà dalla volontà di lavorare ancora una volta insieme e dalla voglia di scommettere sul futuro. A Voi, in quanto leader, spetterà discernere la via di un «nuovo umanesimo europeo» [20], fatto di ideali e concretezza. Ciò significa non avere paura di assumere decisioni efficaci, in grado di rispondere ai problemi reali delle persone e di resistere alla prova del tempo.
Da parte mia non posso che assicurare la vicinanza della Santa Sede e della Chiesa
all’Europa intera, alla cui edificazione ha da sempre contribuito e sempre contribuirà, invocando su di essa la benedizione del Signore, perché la protegga e le dia pace e progresso. Faccio perciò mie le parole che Joseph Bech pronunciò in Campidoglio: Ceterum censeo Europam esse ædificandam, d’altronde penso che l’Europa meriti di essere costruita.
Grazie.
Franciscus pp.
[1] P.H. Spaak, Discorso pronunciato in occasione della firma dei Trattati di Roma, 25 marzo 1957.
[2] Ibid.
[3] A. De Gasperi, La nostra patria Europa. Discorso alla Conferenza Parlamentare Europea, 21 aprile 1954, in:
Alcide De Gasperi e la politica internazionale, Cinque Lune, Roma 1990, vol. III, 437-440.
[4] Cfr P.H. Spaak, Discorso, cit.
[5] J. Luns, Discorso pronunciato in occasione della firma dei Trattati di Roma, 25 marzo 1957.
[6] J. Bech, Discorso pronunciato in occasione della firma dei Trattati di Roma, 25 marzo 1957.
[7] K. Adenauer, Discorso pronunciato in occasione della firma dei Trattati di Roma, 25 marzo 1957.
[8] C. Pineau, Discorso pronunciato in occasione della firma dei Trattati di Roma, 25 marzo 1957.
[9] P.H. Spaak, Discorso, cit.
[10] Discorso ai membri del Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede, 9 gennaio 2017: L’Osservatore
Romano, 9-10 gennaio 2017, p. 4.
[11] Cfr P.H. Spaak, Discorso, cit.
[12] A. De Gasperi, La nostra patria Europa, cit.
[13] Atto europeistico, Santiago de Compostela, 9 novembre 1982: AAS 75/I (1983), 329.
[14] Cfr Discorso al Parlamento Europeo, Strasburgo, 25 novembre 2014: AAS 106 (2014), 1000.
[15] Esort. ap. Evangelii gaudium, 235.
[16] Ibid.
[17] Discorso in occasione del conferimento del Premio Carlo Magno, 6 maggio 2016: L’Osservatore Romano, 6-7
maggio 2016, p. 4.
[18] Esort. ap. Evangelii gaudium, 239.
[19] Paolo VI, Lett.enc. Populorum progressio, 26 marzo 1967, 87: AAS 59 (1967), 299.
[20] Discorso in occasione del conferimento del Premio Carlo Magno, 6 maggio 2016: L’Osservatore Romano, 6-7
maggio 2016, p. 5.

Testo in lingua francese 
Honorables hôtes, Je vous remercie de votre présence, ce soir, à la veille du 60ème anniversaire de la signature des Traités fondateurs de la Communauté Economique Européenne et de la Communauté Européenne de l’Energie Atomique. Je désire signifier à chacun l’affection que le Saint Siège nourrit pour vos pays respectifs et pour toute l’Europe, aux destins desquels il est indissolublement lié, par disposition de la Providence divine. J’exprime une gratitude particulière à Monsieur Paolo Gentiloni, Président du Conseil des Ministres de la République italienne, pour les aimables paroles qu’il a adressées au nom de tous et pour l’engagement que l’Italie a prodigué pour préparer cette rencontre ; de même qu’à Monsieur Antonio Tajani, Président du Parlement européen, qui a exprimé les attentes des peuples de l’Union en cette occasion. Revenir à Rome 60 ans après ne peut être seulement un voyage dans les souvenirs, mais bien plutôt le désir de redécouvrir la mémoire vivante de cet évènement pour en comprendre la portée dans le présent. Il faut se resituer dans les défis de l’époque pour affronter ceux d’aujourd’hui et de demain. Avec ses récits pleins d’évocations, la Bible nous offre une méthode pédagogique fondamentale : on ne peut pas comprendre le temps que nous vivons sans le passé, compris non pas comme un ensemble de faits lointains, mais comme la sève vitale qui irrigue le présent. Sans une telle conscience la réalité perd son unité, l’histoire son fil logique et l’humanité perd le sens de ses actions et la direction de son avenir. Le 25 mars 1957 fut une journée chargée d’attentes et d’espérances, d’enthousiasme et d’anxiété, et seul un événement exceptionnel, par sa portée et ses conséquences historiques, pouvait la rendre unique dans l’histoire. La mémoire de ce jour s’unit aux espérances d’aujourd’hui et aux attentes des peuples européens qui demandent de discerner le présent afin de poursuivre, avec un élan renouvelé et avec confiance, le chemin commencé. Les Pères fondateurs et les Responsables étaient bien conscients que, apposant leur signature sur les deux Traités, ils donnaient vie à cette réalité politique, économique, culturelle, mais surtout humaine, que nous appelons aujourd’hui l’Union Européenne. D’autre part, comme le disait le Ministre des Affaires Etrangères belge Spaak, il s’agissait, « c’est vrai, du bien-être matériel de nos peuples, de l’expansion de nos économies, du progrès social, de possibilités industrielles et commerciales totalement nouvelles, mais avant tout […] [d’] une conception de la vie à la mesure de l’homme fraternel et juste »[1]. Après les années sombres et cruelles de la Seconde Guerre Mondiale, les Responsables de l’époque ont eu foi en la possibilité d’un avenir meilleur, ils « n’ont pas manqué d’audace et n’ont pas agi trop tard. Le souvenir de leurs malheurs et peut-être aussi de leurs fautes semble les avoir inspirés, leur a donné le courage nécessaire pour oublier les vieilles querelles, […] penser et agir de manière vraiment nouvelle et pour réaliser la plus grande transformation […] de l’Europe »[2]. Les Pères fondateurs nous rappellent que l’Europe n’est pas un ensemble de règles à observer, elle n’est pas un recueil de protocoles et de procédures à suivre. Elle est une vie, une manière de concevoir l’homme à partir de sa dignité transcendante et inaliénable, et non pas seulement comme un ensemble de droits à défendre, ou de prétentions à revendiquer. A l’origine de l’idée d’Europe il y a « la figure et la responsabilité de la personne humaine avec son ferment de fraternité évangélique, […] avec sa volonté de vérité et de justice aiguisée par une expérience millénaire »[3]. Rome, avec sa vocation à l’universalité[4], est le symbole de cette expérience et pour cette raison fut choisie comme lieu de la signature des Traités, puisque ici – comme le rappela le Ministre des Affaires Etrangères Hollandais Luns – « furent jetées […] les bases politiques, juridiques et sociales de notre civilisation »[5]. S’il fut clair dès le début que le coeur palpitant du projet politique européen ne pouvait qu’être l’homme, le risque que les Traités restent lettre morte fut aussi évident. Ceux-ci devaient être remplis d’esprit vital. Et le premier élément de la vitalité européenne est la solidarité. «La Communauté économique européenne – a affirmé le Premier Ministre luxembourgeois Bech – ne vivra et ne réussira que si, tout au long de son existence, elle reste fidèle à l’esprit de solidarité européenne qui l’a fait naître et si la volonté commune de l’Europe en gestation est plus puissante que les volontés nationales »[6]. Cet esprit est d’autant plus nécessaire aujourd’hui devant les poussées centrifuges comme aussi devant la tentation de réduire les idéaux fondateurs de l’Union aux nécessités productives, économiques et financières. La capacité de s’ouvrir aux autres naît de la solidarité. « Nos plans ne sont pas égoïstes »[7], a dit le Chancelier allemand Adenauer. Le Ministre des Affaires Etrangères français Pineau lui faisait écho: « Sans doute, les pays en s’unissant […] n’entendent pas s’isoler du reste du monde et dresser autour d’eux des barrières infranchissables »[8]. Dans un monde qui connaissait bien le drame des murs et des divisions, l’importance de travailler pour une Europe unie et ouverte était bien claire, ainsi que la volonté commune d’oeuvrer pour supprimer cette barrière artificielle qui, de la Mer Baltique à l’Adriatique divisait le continent. Comme on a peiné pour faire tomber ce mur ! Et cependant aujourd’hui le souvenir de cette peine s’est perdu. S’est perdue aussi la conscience du drame des familles séparées, de la pauvreté et de la misère que cette division avait provoquées. Là où des générations aspiraient à voir tomber les signes d’une inimitié forcée, on se demande maintenant comment laisser au dehors les « dangers » de notre époque : en commençant par la longue file des femmes, hommes et enfants qui fuient la guerre et la pauvreté, qui demandent seulement la possibilité d’un avenir pour soi et pour leurs familles. Dans l’absence de mémoire qui caractérise notre temps, on oublie souvent une autre grande conquête, fruit de la solidarité ratifiée le 25 mars 1957 : le temps de paix le plus long des derniers siècles. Des « peuples qui si souvent au cours des temps se sont trouvés dans des camps opposés, dressés les uns contre les autres sur le champ de bataille, […] se rejoignent et s’unissent à travers la richesse de leur diversité »[9]. La paix se construit toujours avec la participation libre et consciente de chacun. Cependant, « pour beaucoup aujourd’hui la paix semble [être], de quelque manière, un bien établi »[10] et il est ainsi facile de finir par la considérer superflue. Au contraire, la paix est un bien précieux et essentiel puisque sans elle on ne peut construire un avenir pour personne et on finit par “vivre au jour le jour”. L’Europe unie naît, en effet, d’un projet clair, bien défini, correctement réfléchi, bien qu’au début seulement embryonnaire. Tout bon projet regarde vers l’avenir et l’avenir ce sont les jeunes, appelés à réaliser les promesses de l’avenir[11]. Il y avait donc chez les Pères fondateurs la claire conscience de faire partie d’une oeuvre commune qui ne traverse pas seulement les frontières des Etats mais traverse aussi celles du temps de manière à lier les générations entre elles, toutes également participantes de la construction de la maison commune. Honorables hôtes, J’ai consacré cette première partie de mon intervention aux Pères de l’Europe, pour que nous nous laissions provoquer par leurs paroles, par l’actualité de leur pensée, par l’engagement passionné pour le bien commun qui les a caractérisés, par la certitude de faire partie d’une oeuvre plus grande que leurs personnes et par la grandeur de l’idéal qui les animait. Leur dénominateur commun était l’esprit de service, uni à la passion politique et à la conscience qu’ « à l’origine de [cette] civilisation européenne se trouve le christianisme »[12], sans lequel les valeurs occidentales de dignité, de liberté, et de justice deviennent complètement incompréhensibles. « Et encore aujourd’hui – a affirmé saint Jean-Paul II – l’âme de l’Europe demeure unie, parce que, au-delà de ses origines communes, elle vit les mêmes valeurs chrétiennes et humaines, comme celles de la dignité de la personne humaine, du profond sentiment de la justice et de la liberté, du travail, de l’esprit d’initiative, de l’amour de la famille, du respect de la vie, de la tolérance, du désir de coopération et de paix, qui sont les notes qui la caractérisent »[13]. Dans notre monde multiculturel ces valeurs continueront à trouver plein droit de cité si elles savent maintenir leur lien vital avec la racine qui les a fait naître. Dans la fécondité d’un tel lien se trouve la possibilité de construire des sociétés authentiquement laïques, exemptes d’oppositions idéologiques, où trouvent également place le natif et l’autochtone, le croyant et le non croyant. Au cours de ces dernières 60 années le monde a beaucoup changé. Si les Pères fondateurs, qui avaient survécu à un conflit dévastateur, étaient animés par l’espérance d’un avenir meilleur et déterminés par la volonté de le poursuivre, en évitant que surgissent de nouveaux conflits, notre époque est davantage dominée par l’idée de crise. Il y a la crise économique, qui a caractérisé les 10 dernières années, il y a la crise de la famille et des modèles sociaux consolidés, il y a une diffuse “crise des institutions” et la crise des migrants : beaucoup de crises, qui cachent la peur et le désarroi profond de l’homme contemporain, qui demande une nouvelle herméneutique pour l’avenir. Cependant, le terme “crise” n’a pas en soi une connotation négative. Il n’indique pas seulement un mauvais moment à dépasser. Le mot crise a pour origine le verbe grec crino (κρίνω), qui signifie examiner, évaluer, juger. Notre temps est donc un temps de discernement, qui nous invite à évaluer l’essentiel et à construire sur lui : c’est donc un temps de défis et d’opportunités. Quelle est alors l’herméneutique, la clef d’interprétation avec laquelle nous pouvons lire les difficultés du présent et trouver des réponses pour l’avenir ? Le rappel de la pensée des Pères serait, en effet, stérile s’il ne servait pas à nous indiquer un chemin, s’il ne se faisait pas stimulation pour l’avenir et source d’espérance. Tout corps qui perd le sens de son chemin, tout corps à qui vient à manquer ce regard en avant, souffre d’abord d’une régression et finalement risque de mourir. Quel est donc l’héritage des Pères fondateurs ? Quelles perspectives nous indiquent-ils pour affronter les défis qui nous attendent? Quelle espérance pour l’Europe d’aujourd’hui et de demain ? Nous trouvons les réponses précisément dans les piliers sur lesquels ils ont voulu édifier la Communauté économique européenne et que j’ai déjà rappelés : la centralité de l’homme, une solidarité effective, l’ouverture au monde, la poursuite de la paix et du développement, l’ouverture à l’avenir. Il revient à celui qui gouverne de discerner les voies de l’espérance, d’identifier les parcours concrets pour faire en sorte que les pas significatifs accomplis jusqu’ici ne se perdent pas, mais soient le gage d’un long et fructueux chemin. L’Europe retrouve l’espérance lorsque l’homme est le centre et le coeur de ses institutions. J’estime que cela implique l’écoute attentive et confiante des requêtes qui proviennent aussi bien des individus que de la société et des peuples qui composent l’Union. Malheureusement, on a souvent l’impression qu’est en cours un ‘‘décrochage affectif’’ entre les citoyens et les institutions européennes, souvent considérées comme lointaines et pas attentives aux diverses sensibilités qui constituent l’Union. Affirmer la centralité de l’homme signifie aussi retrouver l’esprit de famille, dans lequel chacun contribue librement selon ses propres capacités et talents à [l’édification de] la maison commune. Il est opportun de se souvenir que l’Europe est une famille de peuples[14], que – comme dans chaque famille – il y a des susceptibilités différentes, mais que tous peuvent grandir dans la mesure où on est unis. L’Union Européenne naît comme unité des différences et unité dans les différences. Les particularités ne doivent donc pas effrayer, et on ne peut penser que l’unité soit préservée par l’uniformité. Elle est plutôt l’harmonie d’une communauté. Les Pères fondateurs ont choisi justement ce terme comme le pivot des entités qui naissaient des Traités, en mettant l’accent sur le fait qu’on mettait en commun les ressources et les talents de chacun. Aujourd’hui, l’Union Européenne a besoin de redécouvrir le sens d’être avant tout une ‘‘communauté’’ de personnes et de peuples conscients que « le tout est plus que la partie, et plus aussi que la simple somme de celles-ci »[15] et que donc « il faut toujours élargir le regard pour reconnaître un bien plus grand qui sera bénéfique à tous »[16]. Les Pères fondateurs cherchaient cette harmonie dans laquelle le tout est dans chacune des parties, et les parties sont – chacune avec sa propre originalité – dans le tout. L’Europe retrouve l’espérance dans la solidarité qui est aussi le plus efficace antidote contre les populismes modernes. La solidarité comporte la conscience de faire partie d’un seul corps et en même temps implique la capacité que chaque membre a de ‘‘sympathiser’’ avec l’autre et avec l’ensemble. Si l’un souffre, tous souffrent (cf. 1 Co 12, 26). Ainsi, nous aussi, aujourd’hui, nous pleurons avec le Royaume-Uni les victimes de l’attentat qui a touché Londres il y a deux jours. La solidarité n’est pas une bonne intention : elle est caractérisée par des faits et des gestes concrets, qui rapprochent du prochain, indépendamment de la condition dans laquelle il se trouve. Au contraire, les populismes prospèrent précisément à partir de l’égoïsme, qui enferme dans un cercle restreint et étouffant et qui ne permet pas de surmonter l’étroitesse de ses propres pensées et de ‘‘regarder audelà’’. Il faut recommencer à penser de manière européenne, pour conjurer le danger opposé d’une uniformité grise, c’est-à-dire le triomphe des particularismes. C’est à la politique que revient ce leadership d’idéaux qui évite de se servir des émotions pour gagner le consentement, mais qui élabore plutôt, dans un esprit de solidarité et de subsidiarité, des politiques faisant grandir toute l’Union dans un développement harmonieux, en sorte que celui qui réussit à courir plus vite puisse tendre la main à celui qui va plus lentement et qui a plus de difficultés à atteindre celui qui est en tête. L’Europe retrouve l’espérance lorsqu’elle ne s’enferme pas dans la peur et dans de fausses sécurités. Au contraire, son histoire est fortement déterminée par la rencontre avec d’autres peuples et cultures et son identité « est, et a toujours été, une identité dynamique et multiculturelle »[17]. Le monde nourrit un intérêt pour le projet européen. Cet intérêt existe depuis le premier jour, à travers la foule amassée sur la place du Capitole et à travers les messages de félicitations qui arrivèrent des autres États. Il y en a encore plus aujourd’hui, à partir de ces pays qui demandent à entrer pour faire partie de l’Union, comme de ces États qui reçoivent des aides qui, grâce à une vive générosité, leur sont offertes pour faire face aux conséquences de la pauvreté, des maladies et des guerres. L’ouverture au monde implique la capacité de « dialogue comme forme de rencontre »[18] à tous les niveaux, à commencer par celui des États membres et des Institutions ainsi que des citoyens jusqu’à celui des nombreux immigrés qui abordent les côtes de l’Union. On ne peut pas se contenter de gérer la grave crise migratoire de ces années comme si elle n’était qu’un problème numérique, économique ou de sécurité. La question migratoire pose un problème plus profond, qui est d’abord culturel. Quelle culture propose l’Europe aujourd’hui ? La peur, souvent visible, trouve, en effet, dans la perte d’idéaux sa plus radicale cause. Sans une vraie perspective d’idéaux, on finit par être dominé par la crainte que l’autre nous arrache à nos habitudes consolidées, nous prive des conforts acquis, mette en quelque sorte en cause un style de vie trop souvent fait uniquement de bien-être matériel. Au contraire, la richesse de l’Europe a toujours été son ouverture spirituelle et la capacité à se poser des questions fondamentales sur le sens de l’existence. À l’ouverture envers le sens de l’éternel a correspondu également une ouverture positive, bien que non dénuée de tensions et d’erreurs, envers le monde. Le bien-être acquis semble, par contre, lui avoir rogné les ailes, et fait abaisser le regard. L’Europe a un patrimoine d’idéaux et de spiritualité unique au monde qui mérite d’être proposé à nouveau avec passion et avec une fraîcheur renouvelée et qui est le meilleur antidote contre le vide de valeurs de notre temps, terrain fertile pour toute forme d’extrémisme. Ce sont ces idéaux qui ont rendu Europe, cette ‘‘péninsule de l’Asie’’ qui depuis l’Oural arrive à l’Atlantique. L’Europe retrouve l’espérance lorsqu’elle investit dans le développement et dans la paix. Le développement n’est pas assuré par un ensemble de techniques productives. Il concerne tout l’être humain : la dignité de son travail, des conditions de vie adéquates, la possibilité d’accéder à l’instruction et aux soins médicaux nécessaires. « Le développement est le nouveau nom de la paix »[19], a affirmé Paul VI, puisqu’il n’y a pas de vraie paix lorsqu’il y a des personnes marginalisées et contraintes à vivre dans la misère. Il n’y a pas de paix là où manquent le travail et la perspective d’un salaire digne. Il n’y a pas de paix dans les périphéries de nos villes, où se répandent drogue et violence. L’Europe retrouve l’espérance lorsqu’elle s’ouvre à l’avenir. Lorsqu’elle s’ouvre aux jeunes, en leur offrant de sérieuses perspectives d’éducation, de réelles possibilités d’insertion dans le monde du travail. Lorsqu’elle investit dans la famille, qui est la première et fondamentale cellule de la société. Lorsqu’elle respecte la conscience et les idéaux de ses citoyens. Lorsqu’elle garantit la possibilité d’avoir des enfants, sans la peur de ne pas pouvoir les entretenir. Lorsqu’elle défend la vie dans toute sa sacralité. Honorables hôtes, Vu l’allongement général de l’espérance de vie, soixante ans sont aujourd’hui considérés comme le temps de la pleine maturité. Un âge crucial où encore une fois on est appelé à se remettre en cause. L’Union Européenne est aujourd’hui appelée à se remettre en cause, à soigner les inévitables ennuis de santé qui surviennent avec les années et à trouver de nouveaux parcours pour poursuivre son chemin. Cependant, à la différence d’un être humain de soixante ans, l’Union Européenne n’a pas devant elle une vieillesse inévitable, mais la possibilité d’une nouvelle jeunesse. Son succès dépendra de la volonté de travailler une fois encore ensemble et de la volonté de parier sur l’avenir. Il vous reviendra, en tant que dirigeants, de discerner la voie d’un « nouvel humanisme européen »[20], fait d’idéaux et de choses concrètes. Cela signifie ne pas avoir peur de prendre des décisions efficaces, en mesure de répondre aux problèmes réels des personnes et de résister à l’épreuve du temps. De mon côté, je ne peux qu’assurer de la proximité du Saint-Siège et de l’Église à l’Europe entière, à l’édification de laquelle elle a depuis toujours contribué et contribuera toujours, en invoquant sur elle la bénédiction du Seigneur, afin qu’il la protège et lui donne la paix et le progrès. C’est pourquoi, je fais miennes les paroles que Joseph Bech a prononcées au Capitole : Ceterum censeo Europam esse ædificandam, d’ailleurs je pense que l’Europe mérite d’être construite. Merci!
Franciscus pp.
***
[1] P.H. Spaak, Ministre des Affaires Etrangères de la Belgique, Discours prononcé à l’occasion de la signature des Traités de Rome, 25 mars 1957. 
[2] P.H. Spaak, Discours, cit. 
[3] A. de Gasperi, Notre patrie l’Europe. Discours à la Conférence Parlementaire Européenne, 21 avril 1954, in : Alcide De Gasperi e la politica internazionale, Cinque Lune, Roma 1990, vol.III, 437-440. 
[4] Cf. P.H. Spaak, Discours, cit. 
[5] J. Luns, Ministre des Affaires Etrangères des Pays Bas, Discours prononcé à l’occasion de la signature des Traités de Rome, 25 mars 1957. 
[6] J. Bech, Premier Ministre du Luxembourg, Discours prononcé à l’occasion de la signature des Traités de Rome, 25 mars 1957. 
[7] K. Adenauer, Chancelier fédéral de la République Fédérale d’Allemagne, Discours prononcé à l’occasion de la signature des Traités de Rome, 25 mars 1957. 
[8] C. Pineau, Ministre des Affaires Etrangères de la France, Discours prononcé à l’occasion de la signature des Traités de Rome, 25 mars 19857. 
[9] P.H. Spaak, Discours, cit. 
[10] Discours aux membres du Corps Diplomatique accrédité près le Saint-Siège, 9 janvier 2017. 
[11] Cf. P.H. Spaak, Discours, cit. 
[12] A. de Gasperi, Notre Patrie Europe, cit. 
[13] Jean-Paul II, Acte européen, Saint Jacques de Compostelle, 9 novembre 1982: AAS 75/I (1983), 329. 
[14] Cf. Discours au Parlement Européen, Strasbourg, 25 novembre 2014 : AAS 106 (2014), 1000 
[15] Exhort. ap. Evangelii gaudium, n. 235 
[16] Ibid. 
[17] Discours lors de la remise du Prix Charlemagne, 6 mai 2016, Osservatore Ramano Édition française (12 mai 2016), p. 10. 
[18] Exhort. ap. Evangelii gaudium, n. 239. 
[19] Paul VI, Lett.enc. Populorum progressio, 26 mars 1967, n. 87 : AAS 59 (1967), p. 299. 
[20] Discours lors de la remise du Prix Charlemagne, 6 mai 2016. Osservatore Romano, Edition française (12 mai 2016), p. 10. 
Testo in lingua inglese  
Distinguished Guests, I thank you for your presence here tonight, on the eve of the sixtieth anniversary of the signing of the Treaties instituting the European Economic Community and the European Atomic Energy Community. I convey to each of you the affection of the Holy See for your respective countries and for Europe itself, to whose future it is, in God’s providence, inseparably linked. I am particularly grateful to the Honourable Paolo Gentiloni, President of the Council of Ministers of the Republic of Italy, for his respectful words of greeting in your name and for the efforts that Italy has made in preparing for this meeting. I also thank the Honourable Antonio Tajani, President of the European Parliament, who has voiced the aspirations of the peoples of the Union on this anniversary. Returning to Rome, sixty years later, must not simply be a remembrance of things past, but the expression of a desire to relive that event in order to appreciate its significance for the present. We need to immerse ourselves in the challenges of that time, so as to face those of today and tomorrow. The Bible, with its rich historical narratives, can teach us a basic lesson. We cannot understand our own times apart from the past, seen not as an assemblage of distant facts, but as the lymph that gives life to the present. Without such an awareness, reality loses its unity, history loses its logical thread, and humanity loses a sense of the meaning of its activity and its progress towards the future. 25 March 1957 was a day full of hope and expectation, enthusiasm and apprehension. Only an event of exceptional significance and historical consequences could make it unique in history. The memory of that day is linked to today’s hopes and the expectations of the people of Europe, who call for discernment in the present, so that the journey that has begun can continue with renewed enthusiasm and confidence. This was very clear to the founding fathers and the leaders who, by signing the two Treaties, gave life to that political, economic, cultural and primarily human reality which today we call the European Union. As P.H. Spaak, the Belgian Minister of Foreign Affairs stated, it was a matter “indeed, of the material prosperity of our peoples, the expansion of our economies, social progress and completely new industrial and commercial possibilities, but above all… a particular conception of life that is humane, fraternal and just”. [1] After the dark years and the bloodshed of the Second World War, the leaders of the time had faith in the possibility of a better future. “They did not lack boldness, nor did they act too late. The memory of recent tragedies and failures seems to have inspired them and given them the courage needed to leave behind their old disputes and to think and act in a truly new way, in order to bring about the greatest transformation… of Europe”. [2] The founding fathers remind us that Europe is not a conglomeration of rules to obey, or a manual of protocols and procedures to follow. It is a way of life, a way of understanding man based on his transcendent and inalienable dignity, as something more than simply a sum of rights to defend or claims to advance. At the origin of the idea of Europe, we find “the nature and the responsibility of the human person, with his ferment of evangelical fraternity…, with his desire for truth and justice, honed by a thousand-year-old experience”. [3] Rome, with its vocation to universality, [4] symbolizes that experience and was thus chosen as the place for the signing of the Treaties. For here – as the Dutch Minister of Foreign Affairs, J. Luns, observed – “were laid the political, juridical and social foundations of our civilization”. [5] It was clear, then, from the outset, that the heart of the European political project could only be man himself. It was also clear that the Treaties could remain a dead letter; they needed to take on spirit and life. The first element of European vitality must be solidarity. As the Prime Minister of Luxembourg, J. Bech stated, “the European economic community will prove lasting and successful only if it remains constantly faithful to the spirit of European solidarity that created it, and if the common will of the Europe now being born proves more powerful than the will of individual nations”. [6] That spirit remains as necessary as ever today, in the face of centrifugal impulses and the temptation to reduce the founding ideals of the Union to productive, economic and financial needs. Solidarity gives rise to openness towards others. “Our plans are not inspired by selfinterest”, [7] said the German Chancellor, K. Adenauer. The French Minister of Foreign Affairs, C. Pineau, echoed this sentiment: “Surely the countries about to unite… do not have the intention of isolating themselves from the rest of the world and surrounding themselves with insurmountable barriers”. [8] In a world that was all too familiar with the tragedy of walls and divisions, it was clearly important to work for a united and open Europe, and for the removal of the unnatural barrier that divided the continent from the Baltic Sea to the Adriatic. What efforts were made to tear down that wall! Yet today the memory of those efforts has been lost. Forgotten too is the tragedy of separated families, poverty and destitution born of that division. Where generations longed to see the fall of those signs of forced hostility, these days we debate how to keep out the “dangers” of our time: beginning with the long file of women, men and children fleeing war and poverty, seeking only a future for themselves and their loved ones. In today’s lapse of memory, we often forget another great achievement of the solidarity ratified on 25 March 1957: the longest period of peace experienced in recent centuries. “Peoples who over time often found themselves in opposed camps, fighting with one another… now find themselves united and enriched by their distinctive national identities”. [9] Peace is always the fruit of a free and conscious contribution by all. Nonetheless, “for many people today, peace appears as a blessing to be taken for granted”, [10] one that can then easily come to be regarded as superfluous. On the contrary, peace is a precious and essential good, for without it, we cannot build a future for anyone, and we end up “living from day to day”. United Europe was born of a clear, well-defined and carefully pondered project, however embryonic at first. Every worthy project looks to the future, and the future are the young, who are called to realize its hopes and promises. [11] The founding fathers had a clear sense of being part of a common effort that not only crossed national borders, but also the borders of time, so as to bind generations among themselves, all sharing equally in the building of the common home. Distinguished Guests, I have devoted this first part of my talk to the founding fathers of Europe, so that we can be challenged by their words, the timeliness of their thinking, their impassioned pursuit of the common good, their certainty of sharing in a work greater than themselves, and the breadth of the ideals that inspired them. Their common denominator was the spirit of service, joined to passion for politics and the consciousness that “at the origin of European civilization there is Christianity”, [12] without which the Western values of dignity, freedom and justice would prove largely incomprehensible. As Saint John Paul II affirmed: “Today too, the soul of Europe remains united, because, in addition to its common origins, those same Christian and human values are still alive. Respect for the dignity of the human person, a profound sense of justice, freedom, industriousness, the spirit of initiative, love of family, respect for life, tolerance, the desire for cooperation and peace: all these are its distinctive marks”. [13] In our multicultural world, these values will continue to have their rightful place provided they maintain a vital connection to their deepest roots. The fruitfulness of that connection will make it possible to build authentically “lay” societies, free of ideological conflicts, with equal room for the native and the immigrant, for believers and nonbelievers. The world has changed greatly in the last sixty years. If the founding fathers, after surviving a devastating conflict, were inspired by the hope of a better future and were determined to pursue it by avoiding the rise of new conflicts, our time is dominated more by the concept of crisis. There is the economic crisis that has marked the past decade; there is the crisis of the family and of established social models; there is a widespread “crisis of institutions” and the migration crisis. So many crises that engender fear and profound confusion in our contemporaries, who look for a new way of envisioning the future. Yet the term “crisis” is not necessarily negative. It does not simply indicate a painful moment to be endured. The word “crisis” has its origin in the Greek verb kríno, which means to discern, to weigh, to assess. Ours is a time of discernment, one that invites us to determine what is essential and to build on it. It is a time of challenge and opportunity. So what is the interpretative key for reading the difficulties of the present and finding answers for the future? Returning to the thinking of the founding Fathers would be fruitless unless it could help to point out a path and provide an incentive for facing the future and a source of hope. When a body loses its sense of direction and is no longer able to look ahead, it experiences a regression and, in the long run, risks dying. What, then, is the legacy of the founding fathers? What prospects do they indicate for surmounting the challenges that lie before us? What hope do they offer for the Europe of today and of tomorrow? Their answers are to be found precisely in the pillars on which they determined to build the European economic community. I have already mentioned these: the centrality of man, effective solidarity, openness to the world, the pursuit of peace and development, openness to the future. Those who govern are charged with discerning the paths of hope, identifying specific ways forward to ensure that the significant steps taken thus far have not been wasted, but serve as the pledge of a long and fruitful journey. Europe finds new hope when man is the centre and the heart of her institutions. I am convinced that this entails an attentive and trust-filled readiness to hear the expectations voiced by individuals, society and the peoples who make up the Union. Sadly, one frequently has the sense that there is a growing “split” between the citizenry and the European institutions, which are often perceived as distant and inattentive to the different sensibilities present in the Union. Affirming the centrality of man also means recovering the spirit of family, whereby each contributes freely to the common home in accordance with his or her own abilities and gifts. It helps to keep in mind that Europe is a family of peoples [14] and that – as in every good family – there are different sensitivities, yet all can grow to the extent that all are united. The European Union was born as a unity of differences and a unity in differences. What is distinctive should not be a reason for fear, nor should it be thought that unity is preserved by uniformity. Unity is instead harmony within a community. The founding fathers chose that very term as the hallmark of the agencies born of the Treaties and they stressed that the resources and talents of each were now being pooled. Today the European Union needs to recover the sense of being primarily a “community” of persons and peoples, to realize that “the whole is greater than the part, but it is also greater than the sum of its parts”, [15] and that therefore “we constantly have to broaden our horizons and see the greater good which will benefit us all”. [16] The founding fathers sought that harmony in which the whole is present in every one of the parts, and the parts are – each in its own unique way – present in the whole. Europe finds new hope in solidarity, which is also the most effective antidote to modern forms of populism. Solidarity entails the awareness of being part of a single body, while at the same time involving a capacity on the part of each member to “sympathize” with others and with the whole. When one suffers, all suffer (cf. 1 Cor 12:26). Today, with the United Kingdom, we mourn the victims of the attack that took place in London two days ago. For solidarity is no mere ideal; it is expressed in concrete actions and steps that draw us closer to our neighbours, in whatever situation they find themselves. Forms of populism are instead the fruit of an egotism that hems people in and prevents them from overcoming and “looking beyond” their own narrow vision. There is a need to start thinking once again as Europeans, so as to avert the opposite dangers of a dreary uniformity or the triumph of particularisms. Politics needs this kind of leadership, which avoids appealing to emotions to gain consent, but instead, in a spirit of solidarity and subsidiarity, devises policies that can make the Union as a whole develop harmoniously. As a result, those who run faster can offer a hand to those who are slower, and those who find the going harder can aim at catching up to those at the head of the line. Europe finds new hope when she refuses to yield to fear or close herself off in false forms of security. Quite the contrary, her history has been greatly determined by encounters with other peoples and cultures; hers “is, and always has been, a dynamic and multicultural identity”. [17] The world looks to the European project with great interest. This was the case from the first day, when crowds gathered in Rome’s Capitol Square and messages of congratulation poured in from other states. It is even more the case today, if we think of those countries that have asked to become part of the Union and those states that receive the aid so generously offered them for battling the effects of poverty, disease and war. Openness to the world implies the capacity for “dialogue as a form of encounter” [18] on all levels, beginning with dialogue between member states, between institutions and citizens, and with the numerous immigrants landing on the shores of the Union. It is not enough to handle the grave crisis of immigration of recent years as if it were a mere numerical or economic problem, or a question of security. The immigration issue poses a deeper question, one that is primarily cultural. What kind of culture does Europe propose today? The fearfulness that is becoming more and more evident has its root cause in the loss of ideals. Without an approach inspired by those ideals, we end up dominated by the fear that others will wrench us from our usual habits, deprive us of familiar comforts, and somehow call into question a lifestyle that all too often consists of material prosperity alone. Yet the richness of Europe has always been her spiritual openness and her capacity to raise basic questions about the meaning of life. Openness to the sense of the eternal has also gone hand in hand, albeit not without tensions and errors, with a positive openness to this world. Yet today’s prosperity seems to have clipped the continent’s wings and lowered its gaze. Europe has a patrimony of ideals and spiritual values unique in the world, one that deserves to be proposed once more with passion and renewed vigour, for it is the best antidote against the vacuum of values of our time, which provides a fertile terrain for every form of extremism. These are the ideals that shaped Europe, that “Peninsula of Asia” which stretches from the Urals to the Atlantic. Europe finds new hope when she invests in development and in peace. Development is not the result of a combination of various systems of production. It has to do with the whole human being: the dignity of labour, decent living conditions, access to education and necessary medical care. “Development is the new name of peace”, [19] said Pope Paul VI, for there is no true peace whenever people are cast aside or forced to live in dire poverty. There is no peace without employment and the prospect of earning a dignified wage. There is no peace in the peripheries of our cities, with their rampant drug abuse and violence. Europe finds new hope when she is open to the future. When she is open to young people, offering them serious prospects for education and real possibilities for entering the work force.When she invests in the family, which is the first and fundamental cell of society. When she respects the consciences and the ideals of her citizens. When she makes it possible to have children without the fear of being unable to support them. When she defends life in all its sacredness. Distinguished Guests, Nowadays, with the general increase in people’s life span, sixty is considered the age of full maturity, a critical time when we are once again called to self-examination. The European Union, too, is called today to examine itself, to care for the ailments that inevitably come with age, and to find new ways to steer its course. Yet unlike human beings, the European Union does not face an inevitable old age, but the possibility of a new youthfulness. Its success will depend on its readiness to work together once again, and by its willingness to wager on the future. As leaders, you are called to blaze the path of a “new European humanism” [20] made up of ideals and concrete actions. This will mean being unafraid to take practical decisions capable of meeting people’s real problems and of standing the test of time. For my part, I readily assure you of the closeness of the Holy See and the Church to Europe as a whole, to whose growth she has, and always will, continue to contribute. Invoking upon Europe the Lord’s blessings, I ask him to protect her and grant her peace and progress. I make my own the words that Joseph Bech proclaimed on Rome’s Capitoline Hill: Ceterum censeo Europam esse aedificandam – furthermore, I believe that Europe ought to be built. Thank you.
Franciscus pp. 
***
[1] P.H. SPAAK, Address on the Signing of the Treaties of Rome, 25 March 1957. 
[2] Ibid. 
[3] A. DE GASPERI. La nostra patria Europa. Address to the European Parliamentary Conference, 21 April 1954, in Alcide De Gasperi e la politica internazionale, Cinque Lune, Rome, 1990, vol. III, 437-440. 
[4] Cf. P.H. SPAAK, loc. cit. 
[5] J. LUNS, Address on the Signing of the Treaties of Rome, 25 March 1957. 
[6] J. BECH, Address on the Signing of the Treaties of Rome, 25 March 1957. 
[7] K. ADENAUER, Address on the Signing of the Treaties of Rome, 25 March 1957. 
[8] C. PINEAU, Address on the Signing of the Treaties of Rome, 25 March 1957. [9] P.H. SPAAK, loc. cit. 
[10] Address to Members of the Diplomatic Corps Accredited to the Holy See, 9 January 2017. 
[11] Cf. P.H. SPAAK, loc. cit. 
[12] A. DE GASPERI, loc. cit. 
[13] JOHN PAUL II, European Act, Santiago de Compostela, 9 November 1982: AAS 75/1 (1983), 329. 
[14] Cf. Address to the European Parliament, Strasbourg, 25 November 2014: AAS 106 (2014), 1000. 
[15] Apostolic Exhortation Evangelii Gaudium, 235. 
[16] Ibid. 
[17] Address at the Conferral of the Charlemagne Prize, 6 May 2016: L’Osservatore Romano, 6-7 May 2016, p. 4. 
[18] Apostolic Exhortation Evangelii Gaudium, 239. 
[19] PAUL VI, Encyclical Letter Populorum Progressio, 26 March 1967, 87: AAS 59 (1967), 299.
[20] Address at the Conferral of the Charlemagne Prize, loc. cit., p. 5. 
Testo in lingua spagnola 
Distinguidos invitados: Les doy las gracias por su presencia aquí esta tarde, en la víspera del 60 aniversario de la firma de los Tratados constitutivos de la Comunidad Económica Europea y la Comunidad Europea de la Energía Atómica. Quiero manifestarles el afecto de la Santa Sede hacia sus respectivos países y al conjunto de Europa, y a cuyos destinos, por disposición de la Providencia, se siente inseparablemente unida. Dirijo un especial agradecimiento al Honorable Paolo Gentiloni, Presidente del Consejo de Ministros de la República Italiana, por las deferentes palabras que ha pronunciado en nombre de todos y por el trabajo que Italia ha realizado para organizar este encuentro; así como al Honorable Antonio Tajani, Presidente del Parlamento Europeo, que ha dado voz a las esperanzas de los pueblos de la Unión en este aniversario. Volver a Roma sesenta años más tarde no puede ser sólo un viaje al pasado, sino más bien el deseo de redescubrir la memoria viva de ese evento para comprender su importancia en el presente. Es necesario conocer bien los desafíos de entonces para hacer frente a los de hoy y a los del futuro. Con sus narraciones, llenas de evocaciones, la Biblia nos ofrece un método pedagógico fundamental: la época en que vivimos no se puede entender sin el pasado, el cual no hay que considerarlo como un conjunto de sucesos lejanos, sino como la savia vital que irriga el presente. Sin esa conciencia la realidad pierde su unidad, la historia su hilo lógico y la humanidad pierde el sentido de sus actos y la dirección de su futuro. El 25 de marzo de 1957 fue un día cargado de expectación y esperanzas, entusiasmos y emociones, y sólo un acontecimiento excepcional, por su alcance y sus consecuencias históricas, pudo hacer que fuera una fecha única en la historia. El recuerdo de ese día está unido a las esperanzas actuales y a las expectativas de los pueblos europeos que piden discernir el presente para continuar con renovado vigor y confianza el camino comenzado. Eran muy conscientes de ello los Padres fundadores y los líderes que, poniendo su firma en los dos Tratados, dieron vida a aquella realidad política, económica, cultural, pero sobre todo humana, que hoy llamamos la Unión Europea. Por otro lado, como dijo el Ministro de Asuntos Exteriores belga Spaak, se trataba, «es cierto, del bienestar material de nuestros pueblos, de la expansión de nuestras economías, del progreso social, de posibilidades comerciales e industriales totalmente nuevas, pero sobre todo (...) [de] una concepción de la vida a medida del hombre, fraterna y justa».[1] Después de los años oscuros y sangrientos de la Segunda Guerra Mundial, los líderes de la época tuvieron fe en las posibilidades de un futuro mejor, «no pecaron de falta de audacia y no actuaron demasiado tarde. El recuerdo de las desgracias del pasado y de sus propias culpas parece que les ha inspirado y les ha dado el valor para olvidar viejos enfrentamientos y pensar y actuar de una manera totalmente nueva para lograr la más importante transformación [...] de Europa».[2] Los Padres fundadores nos recuerdan que Europa no es un conjunto de normas que cumplir, o un manual de protocolos y procedimientos que seguir. Es una vida, una manera de concebir al hombre a partir de su dignidad trascendente e inalienable y no sólo como un conjunto de derechos que hay que defender o de pretensiones que reclamar. El origen de la idea de Europa es «la figura y la responsabilidad de la persona humana con su fermento de fraternidad evangélica, [...] con su deseo de verdad y de justicia que se ha aquilatado a través de una experiencia milenaria».[3] Roma, con su vocación de universalidad,[4] es el símbolo de esa experiencia y por eso fue elegida como el lugar de la firma de los Tratados, porque aquí –recordó el Ministro holandés de Asuntos Exteriores Luns– «se sentaron las bases políticas, jurídicas y sociales de nuestra civilización».[5] Si estaba claro desde el principio que el corazón palpitante del proyecto político europeo sólo podía ser el hombre, también era evidente el peligro de que los Tratados quedaran en letra muerta. Había que llenarlos de espíritu que les diese vida. Y el primer elemento de la vitalidad europea es la solidaridad. «La Comunidad Económica Europea –declaró el Primer Ministro de Luxemburgo Bech– sólo vivirá y tendrá éxito si, durante su existencia, se mantendrá fiel al espíritu de solidaridad europea que la creó y si la voluntad común de la Europa en gestación es más fuerte que las voluntades nacionales».[6] Ese espíritu es especialmente necesario ahora, para hacer frente a las fuerzas centrífugas, así como a la tentación de reducir los ideales fundacionales de la Unión a las exigencias productivas, económicas y financieras. De la solidaridad nace la capacidad de abrirse a los demás. «Nuestros planes no son de tipo egoísta»,[7] dijo el Canciller alemán Adenauer. «Sin duda, los países que se van a unir (...) no tienen intención de aislarse del resto del mundo y erigir a su alrededor barreras infranqueables»,[8] se hizo eco el Ministro de Asuntos Exteriores francés Pineau. En un mundo que conocía bien el drama de los muros y de las divisiones, se tenía muy clara la importancia de trabajar por una Europa unida y abierta, y de esforzarse todos juntos por eliminar esa barrera artificial que, desde el Mar Báltico hasta el Adriático, dividía el Continente. ¡Cuánto se ha luchado para derribar ese muro! Sin embargo, hoy se ha perdido la memoria de ese esfuerzo. Se ha perdido también la conciencia del drama de las familias separadas, de la pobreza y la miseria que provocó aquella división. Allí donde desde generaciones se aspiraba a ver caer los signos de una enemistad forzada, ahora se discute sobre cómo dejar fuera los «peligros» de nuestro tiempo: comenzando por la larga columna de mujeres, hombres y niños que huyen de la guerra y la pobreza, que sólo piden tener la posibilidad de un futuro para ellos y sus seres queridos. En el vacío de memoria que caracteriza a nuestros días, a menudo se olvida también otra gran conquista fruto de la solidaridad sancionada el 25 de marzo de 1957: el tiempo de paz más largo de los últimos siglos. «Pueblos que a lo largo de los años se han encontrado con frecuencia en frentes opuestos, combatiendo unos contra otros, (...) ahora, sin embargo, están unidos por la riqueza de sus peculiaridades nacionales».[9] La paz se construye siempre con la aportación libre y consciente de cada uno. Sin embargo, «para muchos la paz es de alguna manera un bien que se da por descontado»[10] y así no es difícil que se acabe por considerarla superflua. Por el contrario, la paz es un bien valioso y esencial, ya que sin ella no es posible construir un futuro para nadie, y se termine por «vivir al día». La unidad de Europa es fruto, en efecto, de un proyecto claro, bien definido, debidamente ponderado, si bien al principio todavía muy incipiente. Todo buen proyecto mira hacia el futuro y el futuro son los jóvenes, llamados a hacer realidad las promesas del mañana.[11] Los Padres fundadores, por tanto, tenían clara la conciencia de formar parte de una empresa colectiva, que no sólo traspasaba las fronteras de los Estados, sino también las del tiempo, a fin de unir a las generaciones entre sí, todas igualmente partícipes en la construcción de la casa común. Distinguidos invitados: A los Padres de Europa he dedicado esta primera parte de mi intervención, para que nos dejemos interpelar por sus palabras, por la actualidad de su pensamiento, por el apasionado compromiso en favor del bien común que los ha caracterizado, por la convicción de formar parte de una obra más grande que sus propias personas y por la amplitud del ideal que los animaba. Su denominador común era el espíritu de servicio, unido a la pasión política, y a la conciencia de que «en el origen de la civilización europea se encuentra el cristianismo»,[12] sin el cual los valores occidentales de la dignidad, libertad y justicia resultan incomprensibles. «Y todavía en nuestros días ―afirmaba san Juan Pablo II― el alma de Europa permanece unida porque, además de su origen común, tiene idénticos valores cristianos y humanos, como son los de la dignidad de la persona humana, del profundo sentimiento de justicia y libertad, de laboriosidad, de espíritu de iniciativa, de amor a la familia, de respeto a la vida, de tolerancia y de deseo de cooperación y de paz, que son notas que la caracterizan».[13] En nuestro mundo multicultural tales valores seguirán teniendo plena ciudadanía si saben mantener su nexo vital con la raíz que los engendró. En la fecundidad de tal nexo está la posibilidad de edificar sociedades auténticamente laicas, sin contraposiciones ideológicas, en las que encuentran igualmente su lugar el oriundo, el autóctono, el creyente y el no creyente. En los últimos sesenta años el mundo ha cambiado mucho. Si los Padres fundadores, que habían sobrevivido a un conflicto devastador, estaban animados por la esperanza de un futuro mejor y con una voluntad firme lo perseguían, para evitar que surgieran nuevos conflictos, nuestra época está más dominada por el concepto de crisis. Está la crisis económica, que ha marcado el último decenio, la crisis de la familia y de los modelos sociales consolidados, está la difundida «crisis de las instituciones» y la crisis de los emigrantes: tantas crisis, que esconden el miedo y la profunda desorientación del hombre contemporáneo, que exigen una nueva hermenéutica para el futuro. A pesar de todo, el término «crisis» no tiene por sí mismo una connotación negativa. No se refiere solamente a un mal momento que hay que superar. La palabra crisis tiene su origen en el verbo griego crino (κρίνω), que significa investigar, valorar, juzgar. Por esto, nuestro tiempo es un tiempo de discernimiento, que nos invita a valorar lo esencial y a construir sobre ello; es, por lo tanto, un tiempo de desafíos y de oportunidades. Entonces, ¿cuál es la hermenéutica, la clave interpretativa con la que podemos leer las dificultades del momento presente y encontrar respuestas para el futuro? Evocar las ideas de los Padres sería en efecto estéril si no sirviera para indicarnos un camino, si no se convirtiera en estímulo para el futuro y en fuente de esperanza. Cada organismo que pierde el sentido de su camino, que pierde este mirar hacia delante, sufre primero una involución y al final corre el riesgo de morir. ¿Cuál es la herencia de los Padres fundadores? ¿Qué prospectivas nos indican para afrontar los desafíos que nos aguardan? ¿Qué esperanza para la Europa de hoy y de mañana? La respuesta la encontramos precisamente en los pilares sobre los que ellos han querido edificar la Comunidad económica europea y que ya he mencionado: la centralidad del hombre, una solidaridad eficaz, la apertura al mundo, la búsqueda de la paz y el desarrollo, la apertura al futuro. A quien gobierna le corresponde discernir los caminos de la esperanza, identificar los procesos concretos para hacer que los pasos realizados hasta ahora no se dispersen, sino que aseguren un camino largo y fecundo. Europa encuentra de nuevo esperanza cada vez que pone al hombre en el centro y en el corazón de las instituciones. Considero que esto implica la escucha atenta y confiada de las instancias que provienen tanto de los individuos como de la sociedad y de los pueblos que componen la Unión. Desgraciadamente, a menudo se tiene la sensación de que se está produciendo una «separación afectiva» entre los ciudadanos y las Instituciones europeas, con frecuencia percibidas como lejanas y no atentas a las distintas sensibilidades que constituyen la Unión. Afirmar la centralidad del hombre significa también encontrar el espíritu de familia, con el que cada uno contribuye libremente, según las propias capacidades y dones, a la casa común. Es oportuno tener presente que Europa es una familia de pueblos[14] y, como en toda buena familia, existen susceptibilidades diferentes, pero todos podrán crecer en la medida en que estén unidos. La Unión Europea nace como unidad de las diferencias y unidad en las diferencias. Por eso las peculiaridades no deben asustar, ni se puede pensar que la unidad se preserva con la uniformidad. Esa unidad es más bien la armonía de una comunidad. Los padres fundadores escogieron precisamente este término como punto central de las entidades que nacían de los Tratados, acentuando el hecho de que se ponían en común los recursos y los talentos de cada uno. Hoy la Unión Europea tiene necesidad de redescubrir el sentido de ser ante todo «comunidad» de personas y de pueblos, consciente de que «el todo es más que la parte, y también es más que la mera suma de ellas»,[15] y por lo tanto «hay que ampliar la mirada para reconocer un bien mayor que nos beneficiará a todos»[16]. Los Padres fundadores buscaban aquella armonía en la que el todo está en cada una de las partes, y las partes están ―cada una con su originalidad― en el todo. Europa vuelve a encontrar esperanza en la solidaridad, que es también el antídoto más eficaz contra los modernos populismos. La solidaridad comporta la conciencia de formar parte de un solo cuerpo, y al mismo tiempo implica la capacidad que cada uno de los miembros tiene para «simpatizar» con el otro y con el todo. Si uno sufre, todos sufren (cf. 1 Co 12,26). Por eso, hoy también nosotros lloramos con el Reino Unido por las víctimas del atentado que ha golpeado en Londres hace dos días. La solidaridad no es sólo un buen propósito: está compuesta de hechos y gestos concretos que acercan al prójimo, sea cual sea la condición en la que se encuentre. Los populismos, al contrario, florecen precisamente por el egoísmo, que nos encierra en un círculo estrecho y asfixiante y no nos permite superar la estrechez de los propios pensamientos ni «mirar más allá». Es necesario volver a pensar en modo europeo, para conjurar el peligro de una gris uniformidad o, lo que es lo mismo, el triunfo de los particularismos. A la política le corresponde esa leadership ideal, que evite usar las emociones para ganar el consenso, para elaborar en cambio, con espíritu de solidaridad y subsidiaridad, políticas que hagan crecer a toda la Unión en un desarrollo armónico, de modo que el que corre más deprisa tienda la mano al que va más despacio, y el que tiene dificultad se esfuerce para alcanzar al que está en cabeza. Europa vuelve a encontrar esperanza cuando no se encierra en el miedo de las falsas seguridades. Por el contrario, su historia está fuertemente marcada por el encuentro con otros pueblos y culturas, y su identidad «es, y siempre ha sido, una identidad dinámica y multicultural».[17] En el mundo hay interés por el proyecto europeo. Así ha sido desde el primer momento, como demuestra la multitud que abarrotaba la plaza del Campidoglio y los mensajes de felicitación que llegaban de otros Estados. Aún más interés hay hoy, empezando por los Países que piden entrar a formar parte de la Unión, como también de los Estados que reciben las ayudas que, con gran generosidad, se les ofrecen para afrontar las consecuencias de la pobreza, de las enfermedades y las guerras. La apertura al mundo implica la capacidad de «diálogo como forma de encuentro»[18] a todos los niveles, comenzando por el que existe entre los Estados miembros y entre las Instituciones y los ciudadanos, hasta el que se tiene con los muchos inmigrantes que llegan a las costas de la Unión. No se puede limitar a gestionar la grave crisis migratoria de estos años como si fuera sólo un problema numérico, económico o de seguridad. La cuestión migratoria plantea una pregunta más profunda, que es sobre todo cultural. ¿Qué cultura propone la Europa de hoy? El miedo que se advierte encuentra a menudo su causa más profunda en la pérdida de ideales. Sin una verdadera perspectiva de ideales, se acaba siendo dominado por el temor de que el otro nos cambie nuestras costumbres arraigadas, nos prive de las comodidades adquiridas, ponga de alguna manera en discusión un estilo de vida basado sólo con frecuencia en el bienestar material. Por el contrario, la riqueza de Europa ha sido siempre su apertura espiritual y la capacidad de platearse cuestiones fundamentales sobre el sentido de la existencia. La apertura hacia el sentido de lo eterno va unida también a una apertura positiva, aunque no exenta de tensiones y de errores, hacia el mundo. En cambio, parece como si el bienestar conseguido le hubiera recortado las alas, y le hubiera hecho bajar la mirada. Europa tiene un patrimonio moral y espiritual único en el mundo, que merece ser propuesto una vez más con pasión y renovada vitalidad, y que es el mejor antídoto contra la falta de valores de nuestro tiempo, terreno fértil para toda forma de extremismo. Estos son los ideales que han hecho a Europa, la «península de Asia» que de los Urales llega hasta el Atlántico. Europa vuelve a encontrar esperanza cuando invierte en el desarrollo y en la paz. El desarrollo no es el resultado de un conjunto de técnicas productivas, sino que abarca a todo el ser humano: la dignidad de su trabajo, condiciones de vida adecuadas, la posibilidad de acceder a la enseñanza y a los necesarios cuidados médicos. «El desarrollo es el nuevo nombre de la paz»,[19] afirmaba Pablo VI, puesto que no existe verdadera paz cuando hay personas marginadas y forzadas a vivir en la miseria. No hay paz allí donde falta el trabajo o la expectativa de un salario digno. No hay paz en las periferias de nuestras ciudades, donde abunda la droga y la violencia. Europa vuelve a encontrar esperanza cuando se abre al futuro. Cuando se abre a los jóvenes, ofreciéndoles perspectivas serias de educación, posibilidades reales de inserción en el mundo del trabajo. Cuando invierte en la familia, que es la primera y fundamental célula de la sociedad. Cuando respeta la conciencia y los ideales de sus ciudadanos. Cuando garantiza la posibilidad de tener hijos, con la seguridad de poderlos mantener. Cuando defiende la vida con toda su sacralidad. Distinguidos invitados: Con el aumento general de la esperanza de vida, los sesenta años se consideran hoy como el tiempo de la plena madurez. Una edad crucial en la que estamos llamados de nuevo a revisarnos. También hoy, La Unión Europea está llamada a un replanteamiento, a curar los inevitables achaques que vienen con los años y a encontrar nuevas vías para continuar su propio camino. Sin embargo, a diferencia de un ser humano de sesenta años, la Unión Europea no tiene ante ella una inevitable vejez, sino la posibilidad de una nueva juventud. Su éxito dependerá de la voluntad de trabajar una vez más juntos y del deseo de apostar por el futuro. A vosotros, como líderes, os corresponde discernir el camino para un «nuevo humanismo europeo»,[20] hecho de ideales y de concreción. Esto significa no tener miedo a tomar decisiones eficaces, para responder a los problemas reales de las personas y para resistir al paso del tiempo. Por mi parte, renuevo la cercanía de la Santa Sede y de la Iglesia a Europa entera, a cuya edificación ha contribuido desde siempre y contribuirá siempre, invocando sobre ella la bendición del Señor, para que la proteja y le dé paz y progreso. Hago mías las palabras que Joseph Bech pronunció en el Campidoglio: Ceterum censeo Europam esse ædificandam, por lo demás, pienso que Europa merezca ser construida. Gracias. 
Franciscus pp. 
***
[1] Discurso pronunciado con ocasión de la firma de los Tratados de Roma (25 marzo 1957). 
[2] Ibíd. 
[3] A. De Gasperi, Nuestra patria Europa. Discurso a la Conferencia Parlamentaria Europea (21 abril 1954), en: Alcide De Gasperi e la politica internazionale, Cinque Lune, Roma 1990, vol. III, 437-440. 
[4] Cf. P.H. Spaak, Discurso, cit. 
[5] Discurso pronunciado con ocasión de la firma de los Tratados de Roma (25 marzo 1957). 
[6] Ibíd. 
[7] Discurso pronunciado con ocasión de la firma de los Tratados de Roma (25 marzo 1957). 
[8] Discurso pronunciado con ocasión de la firma de los Tratados de Roma (25 marzo 1957).
[9] P.H. Spaak, Discurso, cit. 
[10] Discurso a los Miembros del Cuerpo Diplomático acreditado ante la Santa Sede (9 enero 2017). 
[11] Cf. P.H. Spaak, Discurso, cit. 
[12] A. de Gasperi, La nostra patria Europa, cit. 
[13] Acto Europeo en Santiago de Compostela (9 noviembre 1982): AAS 75/I (1983), 329. 
[14] Cf. Discurso en el Parlamento Europeo, Estrasburgo (25 noviembre 2014): AAS 106 (2014), 1000. 
[15] Exhort. Apost. Evangelii Gaudium, 235. 
[16] Ibíd. 
[17] Discurso en la entrega del Premio Carlo Magno (6 mayo 2016): L’Osservatore Romano, 6-7 de mayo de 2016, p. 4.
[18] Exhort. ap. Evangelii gaudium, 239. 
[19] Carta enc. Populorum progressio (26 marzo 1967), 87: AAS 59 (1967), 299. [20] Discurso en la entrega del Premio Carlo Magno (6 mayo 2016): L’Osservatore Romano, 6-7 de mayo de 2016, p. 5.