domenica 16 aprile 2017

La rivincita del Crocifisso

Van der Weyden, particolare

di Giacomo Biffi*

Per gentile concessione di Edizioni Studio Domenicano pubblichiamo una riflessione del compianto cardinale Giacomo Biffi (1928-2015) già Arcivescovo di Bologna. Sono due brani tratti da Biffi, La rivincita del Crocifisso, Edizioni Studio Domenicano, Bologna, pp. 276 ss e 293 ss. Una riflesisone sulla Pasqua e sulla Resurrezione sempre attuale. E' il nostro modo di augurare buona Pasqua a voi lettori della Nuova BQ.
Gesù è vivo o è morto? Sembra solo una questione «anagrafica», ma divide l’umanità e decide del nostro destino. Un giorno forse d’autunno dell’anno 60 il re Agrippa II, in visita al procuratore Porcio Festo che stava a Cesarea Marittima, si vide presentare un insolito prigioniero. Paolo di Tarso non aveva rubato, non aveva frodato, non aveva ucciso. Era in carcere solo perché qualche tempo prima aveva provocato un tumulto, discutendo con i giudei sotto i portici del tempio di Gerusalemme.
Avevano con lui alcune questioni – così tentava di spiegarsi quell’alto funzionario di Roma, che evidentemente non aveva troppa familiarità con i problemi teologici degli israeliti – relative alla loro particolare religione e riguardanti un certo Gesù, morto, che Paolo sosteneva essere ancora in vita (At 25,19). Gesù – questo sconosciuto ebreo di Nazaret – è vivo o è morto? Agli occhi del procuratore romano era, come si vede, soltanto un problema anagrafico.
In realtà, questo è l’interrogativo che più profondamente spacca oggi ancora l’umanità.
Chi celebra la Pasqua cristiana – se sa per che cosa la celebra – per ciò stesso dichiara di essere convinto che il Crocifisso del Golgota è veramente, realmente, corporalmente vivo. Non c’è divisione più lacerante di questa e più gravida di conseguenze. 
Dalla tomba scoperchiata l’angelo biancovestito dà anche a noi la notizia sbalorditiva, come l’ha data alle donne quella mattina del 9 aprile dell’anno 30: Voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso. È risorto, non è qui (Mc 16,6). È risorto, vale a dire ha ripreso a vivere con tutto il suo essere, anche con le sue membra corporee. Ha ripreso a vivere non tornando indietro – riprendendo la condizione di prima, propria dell’uomo che non ha ancora incontrato la morte – ma andando avanti, entrando cioè nella condizione che dopo l’ultimo giorno sarà anche la nostra, come professiamo nel Credo: «Aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà».
La risurrezione di Cristo ha, per così dire, una duplice valenza: una duplice valenza, che va riconosciuta, va ben compresa e va rispettata. È un fatto effettivamente avvenuto, proprio come tutti i fatti di cronaca; ma è anche un evento che trascende la storia e si colloca sul piano delle realtà eterne, come causa inesauribile della salvezza umana. È perciò al tempo stesso «storica» e «sovrastorica»: è perciò oggetto di un assenso razionale e insieme di un atto di fede. Il sepolcro vuoto (che i soldati e le autorità non possono in alcun modo giustificare); gli incontri col Risorto documentati da innumerevoli testimoni (puntigliosamente elencati da san Paolo in 1 Cor 15,3-8); la stessa inspiegabile trasformazione degli apostoli, che prima sono avviliti, depressi, paurosi, e poi diventano esuberanti di coraggio, di fiducia incrollabile, di generosità fino al martirio: sono tutti dati certi che fondano la nostra convinta adesione e rendono ragionevole il credere.
Quando all’indomani della Pentecoste gli apostoli partono per annunciare il Vangelo a tutte le genti, su comando del loro Signore e Maestro, non hanno altra religione che quella ebraica, non riconoscono altro Dio che il Dio di Abramo, di Mosè e di Davide, non possiedono altro libro sacro (almeno inizialmente) che la Bibbia degli israeliti: tutti elementi teologici e cultuali che non li distinguevano dal resto della popolazione di Gerusalemme e della Giudea.
Che cosa allora era proprio, esclusivo, caratterizzante del Vangelo e della nuova realtà della Chiesa? Era il convincimento e l’annuncio pubblico che Gesù di Nazaret, il Crocifisso del Golgota, era risorto, era adesso vivo, era Signore. Questo è ciò che nel cristianesimo è ancora oggi proprio, esclusivo, caratterizzante. Occorre a questo punto persuadersi che il cristianesimo fin dal suo contenuto primordiale è qualcosa di unico, di decisivo, di imparagonabile.
Prima ancora che una religione, una morale, un culto, una filosofia, è un avvenimento: l’avvenimento della risurrezione di Gesù di Nazaret che si fa principio del rinnovamento degli uomini e delle cose. Perciò è intramontabile: le dottrine nascono, fanno fortuna, incantano per decenni e magari per secoli, poi decadono e muoiono. Il fatto cristiano resta, proprio perché è un fatto; e resta indipendentemente dall’accoglienza e dal numero delle adesioni che riceve.
Tutte le religioni – oggi si sente dire sempre più spesso – hanno un loro valore che è giusto riconoscere. E si può anche ammetterlo, purché non ci si dimentichi che la realtà cristiana in questo discorso non c’entra. Il cristianesimo, primariamente e per sé, non può essere ridotto a un sistema di convincimenti, di precetti, di riti che interpreta e regola i rapporti tra le creature e il Creatore.
Vale a dire, per quanto la frase possa apparire paradossale, primariamente e per sé, non può essere ridotto a “una religione”: collocarlo tra le religioni (anche soltanto per ragioni di sistemazione e di metodo, o per la buona intenzione di favorire il dialogo interreligioso), se non si chiarisce l’intrinseca ambiguità del collegamento o quanto meno il suo significato soltanto analogico, vuol dire travisarlo e precludersi ogni sua autentica comprensione.
Essendo assolutamente eterogeneo il cristianesimo non tollera di essere collocato “tra” le varie forme espressive dello spirito, esattamente come il Figlio di Dio nato da Maria, crocifisso e glorificato, non è assimilabile a nessun fondatore di religione e a nessun defunto personaggio della storia, classificarlo e collocarlo sarebbe fraintenderlo.
*Arcivescovo di Bologna (1928-2015)