sabato 1 aprile 2017

L'utilità divorante dell'inutile

L'utilità divorante dell'inutile

di Luigino Bruni
Le molte, troppe persone che lavorano poco, male, o niente, non sono il solo sintomo della grave malattia del mondo del lavoro. Un altro suo grave segno di malessere, ancora poco visibile, sono quei lavoratori che lavorano troppo, che dissipano enormi energie nei nuovi riti delle imprese, nuove vittime sacrificali immolate ai nuovi dèi. Nelle civiltà arcaiche il sacrificio era caratterizzato da una tensione fondamentale tra l’utile e l’inutile. Il sacrificio è un dono utile e gradito agli dèi-idoli se e in quanto è inutile sul piano umano, se è espressione di una qualche nostra perdita. Le offerte sacrificali attivano l’economia divina perché negano l’economia umana. Nella Bibbia il sacrificio perfetto (l’olah: "far salire") consisteva nell’offerta degli animali migliori, che venivano interamente bruciati, senza lasciare nessun resto utilizzabile dai sacrificanti: «Il sacerdote brucerà il tutto sull’altare come olocausto, sacrificio consumato dal fuoco» (Levitico 1,9). Affinché l’atto del sacrificio sia massimamente utile a Dio deve essere massimamente inutile agli uomini, o, meglio, disutile.

Il sacrificio perfetto è, dunque, associato a una perdita, al puro spreco economico, a quella che filosofo Bataille chiamava dépense. Questa idea è ancora dominante nel significato corrente del termine sacrificio: sacrificarsi per qualcuno, per qualcosa, rimanda a una perdita che il sacrificante subisce a vantaggio del destinatario del sacrificio. Una perdita, una dissipazione, che acquista, paradossalmente, una dimensione positiva. Ed è a questo livello radicale che sacrificio e dono si incontrano. Tra le molte pratiche arcaiche di dono (i cosiddetti potlàc: "consumare"), studiate dagli antropologi nei primi anni del XX secolo, particolarmente interessanti sono quelle caratterizzate dalla distruzione del "dono" di fronte al rivale. Nel popolo Tlingit (tra Canada e Alaska), per esempio, un capo si presentava davanti a un altro capo e sgozzava un certo numero di schiavi. Il rivale, qualche giorno dopo tornava e sgozzava un numero ancora maggiore di uomini. Queste gare, dove la dimensione dissipativa è assoluta e arcaica, nella loro brutale trasparenza ci possono fare intravvedere dimensioni analoghe e presenti in modo spurio nel nostro tempo.
Nonostante la novità assoluta nella cultura del sacrificio portata dal messaggio di Cristo, per tutto il Medioevo e oltre questi elementi arcaici del dono-sacrificio hanno continuato a essere ben presenti. Non capiamo quel mondo senza la magnificenza dei ricchi e dei potenti, le grandi spese improduttive per il culto, gli sprechi delle feste patronali e delle processioni, i fuochi d’artificio, vere e proprie gare di doni dissipatori allo scopo di creare e mantenere ranghi e potere nella città, e/o per meritarsi qualche sconto di pena in purgatorio – sono ancora molti, troppi, i potlàc dei mafiosi nei nostri paesi e nelle nostre feste. 

Nella spiritualità cristiana, poi, è rimasta per secoli l’idea che il sacrificio-dono è gradito a Dio perché espressione di una nostra perdita, di una rinuncia, di un costo. L’analogia economica usata per intendere la vita spirituale, portava con sé necessariamente l’idea di prezzo, e quindi che nel rapporto con Dio per avere qualcosa (grazie, benedizioni...) occorresse pagare. E così persino la vita consacrata nella verginità per lungo tempo è stata letta e vissuta come una scelta di grande valore spirituale proprio perché dono-sacrificio della parte più preziosa della persona. Sant’Ambrogio affermava che vergine è «la vittima della castità». Per San Gregorio Magno la verginità sostituiva il martirio: «Il tempo delle persecuzioni è passato, ma la nostra pace ha un suo martirio». Una idea sacrificale, espressione di una teologia dell’espiazione, che ritroviamo ancora viva nel Novecento, dove ricorrendo all’immagine dell’olocausto, si incoraggiano le vergini a «perseverare fermamente nel sacrificio e a non sottrarre e prendere per sé una parte anche minima dell’olocausto offerto sull’altare di Dio» (Sagra Virginitas, Pio XII, 1954).

La Riforma protestante ha segnato un momento di svolta anche in questa cultura del dono-sacrificio. Lutero individuò nella mentalità sacrificale ancora presente nella Chiesa e nella cristianità la principale ragione dell’allontanamento dalla genuinità e novità dell’evento cristiano. E non aveva torto, perché quella cultura del sacrificio-perdita era una continuazione della teologia economica e meritocratica pre-cristiana. Per Lutero non aveva alcun senso cristiano rinunciare all’utile umano sperando in un utile divino: quei nostri sacrifici non servono a nulla, perché dall’altra parte non c’è un Dio che è interessato a quelle nostre perdite. Il Dio cristiano non è un idolo affamato. Il paradiso non va guadagnato da noi, perché ci è stato già dato in dono. Da qui anche la sua critica ai conventi, ai monasteri e al valore della vita consacrata in quanto offerta in sacrificio. E anche la condanna degli sprechi vistosi, delle magnificenze dei culti, dei pellegrinaggi, delle feste, dell’ozio, dei lussi.
Tutto ciò che nella vita civile e religiosa era dispendio inutile per gli uomini venne interpretato dalla Riforma come sacrificio e quindi come una sbagliata ricerca di meriti spirituali, come comportamento contrario al cristianesimo vero della sola gratia. La gratuità dei sacrifici fu vista come una gratuità perversa, perché se è vero che ogni dono è una rinuncia a qualcosa di proprio per il bene di qualcun altro, nel rapporto con Dio questo schema non funziona perché il Dio di Gesù Cristo non ha bisogno dei nostri sacrifici – perché l’unico sacrificio buono e vero è quello che ha fatto lui per noi dando la vita per amore, e una volta per sempre, e la sola reciprocità da parte nostra è la gratitudine per Dio e l’amore per il prossimo.

E così la gratuità di una azione umana venne letta come la più alta forma di non-gratuità spirituale. Questa interpretazione dell’inutilità e perdita intramondana come desiderio improprio di guadagno oltremondano, portò il mondo della riforma a guardare con sospetto la gratuità tout court, sia nella sfera civile che in quella religiosa, a considerarla un mercanteggiare sul piano sbagliato. È questa la radice culturale profonda che ha generato l’idea che la gratuità sia qualcosa di tutto sommato negativo. O è inutile o è sbagliata, perché non trova una giustificazione né nell’economia umana (dove vige l’utile) né, tantomeno, sul piano spirituale. Una diffidenza profonda che ritroviamo a cuore del capitalismo e del suo "tabù della gratuità".
Calvino, poi, con la sua "dottrina della predestinazione" spinse questa rivoluzione alle sue estreme conseguenze. Dato che gli uomini non hanno alcun potere di modificare l’economia divina, le uniche nostre azioni buone e benedette sono quelle orientate all’economia umana e ai suoi fini. Il lavoro, la professione, la produzione, prendono così il posto che nella cultura medioevale avevano l’ozio, gli sprechi e la contemplazione, e tutto ciò che non è utile, orientato razionalmente all’utilità, viene condannato. I soli sacrifici buoni sono quelli orientati a fini terreni e utili, e quindi anche al lavoro. Un utile economico e lavorativo che non può e non deve diventare un merito per il cielo, ma che è l’unico merito possibile e lodevole sulla terra. L’inutilità, la perdita, il debito-colpa, la pigrizia, sono il grande e unico demerito dei singoli e dei popoli. L’utile e il merito, cacciati via dal paradiso, diventano così i sovrani assoluti della terra.

Ma c’è di più. Le pratiche dissipatrici, quegli atti gratuiti tanto utili perché inutili, in questi ultimi anni di capitalismo stanno ritornando con sempre maggiore forza e pervasività. Un nuovo culto sacrificale – altro paradosso – nato da quei Paesi di prevalente cultura protestante e calvinista che tanto aveva criticato l’inutilità e i sacrifici "gratuiti". I potenti hanno sempre usato la dépense come strumento per dire e ribadire il proprio potere, e quindi per creare status, per umiliare i sudditi. File interminabili, risposte importanti che arrivano sempre nell’ultimo giorno utile, ritardi intenzionali negli appuntamenti, attese inutili per "segnare" le distanze... Chiedere e pretendere sacrifici dai sudditi, che non hanno alcun scopo se non quello di umiliare le persone e rafforzare le gerarchie: pratiche sociali ben note a tutti, ieri e oggi. Ciò accade negli ambienti laici, ma anche in quelli religiosi, dove le pratiche inutili al solo fine di rafforzare distanze e poteri sono particolarmente pericolose perché vengono rivestite da una giustificazione sacrale e sono spesso interiorizzate dalle stesse vittime come necessarie e magari buone. 

Le grandi imprese, però, si stanno spingendo molto lontano in queste pratiche sacrificali dissipatrici. Riunioni fissate di domenica quando potrebbero essere fatte di lunedì, alle dieci di sera invece che nel pomeriggio, il 24 dicembre e non il 23, chiamate al lavoro persino nel giorno di Pasqua. Perdite inutili di tempo e di vita, che non hanno nessuno scopo produttivo né di efficienza. Sono pura dissipazione cultuale, dépense che i membri dei team finiscono con l’auto-infliggersi immersi in questa nuova cultura sacrificale, dove le offerte valgono tanto più quanto più inutili e dissipative. Orari insostenibili e inutilmente infiniti, che riducono spesso efficienza e qualità del lavoro, che però servono ad aumentare il valore della vittima offerta in olocausto. Riunioni di lavoro dove si dovrebbe parlare dei problemi del lavorare, e che invece si trasformano in estenuanti riti inutili ma utili per consolidare ruoli e gerarchie. Fino ad arrivare al vero e proprio sacrificio dell’intera vita privata e familiare, dove rivive il potlàc di pura distruzione, una dépense disutile all’economia aziendale ma essenziale al culto perché segnale di devozione totale e assoluta. Nuovi olocausti.

"Doni" che diventano poi strumenti di concorrenza e rivalità tra lavoratori e tra aziende, che gareggiano tra di loro usando come linguaggio i propri sacrifici-dono totalmente gratuiti, e inutili. Questa gratuità pervertita sta uccidendo la gratuità buona e si sta mangiando quel poco che restava della cultura del lavoro dei secoli passati. E sta oscurando il vero valore che avevano e hanno alcune azioni inutili, quello di poter gridare una libertà più grande. L’umanità ha impiegato millenni per giungere a una idea di Dio che non ha bisogno di mangiare gli uomini e le nostre cose per essere saziato, placato, abbonito. Ma gli uomini, i potenti, non hanno mai smesso di desiderare di essere dio. Se non capiamo subito la natura sacrificale neo-arcaica dell’attuale capitalismo, quando un giorno ci accorgeremo di essere precipitati in un culto perpetuo e assoluto sarà senz’altro troppo tardi. Potremo svegliarci sopra un altare sacrificale, e le danze e i canti per noi saranno già iniziati.
l.bruni@lumsa.it