mercoledì 5 aprile 2017

Il no di Giobbe ai teologi



Obbedienza e tutela della libertà interiore. 

(Jean-François Noël) L’obbedienza è stata anzitutto un giardino, dove la nostra infanzia è stata protetta dalle preoccupazioni della vita adulta. Primo giardino, dove si costruisce, al riparo, la gioia di stare con se stessi. «È così che mi sono ricordata di un tempo in cui sono stata felice nell’obbedienza, un tempo d’infanzia, persino della più tenera infanzia, in cui l’obbedienza mi sembrava una fatto evidente e si obbediva con allegria (...) Perché questa sensazione ancora così pregnante di spirito libero, caracollante, frettoloso e sereno allo stesso tempo, come al riparo dall’inquietudine. Perché obbedire era poter guardare in faccia e senza complicazioni quelli con cui vivevo, genitori, istitutori, e così via, e ritornare poi con il cuore leggero alle mie piccole cose, senza dubbio microscopiche, amiche molto importanti ai miei occhi», scrive Françoise Corre (Les Jardins oubliés de l’Obéissance).

Questo ritorno su noi stessi è la spina dorsale della nostra intimità, del luogo in cui si tesse pazientemente la persona che diventeremo. Mi spaventa sempre sentire dei genitori vantarsi dell’autonomia del proprio figlio: è un bene che non sia tanto autonomo quanto vorrebbero. La costruzione dell’intimità è molto più determinante dell’acquisizione di un’autonomia, che permette ai genitori di essere liberi dal compito di doversi occupare del proprio figlio. È in questo luogo che si costruisce anzitutto, nella spensieratezza, la capacità di riceversi. Che cosa nasconde questa capacità? Avere il desiderio di ritrovarsi e temere più di tutto di perdersi, riconoscere che «l’intimità è portatrice di una verità in rielaborazione costante» (José Morel Cinq-Mars, Du côté de chez soi), difendersi contro tutto ciò che potrebbe toccare il giardino del dentro di sé, discernere i sussulti di un altruismo che si confonde con le sottili manovre dell’evitare se stessi. 
Questa capacità è ancora più preziosa perché dovrà poi affrontare le preoccupazioni, le ossessioni e i doveri della vita matura, che forniranno mille scuse per dimenticarsi, per perdersi di vista. Con il pretesto degli obblighi, del principio di realtà, della lucidità acquisita, la messa a morte dell’intimità passa quasi inosservata, senza rumore né scalpore, l’intimità si rannicchia, si smorza e alla fine si perde ogni sua traccia. Eppure la memoria veglia, forse immemore, serba i contorni di qualcosa che manca, di qualcosa di dimenticato ma indimenticabile.
Perciò occorre esercitarsi fin dall’inizio, allenare questa virtù inattesa. E per difendersi, si dovrebbe pronunciare un certo numero di “no”.
La grande forza del “no” la troviamo nel libro di Giobbe. Bisogna innanzitutto tener presente che questo libro dell’Antico Testamento è composto all’origine da almeno due libri, inseriti l’uno nell’altro. Il primo, e più antico, è formato da un piccolo racconto certamente risultato di un incontro al crocevia tra la tradizione d’Israele e altre saggezze del Vicino oriente. Questo primo racconto, che si ritrova nel prologo e nell’epilogo del testo biblico, narra la storia “classica” di questo saggio a cui viene tolto tutto e che, davanti a una simile ingiustizia, si rivolge al Creatore: «Allora Giobbe si alzò e si stracciò le vesti, si rase il capo, cadde a terra, si prostrò e disse: “Nudo uscii dal seno di mia madre, e nudo vi ritornerò. Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore!”» (Giobbe, 1, 20-21).
Sembrerebbe che questa “sottomissione” o questa lezione di fede pura non abbia accontentato il mondo dei saggi d’Israele. Riprenderanno questo testo e vi inseriranno, come si aprono le due tende di un sipario, quasi quaranta capitoli. Questi contengono lunghi dialoghi tra Giobbe e i suoi amici, che vanno a trovarlo, e cercano, per tentare di consolarlo, di dargli dei consigli e di formulare spiegazioni sui motivi della disgrazia che lo ha colpito. In effetti non è stato certo risparmiato dalla disgrazia. Non solo perde tutti i beni, ma la sua stessa famiglia viene decimata, e, per finire, un’ulcera maligna minaccia la sua salute. 
«Nel frattempo tre amici di Giobbe erano venuti a sapere di tutte le disgrazie che si erano abbattute su di lui. Partirono, ciascuno dalla sua contrada, si accordarono per andare a condolersi con lui e a consolarlo. Poi sedettero accanto a lui in terra, per sette giorni e sette notti» (Giobbe, 1, 11-13). I tre amici, a turno, prendono a lungo la parola.
Ebbene, le spiegazioni che danno, tratte dalla teologia classica, non fanno che rafforzare Giobbe nella sua determinazione a chiedere a Dio stesso e a Lui solo, come si farebbe in un processo a un accusato, di rispondere di questo accanimento del male. Giobbe demolisce, una per una, le ipotesi dei suoi pii amici. Se tu sei vittima di questo male è perché hai peccato, dice uno di loro. Un altro dice che si deve accettare la sofferenza, che la sofferenza non può che essere salutare, e che evidentemente Dio vuole metterti alla prova, e così via. Ciò che Giobbe rifiuta, prima di tutto, è che loro si permettano di parlare in Suo nome come intermediari autorizzati. Con tutto se stesso dice “no”. 
No alle spiegazioni, no alle consolazioni, no alle teologie, no anche a tutte le chiacchiere degli uomini. No a tutti coloro che vorrebbero intromettersi e opporsi al confronto diretto che Giobbe chiede con le sue ultime forze, quelle della sua disperazione più profonda che si appella all’onore stesso di Dio: «Tacete, state lontani da me: parlerò io, mi capiti quel che capiti. Voglio afferrare la mia carne con i denti e mettere sulle mie mani la mia vita» (Giobbe, 13, 13).
Giobbe resiste a tutte quelle belle “teologie”, restando fedele all’intuizione che ha dentro, una sorta d’immagine interiore. Se c’è una parola possibile in mezzo a una disgrazia così ingiusta, non può che venire da Dio: è questa la sua intima e ultima convinzione. Perciò farà di tutto, giungendo fino alla blasfemia, per far uscire Dio dal suo silenzio e dal suo mutismo. Per restare fedele a se stesso, deve resistere alle argomentazioni dei suoi quattro amici; di fatto, un quarto, più giovane, vedendo la vacuità di quelle argomentazioni, interviene. I primi tre sviluppano la tesi classica secondo la quale la malattia e la prova sono sempre la conseguenza del peccato, ma il colpo di grazia, in qualche modo, viene dal quarto, Elihu, che sostiene l’idea di una sofferenza “educatrice”. Giobbe però resta aggrappato alla sua intuizione, per cui l’ultima parola non può che venire da Colui che ha voluto la vita umana. Che senso avrebbe la creazione se l’unico fine fosse di esporla a simili disgrazie? La parte d’innocenza, che lui intuisce viva in ogni uomo, contro i suoi amici e contro se stesso, può essere difesa solo da Dio. Per questo lo invita a un processo immaginario in cui Dio è allo stesso tempo accusato e difensore. «Io lo so che il mio Vendicatore è vivo e che, ultimo, si ergerà sulla polvere! Dopo che questa mia pelle sarà distrutta, senza la mia carne, vedrò Dio» (Giobbe, 19, 25-26). 
Il finale tanto atteso del libro potrebbe confondere più di un lettore, perché non viene data alcuna risposta. Giobbe ritorna al suo silenzio: «Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono» (Giobbe, 42, 5). 
A sostenerlo nelle prove peggiori è una sorta di speranza che le parole non riescono a esprimere e che non può che ricevere. L’aggressività stessa dei rimproveri di Giobbe non è che il rovescio della medaglia di una fiducia vera e pudica. Dio, chiunque sia, è l’abitante e il difensore della sua intimità. È come se le teorie, troppo esteriori, ma comunque non prive di buon senso, avessero finito coll’occultare questa “conversazione” d’amore tra il Creatore e la sua creatura. Se si volesse fare un accostamento anacronistico, si potrebbe dire che il libro di Giobbe riprende il dialogo tra Dio e Adamo, ma subito dopo la caduta. Il fatto è che, al di là della valanga di prove che accusano Giobbe, quest’ultimo esige da Dio che si assuma la propria responsabilità. Che riconosca che il rischio che ha corso creando l’uomo lo coinvolge più del dovuto. Che, quanto meno, nel dialogo dell’intimità, a nome del suo primo amore, Dio confessi. Ma il testo sembra sottrarsi a qualsiasi risposta. In prima istanza perché in effetti la vera risposta che Dio darà non è in questo testo. Come se Dio non avesse mai dimenticato la scottante domanda che «la voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo!» (Genesi, 4, 10), e si riservasse di rispondervi ancora più intimamente attraverso il proprio figlio. E «il Verbo si è fatto carne». 
La forza del libro di Giobbe, la pertinenza della sua resistenza portata all’estremo per sempre, le sue parole scolpite nella roccia per sempre, conducono il lettore al silenzio dell’intimità, come se, dietro la porta della camera segreta, si potessero sorprendere i frammenti che Dio e l’anima si confidano eternamente. Al termine di questa lotta, la paziente spoliazione, la separazione da tutto ciò che lo lega che, senza essere assolutamente giustificato, ha permesso di mettere Giobbe a nudo e di avvicinarlo il più possibile a quello che si trama in lui, che intuiva senza poterlo provare. Alla fine sente, non una viva voce, ma una viva anima, perché Dio, anche se lo volesse, non potrebbe rinunciare ad amare quella parte di sé che è l’uomo. Ecco l’intuizione inconfutabile: «Tardi ti amai, bellezza così antica e così nuova, tardi ti amai. Sì, perché tu eri dentro di me e io fuori. Lì ti cercavo. Deforme, mi gettavo sulle belle forme delle tue creature. Eri con me, e non ero con te. Mi tenevano lontano da te le tue creature, inesistenti se non esistessero in te. Mi chiamasti, e il tuo grido sfondò la mia sordità; balenasti, e il tuo splendore dissipò la mia cecità; diffondesti la tua fragranza, e respirai e anelo verso di te, gustai e ho fame e sete; mi toccasti, e arsi di desiderio della tua pace» (Confessionix, 38).
Il “no” alle opinioni, alle spiegazioni e alle interpretazioni non è un semplice rifiuto, una forma di ostinazione. Si può ascoltare, senza tuttavia rinunciare a questo giardino del dentro di sé, questo giardino intimo dove dobbiamo sempre tornare. È in questo luogo che ci siamo incontrati, ma è in questo stesso luogo che ci siamo spaventati, che ci hanno fatto credere che avremmo perso la nostra libertà e che noi l’abbiamo giocata contro lui e la sua promessa. Senza saperlo, la nostra lotta immaginaria era iniziata. Credevamo che fosse lui a ostacolarci, mentre era quell’“io” incollato, quell’“io” impantanato nella sua immagine, quell’“io” che non si può allontanare da lui e ci soffoca. Ultimo lavoro di separazione o di dolore, o meglio ciò che spetta a noi fare e che persino il Creatore si rifiuterà di fare al posto nostro. 
Il “no” ha permesso di rimandare l’uomo a ciò che deve a se stesso. L’ultimo tocco del suo completamento spetta a lui più di quanto creda. Il “no” ha designato il luogo, l’immaginario. È in questa sede, e in nessun’altra, che si deve dichiarare il conflitto. È il luogo privilegiato del lavoro per divenire se stessi.
L'Osservatore Romano