venerdì 14 aprile 2017

Venerdì Santo – 14 aprile 2017. Basilica Vaticana. Predica di P. Raniero Cantalamessa



Venerdì Santo – 14 aprile 2017. Basilica Vaticana. Celebrazione della Passione del Signore. Predica di P. Raniero Cantalamessa, OMF Cap, Predicatore della Casa Pontificia 
Sala stampa della Santa Sede 

[Text: Italiano, Français, English, Español, Português] 

« O CRUX, AVE SPES UNICA » 
La croce, unica speranza del mondo Abbiamo ascoltato il racconto della Passione di Cristo. Si tratta in sostanza del resoconto di una morte violenta. Notizie di morti, e di morti violente, non mancano quasi mai dai notiziari serali. Anche in questi ultimi giorni ne abbiamo ascoltate, come quella dei 38 cristiani copti uccisi in Egitto la domenica delle Palme. Queste notizie si susseguono con tale rapidità da farci dimenticare ogni sera quelle del giorno prima. Perché allora, dopo 2000 anni, il mondo ricorda ancora, come fosse avvenuta ieri, la morte di Cristo? È che questa morte ha cambiato per sempre il volto della morte; essa ha dato un senso nuovo alla morte di ogni essere umano. Su di essa riflettiamo qualche istante.
“Venuti però da Gesù, vedendo che era già morto, non gli spezzarono le gambe, ma uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua” (Gv 19, 33-34). All’inizio del suo ministero, a chi gli domandava con quale autorità egli cacciasse i mercanti dal tempio, Gesù rispose: “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere”. “Egli parlava del tempio del suo corpo” (Gv 2, 19. 21), aveva commentato Giovanni in quella occasione, ed ecco che ora lo stesso evangelista ci attesta che dal fianco di questo tempio “distrutto” sgorgano acqua e sangue. È un’allusione evidente alla profezia di Ezechiele che parlava del futuro tempio di Dio, dal fianco del quale sgorga un filo d’acqua che diventa prima un ruscello, poi un fiume navigabile e intorno a cui fiorisce ogni forma di vita (cf. Ez 47, 1 ss.).
Ma penetriamo dentro la sorgente di questo “fiume di acqua viva” (Gv 7, 38), nel cuore trafitto di Cristo. Nell’Apocalisse lo stesso discepolo che Gesú amava scrive: “Poi vidi, in mezzo al trono, circondato dai quattro esseri viventi e dagli anziani, un Agnello, in piedi, come immolato” (Ap 5, 6). Immolato, ma in piedi, cioè trafitto, ma risorto e vivo.
Esiste ormai, dentro la Trinità e dentro il mondo, un cuore umano che pulsa, non solo metaforicamente, ma realmente. Se Cristo, infatti, è risorto da morte, anche il suo cuore è risorto da morte; esso vive, come tutto il resto del suo corpo, in una dimensione diversa da prima, reale, anche se mistica. Se l'Agnello vive in cielo “immolato, ma ritto”, anche il suo cuore condivide lo stesso stato; è un cuore trafitto ma vivente; eternamente trafitto, proprio perché eternamente vivente. È stata creata un’espressione per descrivere il colmo della malvagità che può ammassarsi in seno all’umanità: “cuore di tenebra”. Dopo il sacrifico di Cristo, più profondo del cuore di tenebra, palpita nel mondo un cuore di luce. Cristo, infatti, salendo al cielo, non ha abbandonato la terra, come, incarnandosi, non aveva abbandonato la Trinità. “Ora si compie il disegno del Padre –dice un’antifona della Liturgia delle ore -, fare di Cristo il cuore del mondo”. Questo spiega l’irriducibile ottimismo cristiano che ha fatto esclamare a una mistica medievale: “Il peccato è inevitabile, ma tutto sarà bene e tutto sarà bene e ogni specie di cosa sarà bene” (Giuliana di Norwich).
* * * 
I monaci certosini hanno adottato uno stemma che figura all’ingresso dei loro monasteri, nei loro documenti ufficiali e in altre occasioni. In esso è rappresentato il globo terrestre, sormontato da una croce, con intorno la scritta: “Stat crux dum volvitur orbis”: Sta immobile la croce, tra gli sconvolgimenti del mondo.
Che cosa rappresenta la croce, per essere questo punto fermo, questo albero maestro tra l’ondeggiare del mondo”? Essa è il “No” definitivo e irreversibile di Dio alla violenza, all’ingiustizia, all’odio, alla menzogna, a tutto quello che chiamiamo “il male”; ed è contemporaneamente il “Si” altrettanto irreversibile all’amore, alla verità, al bene. “No” al peccato, “Si” al peccatore. È quello che Gesú ha praticato in tutta la sua vita e che ora consacra definitivamente con la sua morte.
La ragione di questa distinzione è chiara: il peccatore è creatura di Dio e conserva la sua dignità, nonostante tutti i propri traviamenti; il peccato no; esso è una realtà spuria, aggiunta, frutto delle proprie passioni e della “invidia del demonio” (Sap 2, 24). È la stessa ragione per cui il Verbo, incarnandosi, ha assunto tutto dell’uomo, eccetto il peccato. Il buon ladrone, a cui Gesú morente promette il paradiso, è la dimostrazione vivente di tutto ciò. Nessuno deve disperare; nessuno deve dire, come Caino: “Troppo grande è la mia colpa per ottenere il perdono” (Gen 4, 13). La croce non “sta” dunque contro il mondo, ma per il mondo: per dare un senso a tutta la sofferenza che c’è stata, c’è e ci sarà nella storia umana. “Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo –dice Gesù a Nicodemo -, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui” (Gv 3, 17). La croce è la proclamazione vivente che la vittoria finale non è di chi trionfa sugli altri, ma di chi trionfa su se stesso; non di chi fa soffrire, ma di chi soffre.
* * * 
“Dum volvitur orbis”, mentre il mondo compie le sue evoluzioni. La storia umana conosce molte passaggi da un’era all’altra: si parla dell’età della pietra, del bronzo, del ferro, dell’età imperiale, dell’era atomica, dell’era elettronica. Ma oggi c’è qualcosa di nuovo. L’idea di transizione non basta più a descrivere la realtà in atto. All’idea di mutazione si deve affiancare quella di frantumazione. Viviamo, è stato scritto, in una società “liquida”; non ci sono più punti fermi, valori indiscussi, nessuno scoglio nel mare, a cui aggrapparci, o contro cui magari sbattere. Tutto è fluttuante.
Si è realizzata la peggiore delle ipotesi che il filosofo aveva previsto come effetto della morte di Dio, quella che l’avvento del super-uomo avrebbe dovuto impedire, ma che non ha impedito: “Che mai facemmo, a sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci moviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla?” (F. Nietzsche, La gaia scienza, aforisma 125). È stato detto che “uccidere Dio è il più orrendo dei suicidi”, ed è quello che in parte stiamo vedendo. Non è vero che “dove nasce Dio, muore l’uomo” (J.-P. Sartre); è vero il contrario: dove muore Dio, muore l’uomo.
Un pittore surrealista della seconda metà del secolo scorso (Salvador Dalì) ha dipinto un crocifisso che sembra una profezia di questa situazione. Una croce immensa, cosmica, con sopra un Cristo, altrettanto monumentale, visto dall’alto, con il capo reclinato verso il basso. Sotto di lui, però, non c’è la terra ferma, ma l’acqua. Il Crocifisso non è sospeso tra cielo e terra, ma tra il cielo e l’elemento liquido del mondo. Questa immagine tragica (c’è anche, sullo sfondo, una nube che potrebbe alludere alla nube atomica), contiene però anche una consolante certezza: c’è speranza anche per una società liquida come la nostra! C’è speranza, perché sopra di essa “sta la croce di Cristo”. È quello che la liturgia del Venerdì Santo ci fa ripetere ogni anno con le parole del poeta Venanzio Fortunato: “O crux, ave spes unica”, Salve, o croce, unica speranza del mondo.
Sì, Dio è morto, è morto nel Figlio suo Cristo Gesú; ma non è rimasto nella tomba, è risorto. “Voi l’avete crocifisso - grida Pietro alla folla il giorno di Pentecoste -, ma Dio l’ha risuscitato!” (Atti 2, 23-24). Egli è colui che “era morto, ma ora vive nei secoli” (Ap 1, 18). La croce non “sta” immobile in mezzo agli sconvolgimenti del mondo” come ricordo di un evento passato, o un puro simbolo; vi sta come una realtà in atto, viva e operante.
* * * 
Non dobbiamo fermarci, come i sociologi, all’analisi della società in cui viviamo. Cristo non è venuto a spiegare le cose, ma a cambiare le persone. Il cuore di tenebra non è soltanto quello di qualche malvagio nascosto in fondo alla giungla, e neppure quello della società che lo ha prodotto. In misura diversa è dentro ognuno di noi. 
La Bibbia lo chiama il cuore di pietra: “Strapperò da loro il cuore di pietra – dice Dio nel profeta Ezechiele - e darò loro un cuore di carne” (Ez 36, 26). Cuore di pietra è il cuore chiuso alla volontà di Dio e alla sofferenza dei fratelli, il cuore di chi accumula somme sconfinate di denaro e resta indifferente alla disperazione di chi non ha un bicchiere d’acqua da dare al proprio figlio; è anche il cuore di chi si lascia completamente dominare dalla passione impura, pronto per essa ad uccidere, o a condurre una doppia vita. Per non restare con lo sguardo sempre rivolto all’esterno, agli altri, diciamo più concretamente: è il nostro cuore di ministri di Dio e di cristiani praticanti se viviamo ancora fondamentalmente “per noi stessi” e non “per il Signore”. 
È scritto che al momento della morte di Cristo ”il velo del tempio si squarciò in due, da cima a fondo, la terra si scosse, le rocce si spezzarono, i sepolcri si aprirono e molti corpi di santi morti risuscitarono” (Mt 27,51s.). Di questi segni si da, di solito, una spiegazione apocalittica, come di un linguaggio simbolico necessario per descrivere l’evento escatologico. Ma essi hanno anche un significato parenetico: indicano quello che deve avvenire nel cuore di chi legge e medita la Passione di Cristo. In una liturgia come la presente, san Leone Magno diceva ai fedeli: “Tremi la natura umana di fronte al supplizio del Redentore, si spezzino le rocce dei cuori infedeli e quelli che erano chiusi nei sepolcri della loro mortalità vengano fuori, sollevando la pietra che gravava su di loro” (Sermo 66, 3; PL 54, 366). 
Il cuore di carne, promesso da Dio nei profeti, è ormai presente nel mondo: è il Cuore di Cristo trafitto sulla croce, quello che veneriamo come “il Sacro Cuore”. Nel ricevere l’Eucaristia, crediamo fermamente che quel cuore viene a battere anche dentro di noi. Guardando fra poco la croce e diciamo dal profondo del cuore, come il pubblicano nel tempio: “O Dio, abbi pietà di me peccatore!, è anche noi, come lui, torneremo a casa “giustificati” (Lc 18, 13-14), riconciliati con Dio e se necessario con la nostre croce.
Traduzione in lingua francese 
« O CRUX, AVE SPES UNICA » La croix, unique espérance du monde Nous avons écouté le récit de la Passion du Christ. Il ne s’agit au fond que du compte rendu d’une mort violente, quelque chose qui ne manque presque jamais dans les nouvelles du jour. Mêmes ces derniers jours nous en avons écouté, comme celle des 38 Chrétiens coptes tués en Egypte, le Dimanche des Rameaux. Ces nouvelles se succèdent avec une telle rapidité que nous oublions chaque jours celles du jour avant. Pourquoi donc, après 2000 ans, le monde fait encore mémoire de la mort de Jésus de Nazareth, comme si elle s’était passée hier ? C’est que cette mort a changé pour jamais le visage de la mort, en lui donnant un sens nouveau. Réfléchissons quelques instants sur cela. « Quand ils arrivèrent à Jésus, voyant qu’il était déjà mort, ils ne lui brisèrent pas les jambes, mais un des soldats avec sa lance lui perça le côté ; et aussitôt, il en sortit du sang et de l’eau. » (Jn 19, 33-34). Au début de son ministère, à ceux qui lui demandaient avec quelle autorité il chassait les marchands du Temple, Jésus répondit: « Détruisez ce sanctuaire, et en trois jours je le relèverai ». « Il parlait du sanctuaire de son corps » (Jn 2, 19. 21), avait commenté Jean à cette occasion, et voilà que le même évangéliste témoigne que du côté de sanctuaire « détruit » a jailli de l’eau et du sang. Une allusion évidente à la prophétie d’Ezéchiel qui parlait du futur sanctuaire de Dieu : un fil d’eau jaillit du Temple qui devient d’abord un ruisseau, puis un fleuve navigable, et autour de lui fleurit toute forme de vie. Mais allons à la source de ces « fleuves d’eau vive » (Jn 7, 38), dans le coeur transpercé du Christ. Dans l’Apocalypse, le même disciple bien-aimé de Jésus écrit: « Et j’ai vu, entre le Trône, les quatre Vivants et les Anciens, un Agneau debout, comme immolé » (Ap 5, 6). Immolé mais debout, autrement dit transpercé, mais ressuscité et vivant. Il existe désormais, dans la Trinité et dans le monde, un coeur humain qui bât, non seulement métaphoriquement mais réellement. Si le Christ est en effet ressuscité d’entre les morts, son coeur l’est aussi ; celui-ci vit, comme tout le reste de son corps, dans une autre dimension, réelle, bien que mystique. Si l’Agneau vit au ciel « immolé, mais debout », son coeur aussi partage le même état ; il est un coeur transpercé mais vivant ; transpercé éternellement, justement parce que éternellement vivant. On a forgé une expression pour décrire le comble de la méchanceté au sein de l’humanité: «coeur de ténèbres » (Heart of Dakness). Après le sacrifice de Jésus, plus profond que ce coeur de ténèbres, palpite dans le monde un coeur de lumière. Plus profond que toute la haine et la méchanceté humaine il y a l’amour et la bonté du Christ. En effet, en montant aux cieux, le Christ n’a pas abandonné la terre, exactement comme, en s’incarnant, il n’avait pas abandonné la Trinité. « Aujourd’hui s’accomplit la volonté du Père – dit une antienne de la Liturgie des heures -, faire du Christ le coeur du monde ». Cette phrase illustre l’indomptable optimisme chrétien qui a fait dire à une mystique au Moyen-âge: « Le péché est inéluctable, mais tout finira bien, toute chose, qu’elle quelle soit finira bien » (Julienne de Norwich). * * * Les moines chartreux ont adopté un blason qui figure à l’entrée de leurs monastères et dans leurs documents officiels. Celui-ci représente le globe terrestre, surmonté d’une croix, entouré de l’inscription Stat crux dum volvitur orbis, « la croix demeure tandis que le monde tourne ». Que représente la croix, pour être ce point ferme, ce pivot principal dans un monde en fluctuation ? C’est qu’elle est le « Non » définitif et irréversible de Dieu à la violence, à l’injustice, à la haine, au mensonge, à tout ce que nous appelons « le mal » ; et elle est en même temps le « Oui » tout aussi irréversible à l’amour, à la vérité, au bien. « Non » au péché, « Oui » au pécheur. C’est ce que Jésus a pratiqué toute sa vie et qu’il consacre maintenant définitivement par sa mort. La raison de cette distinction est claire: le pécheur est une créature de Dieu et conserve sa dignité, malgré tous ses égarements. Le péché, non; celui-ci est une réalité « parasite », ajoutée, fruit de nos passions et de « l’envie du diable » (Sg 2, 24). C’est la même raison pour laquelle le Verbe, en s’incarnant, a tout pris de l’homme, sauf le péché. Le bon larron, auquel Jésus mourant promet le paradis, est la démonstration vivante de tout cela. La croix « n’est » donc pas contre le monde, mais pour le monde: pour donner un sens à toute la souffrance qu’il y a eu, qu’il y a et qu’il y aura dans l’histoire humaine. « Dieu a envoyé son Fils dans le monde, non pas pour juger le monde – dit Jésus à Nicodème - mais pour que, par lui, le monde soit sauvé » (Jn 3, 17). La croix est la proclamation vivante que la victoire finale n’appartient pas à ceux qui l’emportent sur les autres, mais à ceux qui l’emportent sur eux-mêmes ; non à ceux qui font souffrir, mais à ceux qui souffrent. * * * « Dum volvitur orbis », tandis que le monde tourne. L’histoire humaine connaît beaucoup de passages d’une ère à l’autre: on parle de l’âge de la pierre, du bronze, du fer, de l’ère impériale, de l’ère atomique, de l’ère électronique. Mais aujourd’hui il y a quelque chose de nouveau. L’idée de transition ne suffit plus pour décrire la réalité en cours. Il faut ajouter à l’idée de mutation celle de la fragmentation. Nous vivons, a-t-on écrit, dans une société « liquide » ; il n’existe plus de points fixes, de valeurs indiscutables, plus de rocher dans la mer auquel s’agripper, ou contre lequel se heurter. Tout est fluctuant. S’est réalisée la pire des hypothèses que le philosophe avait prévue comme effet de la mort de Dieu, celle que l’avènement du super-homme aurait du empêcher, mais qu’il n’a pas empêché: « Qu'avons-nous fait lorsque nous avons détaché cette terre de la chaîne de son soleil ? Où la conduisent maintenant ses mouvements ? Où la conduisent nos mouvements ? Loin de tous les soleils ? Ne tombons-nous pas sans cesse ? En avant, en arrière, de côté, de tous les côtés ? Y a-t-il encore un en-haut et un en-bas ? N’errons-nous pas comme à travers un néant infini ? » (F. Nietzsche, Le gai savoir, aphorisme 125). Il a été dit que « tuer Dieu est le plus horrible des suicides », et c’est ce à quoi nous assistons en partie. Ce n’est pas vrai que « là où Dieu naît, l’homme meurt » (J.-P. Sartre); c’est le contraire qui est vrai: là où Dieu meurt, l’homme meurt. Un peintre surréaliste de la seconde moitié du siècle dernier (Salvador Dalí) a peint un crucifix qui, semble-t-il, est une prophétie de cette situation. Une immense croix, cosmique, avec dessus un Christ, aussi monumental, vu d’en haut, la tête penchée vers le bas. Mais pas de terre ferme sous la croix, de l’eau. Le crucifix n’est pas suspendu entre ciel et terre, mais entre le ciel et l’élément liquide du monde. Cette image tragique (il y a en toile de fond un nuage qui pourrait être une allusion au nuage atomique), suggère cependant une certitude qui nous console: que l’espérance existe aussi pour une société liquide comme la nôtre ! Elle existe parce qu’au-dessus d’elle « se tient la croix du Christ ». C’est ce que la liturgie du vendredi saint nous fait répéter chaque année en clamant les paroles du poète Venance Fortunat : O crux, ave spe unica, « Salut, ô Croix, unique espérance du monde ». Oui, Dieu est mort, il est mort dans son Fils Jésus Christ; mais il n’est pas resté dans la tombe, il est ressuscité. « Vous l’avez crucifié – crie Pierre à la foule le jour de la Pentecôte -, mais Dieu l’a ressuscité! » (Ac 2, 23-24). Il est celui qui « était mort, et le voilà vivant pour les siècles des siècles » (Ap 1, 18). La croix ne reste pas immobile « tandis que le monde tourne », comme si c’était le simple souvenir d’un événement passé, ou un pur symbole ; elle est présente tout au long de l’histoire, comme réalité en cours, vivante et agissante. * * * Mais nous ne devons pas nous arrêtions, comme les sociologues, à l’analyse de la société dans laquelle nous vivons. Le Christ n’est pas venu expliquer les choses, mais changer les personnes. Le coeur de ténèbres n’est pas celui d’un quelconque malfaisant caché au fin fond de la jungle, ni celui de la société qui l’a produit. Il est présent à différents degrés en chacun de nous. La Bible l’appelle « coeur de pierre »: « J’ôterai de votre chair le coeur de pierre – dit le Seigneur dans Ezéchiel -, et je vous donnerai un coeur de chair » (Ez 36, 26). Un coeur de pierre est un coeur fermé à la volonté de Dieu et à la souffrance de nos frères, le coeur de ceux qui accumulent à l’infini des sommes d’argent et restent indifférents au désespoir de ceux qui n’ont même pas un verre d’eau à donner à leur enfant; c’est aussi le coeur de ceux qui se laissent complètement dominer par la passion impure, prêts à tuer pour elle, ou a conduire une double vie. Pour ne pas rester le regard toujours tourné vers l’extérieur, vers les autres, disons plus concrètement: c’est notre coeur de ministres de Dieu et de chrétiens pratiquants si nous vivons fondamentalement « pour nousmêmes » et non « pour le Seigneur ». Il est écrit qu’au moment de la mort du Christ « le voile du sanctuaire se fendit en deux, du haut en bas, la terre trembla, les rochers se fendirent, les sépulcres s'ouvrirent et les corps de beaucoup de saints défunts ressuscitèrent » (Mt 27,51s.). On donne généralement à ces signes une explication apocalyptique, comme d’un langage symbolique apte à décrire l’événement eschatologique. Mais ces signes ont également une signification parénétique: ils indiquent ce qui doit se passer dans le coeur de ceux qui lisent et méditent la Passion du Christ. Dans une liturgie comme celle d’aujourd’hui, saint Léon le Grand disait aux fidèles: « Que la nature humaine tremble devant le supplice du Rédempteur, que les pierres des coeurs infidèles se fendent et que ceux qui étaient enfermés dans les sépulcres de leur mortalité sortent, en soulevant la pierre qui reposait sur eux » (Sermo 66, 3; PL 54, 366). Le coeur de chair, promis par Dieu dans les prophètes, est désormais présent dans le monde : c’est le coeur du Christ transpercé sur la croix, que nous vénérons comme « le Sacré Coeur ». En recevant l’Eucharistie, nous croyons fermement que ce coeur se met à battre aussi en nous. En regardant tout à l’heure la croix disons du plus profond de notre coeur, comme le publicain dans le Temple: « Mon Dieu, ai pitié de moi pécheur ! » et nous aussi, comme lui, nous rentrerons chez nous « justifiés » (Lc 18, 13-14).   
Traduzione in lingua inglese 
“O CRUX, AVE SPES UNICA” The Cross, the Only Hope of the World We have listened to the story of the Passion of Christ. Apparently nothing more than the account of a violent death, and news of violent deaths are rarely missing in any evening news. Even in recent days there were many of them, including those of 38 Christians Copts in Egypt killed on Palm Sunday. These kinds of reports follow each other at such speed that we forget one day those of the day before. Why then are we here to recall the death of a man who lived 2000 years ago? The reason is that this death has changed forever the very face of death and given it a new meaning. Let us meditate for a while on it. “When they came to Jesus and saw that he was already dead, they did not break his legs. But one of the soldiers pierced his side with a spear, and at once there came out blood and water” (Jn 19:33- 34). At the beginning of his ministry, in response to those who asked him by what authority he chased the merchants from the temple, Jesus answered, “Destroy this temple, and in three days I will raise it up” (Jn 2:19). John comments on this occasion, “he spoke of the temple of his body” (Jn 2:21), and now the same Evangelist testifies that blood and water flowed from the side of this “destroyed” temple. It is a clear allusion to the prophecy in Ezekiel about a future temple of God, with water flowing from its side that was at first a stream and then a navigable river, and every form of life flourished around it (see Ezek 47:1ff). But let us enter more deeply into the source of the “rivers of living water” (Jn 7:38) coming from the pierced heart of Christ. In Revelation the same disciple whom Jesus loved writes, “Between the throne and the four living creatures and among the elders, I saw a Lamb standing, as though it had been slain” (Rev 5:6). Slain, but standing, that is, pierced but resurrected and alive. There exists now, within the Trinity and in the world, a human heart that beats not just metaphorically but physically. If Christ, in fact, has been raised from the dead, then his heart has also been raised from the dead; it is alive like the rest of his body, in a different dimension than before, a real dimension, even if it is mystical. If the Lamb is alive in heaven, “slain, but standing,” then his heart shares in that same state; it is a heart that is pierced but living—eternally pierced, precisely because he lives eternally. There has been a phrase created to describe the depths of evil that can accumulate in the heart of humanity: “the heart of darkness.” After the sacrifice of Christ, more intense than the heart of darkness, a heart of light beats in the world. Christ, in fact, in ascending into heaven, did not abandon the earth, just as he did not abandon the Trinity in becoming incarnate. An antiphon in the Liturgy of the Hours says, “the plan of the Father” is now fulfilled in “making Christ the heart of the world.” This explains the unshakeable Christian optimism that led a medieval mystic to exclaim that it is to be expected that “there should be sin; but all shall be well, and all shall be well, and all manner of thing [sic] shall be well” (Julian of Norwich). * * * The Carthusian monks have adopted a coat of arms that appears at the entrance to their monastery, in their official documents, and in other settings. It consists of a globe of the earth surmounted by a cross with writing around it that says, “Stat crux dum volvitur orbis” (“The Cross stands firm as the world turns”). What does the cross represent in being this fixed point, this mainmast in the undulation of the world? It is the definitive and irreversible “no” of God to violence, injustice, hate, lies—to all that we call “evil,” and at the same it is equally the irreversible “yes” to love, truth, and goodness. “No” to sin, “yes” to the sinner. It is what Jesus practiced all his life and that he now definitively consecrates with his death. The reason for this differentiation is clear: sinners are creatures of God and preserve their dignity, despite all their aberrations; that is not the case for sin; it is a spurious reality that is added on, the result of one’s passions and of the “the devil’s envy” (Wis 2:24). It is the same reason for which the Word, in becoming incarnate, assumed to himself everything human except for sin. The good thief to whom the dying Jesus promised paradise, is the living demonstration of all this. No one should give up hope; no one should say, like Cain, “My sin is too great to be forgiven” (see Gen 4:13). The cross, then, does not “stand” against the world but for the world: to give meaning to all the suffering that has been, that is, and that will be in human history. Jesus says to Nicodemus, “God sent the Son into the world, not to condemn the world, but that the world might be saved through him” (Jn 3:17). The cross is the living proclamation that the final victory does not belong to the one who triumphs over others but to the one who triumphs over self; not to the one who causes suffering but to the one who is suffering. * * * “Dum volvitur orbis,” as the world turns. Human history has seen many transitions from one era to another; we speak about the stone age, the bronze age, the iron age, the imperial age, the atomic age, the electronic age. But today there is something new. The idea of a transition is no longer sufficient to describe our current situation. Alongside the idea of a change, one must also place the idea of a dissolution. It has been said that we are now living in a “liquid society.” There are no longer any fixed points, any undisputed values, any rock in the sea to which we can cling or with which we can collide. Everything is in flux. The worst of the hypotheses the philosopher had foreseen as the effect of the death of God has come to pass, which the advent of the super-man was supposed to prevent but did not prevent: “What did we do when we loosened this earth from its sun? Whither does it now move? Whither do we move? Away from all suns? Do we not dash on unceasingly? Backwards, sideways, in all directions? Is there still an above and below? Do we not stray, as through infinite nothingness?” (Nietzsche, Gay Science, aphorism 125). It has been said that “killing God is the most horrible of suicides,” and that is in part what we are seeing. It is not true that “where God is born, man dies” (Jean-Paul Sartre). Just the opposite is true: where God dies, man dies. A surrealist artist from the second half of the last century (Salvador Dalí) painted a crucifix that seems to be a prophecy of this situation. It depicts an immense, cosmic cross with an equally immense Christ seen from above with his head tilted downward. Below him, however, is not land but water. The Crucified One is not suspended between heaven and earth but between heaven and the liquid element of the earth. This tragic image (there is also in the background a cloud that could allude to an atomic cloud) nevertheless contains a consoling certainty: there is hope even for a liquid society like ours! There is hope because above it “the cross of Christ stands.” This is what the liturgy for Good Friday has us repeat every year with the words of the poet Venanzio Fortunato: “O crux, ave spes unica,” “Hail, O Cross, our only hope.” Yes, God died, he died in his Son Christ Jesus; but he did not remain in the tomb, he was raised. “You crucified and killed Him,” Peter shouts to the crowd on the day of Pentecost, “But God raised him up” (see Act 2:23-24). He is the one who “died but is now alive for evermore” (see Rev 1:18). The cross does not “stand” motionless in the midst of the world’s upheavals as a reminder of a past event or a mere symbol; it is an ongoing reality that is living and operative. * * * We would make this liturgy of the Passion pointless, however, if we stopped, like the sociologists, at the analysis of the society in which we live. Christ did not come to explain things but to change human beings. The heart of darkness is not only that of some evil person hidden deep in the jungle, nor is it only that of the western society that produced it. It is in each one of us in varying degrees. The Bible calls it a heart of stone: “I will take out of your flesh the heart of stone,” God says through the prophet Ezekiel, “and give you a heart of flesh” (Ez 36:26). A heart of stone is a heart that is closed to God’s will and to the suffering of brothers and sisters, a heart of someone who accumulates unlimited sums of money and remains indifferent to the desperation of the person who does not have a glass of water to give to his or her own child; it is also the heart of someone who lets himself or herself be completely dominated by impure passion and is ready to kill for that passion or to lead a double life. Not to keep our gaze turned only outward toward others, we can say that this also actually describes our hearts as ministers for God and as practicing Christians if we still live fundamentally “for ourselves” and not “for the Lord.” It is written that at the moment of Christ’s death, “The curtain of the temple was torn in two, from top to bottom; and the earth shook, and the rocks were split; the tombs also were opened, and many bodies of the saints who had fallen asleep were raised” (Matt 27:51). These signs are generally given an apocalyptic explanation as if it is the symbolic language needed to describe the eschatological event. But these signs also have a parenetic significance: they indicate what should happen in the heart of a person who reads and meditates on the Passion of Christ. In a liturgy like today’s, St. Leo the Great said to the faithful, “The earth—our earthly nature—should tremble at the suffering of its Redeemer. The rocks—the hearts of unbelievers—should burst asunder. The dead, imprisoned in the tombs of their mortality, should come forth, the massive stones now ripped apart.” (“Sermon 66,” 3; PL 54, 366). The heart of flesh, promised by God through the prophets, is now present in the world: it is the heart of Christ pierced on the cross, the heart we venerate as the “Sacred Heart.” In receiving the Eucharist we firmly believe his very heart comes to beat inside of us as well. As we are about to gaze upon the cross, let us say from the bottom of our hearts, like the tax collector in the temple, “God, be merciful to me a sinner!” and then we too, like he did, will return home “justified” (Lk 18:13-14).  Traduzione in lingua spagnola
 « O CRUX, AVE, SPES UNICA» 
La cruz, única esperanza del mundo Acabamos de escuchar el relato de la Pasión de Cristo. Nada más que la crónica de una muerte violenta. Nunca faltan noticias de muertos asesinados en nuestros noticiarios. Incluso en estos últimos días ha habido algunas, como la de los 38 cristianos coptos asesinados en Egipto. ¿Por qué, entonces, después de 2000 años, el mundo recuerda todavía la muerte de Jesús de Nazaret como si hubiera pasado ayer? El motivo es que su muerte ha cambiado el sentido mismo de la muerte. Reflexionemos algunos instantes sobre todo esto. «Al llegar a Jesús, viendo que ya estaba muerto, no le rompieron las piernas, sino que uno de los soldados con una lanza le atravesó el costado, e inmediatamente salió sangre y agua» (Jn 19,33-34). Al comienzo de su ministerio, a quien le preguntaba con qué autoridad expulsaba a los mercaderes del Templo, Jesús respondió: «Destruid este templo, y en tres días lo levantaré». «Él hablaba del templo de su cuerpo» (Jn 2,19.21), había comentado Juan en aquella ocasión, y he aquí que ahora el mismo evangelista nos atestigua que del lado de este templo «destruido» brotan agua y sangre. Es una alusión evidente a la profecía de Ezequiel que hablaba del futuro templo de Dios, del lado del que brota un hilo de agua que se convierte primero en riachuelo, luego un río navegable y en torno al cual florece toda forma de vida (cf. Ez 47, 1 ss.). Pero penetremos dentro de la fuente de este «río de agua viva» (Jn 7,38), en el corazón traspasado de Cristo. En el Apocalipsis, el mismo discípulo al que Jesús amaba escribe: «Luego vi, en medio del trono, rodeado por los cuatro seres vivientes y los ancianos, un Cordero, en pie, como inmolado» (Ap 5,6). Inmolado, pero en pie, es decir, traspasado, pero resucitado y vivo. Existe ya, dentro de la Trinidad y dentro del mundo, un corazón humano que late, no sólo metafóricamente, sino realmente. Si, en efecto, Cristo ha resucitado de la muerte, también su corazón ha resucitado de la muerte; él vive, como todo el resto de su cuerpo, en una dimensión distinta de antes, real, aunque mística. Si el Cordero vive en el cielo «inmolado, pero de pie», también su corazón comparte el mismo estado; es un corazón traspasado pero viviente; eternamente traspasado, precisamente porque está eternamente vivo. Fue creada una expresión para describir el colmo de la maldad que puede amasarse en el seno de la humanidad: «corazón de tinieblas». Tras el sacrificio de Cristo, más profundo que el corazón de tinieblas, palpita en el mundo un corazón de luz. En efecto, Cristo al subir al cielo, no ha abandonado la tierra, como, al encarnarse, no había abandonado la Trinidad. «Ahora se realiza el designio del Padre —dice una antífona de la Liturgia de las Horas—, hacer Cristo el corazón del mundo». Esto explica el irreductible optimismo cristiano que hizo exclamar a una mística medieval: «El pecado es inevitable, pero todo estará bien y todo tipo de cosa estará bien» (Juliana de Norwich). * * * Los monjes cartujos adoptaron un escudo que figura en la entrada de sus monasterios, en sus documentos oficiales y en otras ocasiones. En él está representado el globo terráqueo, rematado por una cruz, con una inscripción alrededor: «Stat crux dum volvitur orbis: está inmóvil la cruz, entre las evoluciones del mundo. ¿Qué representa la cruz, para que sea este punto fijo, este árbol maestro entre la agitación del mundo? Ella es el «No» definitivo e irreversible de Dios a la violencia, a la injusticia, al odio, a la mentira, a todo lo que llamamos «el mal»; y, al mismo tiempo, es el «Sí», igualmente irreversible, al amor, a la verdad, al bien. «No» al pecado, «Sí» al pecador. Es lo que Jesús ha practicado durante toda su vida y que ahora consagra definitivamente con su muerte. La razón de esta distinción es clara: el pecador es criatura de Dios y conserva su dignidad a pesar de todos sus desvíos; el pecado no; es una realidad espuria, añadida, fruto de las propias pasiones y de la «envidia del demonio» (Sab 2,24). Es la misma razón por la que el Verbo, al encarnarse, asumió todo del hombre, excepto el pecado. El buen ladrón, a quien Jesús moribundo promete el paraíso, es la demostración viva de todo esto. Nadie debe desesperar; nadie debe decir, como Caín: «Demasiado grande es mi culpa para obtener el perdón» (Gén 4,13). La cruz no «está», pues, contra el mundo, sino para el mundo: para dar un sentido a todo el sufrimiento que ha habido, hay y habrá en la historia humana. «Dios no envió a su Hijo al mundo para condenar el mundo —dice Jesús a Nicodemo—, sino para que el mundo se salve por medio de él» (Jn 3,17). La cruz es la proclamación viva de que la victoria final no es de quien triunfa sobre los demás, sino de quien triunfa sobre sí mismo; no de quien hace sufrir, sino de quien sufre. * * * «Dum volvitur orbis», mientras que el mundo realiza sus evoluciones. La historia humana conoce muchos tránsitos de una era a otra: se habla de la edad de piedra, del bronce, hierro, de la edad imperial, de la era atómica, de la era electrónica. Pero hoy hay algo nuevo. La idea de transición no basta ya para describir la realidad en curso. A la idea de mutación se debe agregar la de aplastamiento. Vivimos, se ha escrito, en una sociedad «líquida»; ya no hay puntos firmes, valores indiscutibles, ningún escollo en el mar, a los que aferrarnos, o contra los cuales incluso chocar. Todo es fluctuante. Se ha realizado la peor de las hipótesis que el filósofo había previsto como efecto de la muerte de Dios, la que el advenimiento del super-hombre debería haber evitado, pero que no ha impedido: «Qué hicimos para disolver esta tierra de la cadena de su sol? ¿Dónde se mueve ahora? ¿Dónde nos movemos nosotros? ¿Fuera de todos los soles? ¿No es el nuestro un eterno precipitar? ¿Hacia atrás, de lado, hacia adelante, por todos los lados? ¿Existe todavía un alto y un bajo? ¿No estamos acaso vagando como a través de una nada infinita. (F. NIETZSCHE, La gaya ciencia, aforismo 125 (Edaf, Madrid 2002)) Se dijo que «matar a Dios es el más horrendo de los suicidios», y es lo que estamos viendo. No es verdad que «donde nace Dios, muere el hombre» (J.-P. SARTRE); es verdad lo contrario: donde muere Dios, muere el hombre. Un pintor surrealista de la segunda mitad del siglo pasado (Salvador Dalí) pintó un crucificado que parece una profecía de esta situación. Una cruz inmensa, cósmica, con un Cristo encima, igualmente monumental, visto desde arriba, con la cabeza reclinada hacia abajo. Sin embargo, debajo de él no existe la tierra firme, sino el agua. El crucifijo no está suspendido entre cielo y tierra, sino entre el cielo y el elemento líquido del mundo. Esta imagen trágica (hay también como trasfondo, una nube que podría aludir a la nube atómica), contiene, sin embargo, una certeza consoladora: ¡Hay esperanza incluso para una sociedad líquida como la nuestra! Hay esperanza, porque encima de ella «está la cruz de Cristo». Es lo que la liturgia del Viernes Santo nos hace repetir cada año con las palabras del poeta Venancio Fortunato: «O crux, ave spes única», Salve, oh cruz, esperanza única del mundo. Sí, Dios ha muerto, ha muerto en su Hijo Jesucristo; pero no ha permanecido en la tumba, ha resucitado. «¡Vosotros lo crucificasteis —grita Pedro a la multitud el día de Pentecostés—, pero Dios lo ha resucitado!» (Hch 2,23-24). Él es quien «había muerto, pero ahora vive por los siglos» (Ap 1,18). La cruz no «está» inmóvil en medio de los vaivenes del mundo como recuerdo de un acontecimiento pasado, o un puro símbolo; está en él como una realidad en curso, viva y operante. * * * Sin embargo, confundiríamos esta liturgia de la pasión, si nos detuviéramos, como los sociólogos, en el análisis de la sociedad en que vivimos. Cristo no ha venido a explicar las cosas, sino a cambiar a las personas. El corazón de tinieblas no es solamente el de algún malvado escondido en el fondo de la jungla, y tampoco el de la nación y el de la sociedad que lo ha producido. En distinta medida está dentro de cada uno de nosotros. La Biblia lo llama el corazón de piedra: «Arrancaré de ellos el corazón de piedra —dice Dios en el profeta Ezequiel— y les daré un corazón de carne» (Ez 36,26). Corazón de piedra es el corazón cerrado a la voluntad de Dios y al sufrimiento de los hermanos, el corazón de quien acumula sumas ilimitadas de dinero y queda indiferente ante la desesperación de quien no tiene un vaso de agua para dar al propio hijo; es también el corazón de quien se deja dominar completamente por la pasión impura, dispuesto a matar por ella, o a llevar una doble vida. Para no quedarnos con la mirada siempre dirigida hacia el exterior, hacia los demás, digamos, más concretamente: es nuestro corazón de ministros de Dios y de cristianos practicantes si vivimos todavía fundamentalmente «para nosotros mismos» y no «para el Señor». Está escrito que en el momento de la muerte de Cristo «el velo del templo se rasgó en dos, de arriba a abajo, la tierra tembló, las rocas se rompieron, los sepulcros se abrieron y muchos cuerpos de santos muertos resucitaron» (Mt 27,51s). De estos signos se da, normalmente, una explicación apocalíptica, como de un lenguaje simbólico necesario para describir el acontecimiento escatológico. Pero también tienen un significado parenético: indican lo que debe suceder en el corazón de quien lee y medita la Pasión de Cristo. En una liturgia como la presente, san León Magno decía a los fieles: «Tiemble la naturaleza humana ante el suplicio del Redentor, rómpanse las rocas de los corazones infieles y salgan los que estaban cerrados en los sepulcros de su mortalidad, levantando la piedra que gravaba sobre ellos» (SAN LEÓN MAGNO, Sermo 66, 3: PL 54, 366). . El corazón de carne, prometido por Dios en los profetas, está ya presente en el mundo: es el Corazón de Cristo traspasado en la cruz, lo que veneramos como «el Sagrado Corazón». Al recibir la Eucaristía, creemos firmemente que ese corazón viene a latir también dentro de nosotros. Al mirar dentro de poco la cruz digamos desde lo profundo del corazón, como el publicano en el templo: «¡Oh, Dios, ten piedad de mí, pecador!, y también nosotros, como él, volveremos a casa «justificados» (Lc 18,13-14) .   
Traduzione in lingua portoghese 
"O CRUX, AVE SPES UNICA” A cruz, única esperança do mundo Escutamos a narrativa da Paixão de Cristo. Trata-se, essencialmente, do relato de uma morte violenta. Notícias de mortes, e mortes violentas, quase nunca faltam nos noticiários vespertinos. Também nestes últimos dias, temos escutado tais notícias, como a dos 38 cristãos coptas assassinados no Egito no Domingo de Ramos. Estas notícias se sucedem com tal rapidez, que nos fazem esquecer, a cada noite, as do dia anterior. Por que, então, após 2000 anos, o mundo ainda recorda, como se tivesse acontecido ontem, a morte de Cristo? É que esta morte mudou para sempre o rosto da morte; ela deu um novo sentido à morte de cada ser humano. Sobre ela, reflitamos por um momento. "Chegando, porém, a Jesus, como o vissem já morto, não lhe quebraram as pernas, mas um dos soldados abriu-lhe o lado com uma lança e, imediatamente, saiu sangue e água" (Jo 19, 33-34). No início do seu ministério, àqueles que lhe perguntavam com qual autoridade ele expulsava os vendedores do templo, Jesus disse: "Destruí este templo e em três dias eu o levantarei". "Ele falava do templo do seu corpo" (Jo 2, 19. 21), havia comentado João naquela ocasião, e eis que agora o próprio evangelista nos diz que do lado deste templo "destruído" jorram água e sangue. É uma clara alusão à profecia de Ezequiel que falava do futuro templo de Deus, daquele lado do qual jorra um fio de água que se torna primeiro um riacho, depois um rio navegável, em torno do qual floresce toda forma de vida. Mas, penetremos no epicentro da fonte deste “rio de água viva” (Jo 7, 38), no coração trespassado de Cristo. No Apocalipse, o mesmo discípulo que Jesus amava escreve: "Com efeito, entre o trono com os quatro Viventes e os Anciãos, vi um Cordeiro de pé, como que imolado” (Ap 5, 6). Imolado, mas de pé, ou seja, trespassado, mas ressuscitado e vivo. Existe agora, dentro da Trindade e dentro do mundo, um coração humano que bate, não só metaforicamente, mas realmente. Se, de fato, Cristo ressuscitou dentre os mortos, também o seu coração ressuscitou dentre os mortos; este coração vive, como todo o resto do seu corpo, em uma dimensão diferente da primeira, real, embora mística. Se o Cordeiro vive no céu "imolado, mas de pé”, também o seu coração compartilha o mesmo estado; é um coração trespassado, mas vivente; eternamente trespassado, precisamente porque eternamente vivente. Há uma expressão que foi criada justamente para descrever a profundidade da maldade que pode aglutinar-se no seio da humanidade: “coração de trevas”. Depois do sacrifício de Cristo, mais profundo do que o coração de trevas, palpita no mundo um coração de luz. Cristo, de fato, subindo ao céu, não abandonou a terra, assim como, encarnando-se, não tinha abandonado a Trindade. "Agora cumpre-se o plano do Pai – diz uma antífona da Liturgia das horas – , fazer de Cristo o coração do mundo”. Isso explica o irredutível otimismo cristão que fez uma mística medieval exclamar: "O pecado é inevitável, mas tudo ficará bem e todo tipo de coisa ficará bem " (Juliana de Norwich). * * * Os monges cartuxos adotaram um lema que aparece na entrada de seus mosteiros, nos seus documentos oficiais e em outras ocasiões. Nele está representado o globo terrestre encimado por uma cruz, rodeado pela inscrição: "Stat crux dum volvitur orbis": A Cruz permanece intacta enquanto o Mundo dá sua órbita. O que é a cruz, para ser esse ponto fixo, este mastro, no meio dos balanços do mundo"? Ela é o "Não" definitivo e irreversível de Deus à violência, à injustiça, ao ódio, à mentira, a tudo aquilo que nós chamamos de “mal”; e é ao mesmo tempo o “Sim” também irreversível ao amor, à verdade, ao bem. “Não” ao pecado, “Sim” ao pecador. É o que Jesus praticou em toda a sua vida e que agora consagra definitivamente com a sua morte. A razão para esta distinção é clara: o pecador é criatura de Deus e mantém a sua dignidade, apesar de todos os seus desvios; o pecado não; este, é uma realidade espúria, adendo, fruto das próprias paixões e da “inveja do demônio” (Sb 2, 24). É a mesma razão pela qual o Verbo, encarnando-se, assumiu todo do homem, exceto o pecado. O bom ladrão, a quem Jesus moribundo promete o paraíso, é a prova viva de tudo isso. Ninguém deve se desesperar; ninguém deve dizer, como Caim: "Muito grande é a minha culpa para obter o perdão" (Gn 4, 13). A cruz não "está", portanto, contra o mundo, mas pelo mundo: para dar um sentido a todo o sofrimento que houve, que há e que haverá na história humana. "Deus não enviou o Filho ao mundo para condenar o mundo – diz Jesus a Nicodemos –, mas para que o mundo seja salvo por Ele" (Jo 3, 17). A cruz é a proclamação viva de que a vitória final não é de quem triunfa sobre os outros, mas de quem triunfa sobre si mesmo; não daqueles que causam sofrimento, mas daqueles que sofrem. * * * "Dum volvitur Orbis", enquanto o mundo dá a sua órbita. A história humana conhece muitas passagens de uma época para outra: se fala da idade da pedra, do bronze, do ferro, da era Imperial, da era atômica, da era eletrônica. Mas hoje há algo de novo. A ideia de transição já não é suficiente para descrever a realidade atual. A ideia de mutação deve ser combinada com a de fragmentação. Vivemos, alguém escreveu, em uma sociedade "líquida"; não existem mais pontos fixos, valores incontestáveis, nenhuma rocha no mar, à qual possamos nos agarrar, ou contra a qual colidir. Tudo é flutuante. Realizou-se o pior cenário que o filósofo havia previsto como resultado da morte de Deus, que o advento do super-homem deveria ter impedido, mas que não impediu: "Que fizemos quando desprendemos esta terra da corrente que a ligava ao sol? Para onde vai agora? Para onde vamos nós? Longe de todos os sóis? Não estamos incessantemente caindo? Para diante, para trás, para o lado, para todos os lados? Haverá ainda um acima e um abaixo? Não estaremos errando como num nada infinito?” (F. Nietzsche, A Gaia Ciência, aforismo 125). Foi dito que "matar Deus é o suicídio mais horrendo", e é isso que estamos vendo em parte. Não é verdade que "onde Deus nasce, o homem morre" (J.-P Sartre); o oposto é verdadeiro: onde morre Deus, morre o homem. Um pintor surrealista da segunda metade do século passado (Salvador Dalì) pintou um crucifixo que parece uma profecia desta situação. Uma imensa cruz, cósmica, com um Cristo acima, também monumental, visto do alto, com a cabeça inclinada para baixo. Abaixo dele, no entanto, não há nenhuma terra firme, mas a água. O Crucifixo não está suspenso entre o céu e a terra, mas entre o céu e o componente líquido do mundo. Este quadro trágico (há também, no fundo, uma nuvem que poderia aludir à nuvem atômica), contém, no entanto, uma consoladora certeza: há esperança também para uma sociedade líquida como a nossa! Há esperança, porque acima dela "está a cruz de Cristo". É o que a liturgia da Sextafeira Santa nos faz repetir todos os anos com as palavras do poeta Venanzio Fortunato: "O crux, ave spe unica”, Salve, ó Cruz, única esperança do mundo. Sim, Deus está morto, morreu em seu Filho Jesus Cristo; mas não ficou no sepulcro, ressuscitou. "Vós o crucificastes – grita Pedro à multidão no dia de Pentecostes –, mas Deus o ressuscitou!” (At 2, 23-24). Ele é aquele que "estava morto, mas agora vive pelos séculos dos séculos" (Ap 1, 18). A cruz não “está” imóvel no meio das turbulências do mundo" como um lembrete de um evento passado, ou um puro símbolo; está como uma realidade em ato, viva e operante. * * * Tornaríamos vã, no entanto, esta liturgia da Paixão, se ficássemos, como os sociólogos, na análise da sociedade em que vivemos. Cristo não veio para explicar as coisas, mas para mudar as pessoas. O coração de trevas não é apenas aquele de algum malvado escondido no fundo da selva, e nem mesmo aquele da nação e da sociedade que o produziu. Em diferente medida está dentro de cada um de nós. A Bíblia o chama de coração de pedra, "Tirarei do vosso peito o coração de pedra – diz Deus ao profeta Ezequiel – vos darei um coração de carne " (Ez 36, 26). Coração de Pedra é o coração fechado à vontade de Deus e ao sofrimento dos irmãos, o coração de quem acumula quantidades ilimitadas de dinheiro e permanece indiferente ao desespero de quem não tem um copo de água para dar ao próprio filho; é também o coração de quem se deixa completamente dominar pela paixão impura, pronto para matar ou a levar uma vida dupla. Para não ficarmos com o olhar sempre dirigido para o exterior, para os demais, digamos mais concretamente: é o nosso coração de ministros de Deus e de cristãos praticantes se vivemos ainda, basicamente, “para nós mesmos” e não “para o Senhor”. Está escrito que no momento da morte de Cristo "o véu do templo se rasgou em dois, de alto a baixo, a terra tremeu, e as rochas se partiram, os túmulos se abriram e muitos corpos de santos mortos ressuscitaram" (Mt 27, 51s.). Destes sinais se dá, normalmente, uma explicação apocalíptica, como de uma linguagem simbólica necessária para descrever o evento escatológico. Mas eles também têm um significado parenético: indicam o que deve acontecer no coração de quem lê e medita a Paixão de Cristo. Em uma liturgia como esta, São Leão Magno dizia aos fieis: “Trema a natureza humana perante a execução do Redentor, quebrem-se as rochas dos corações infiéis e aqueles que estavam encerrados nos sepulcros de sua mortalidade saiam para fora, levantando a pedra que estava sobre eles" (Sermo 66, 3; PL 54, 366). O coração de carne, prometido por Deus nos profetas, já está presente no mundo: é o Coração de Cristo trespassado na cruz, aquele que veneramos como “o Sagrado Coração”. Ao receber a Eucaristia, acreditamos firmemente que aquele coração vem bater também dentro de nós. Olhando para a cruz daqui a pouco digamos do profundo do coração, como o publicano no templo: "Meu Deus, tem piedade de mim, pecador!”, e também nós, como ele, voltaremos para casa “justificados” (Lc 18, 13-14).