venerdì 4 agosto 2017

Sulla compatibilità tra meditazione Zen e cristianesimo



Anticipiano stralci da un articolo che esce sul prossimo numero della «Civiltà cattolica». L’autore, gesuita tedesco, docente di teologia e filosofia, ha vissuto dieci anni in Giappone per imparare le tecniche di meditazione.

(Hans Waldenfels) Diversamente dall’islam, il buddismo si presenta alla pubblica attenzione in tono più sommesso. Tuttavia, in un’epoca caratterizzata dall’attivismo e da un’agitazione febbrile, esso offre una via alternativa a coloro che sono in ricerca dal punto di vista religioso. 
Tanto più che in vasti strati della vita pubblica non si collega più l’invito al silenzio e alla meditazione con la Chiesa cristiana.
Nelle Chiese tuttavia si offrono molteplici opportunità di riflessione, nelle quali non di rado si sono introdotti anche stimoli di provenienza asiatica. E in tal senso, al di là della semplice attrazione verso pratiche asiatiche, se ne utilizzano anche elementi specifici. Intendiamo qui affrontare ciò che viene proposto con la meditazione buddista, e in particolare vorremmo parlare degli esercizi dello Zen nel modo con cui esso viene praticato da non buddisti, e soprattutto da cristiani. 
Un motivo che ci induce a parlarne è che la forma religiosa della meditazione asiatica è giunta in occidente attraverso lo Zen giapponese, mentre lo Yoga ha trovato più ampio spazio in ambiente secolare come allenamento psicosomatico. Inoltre, l’uso del termine Zen, divenuto di moda, si estende a proposte molteplici, e in parte ciò è dovuto a «maestri» che si definiscono tali e si autorizzano da soli. D’altra parte, oggi non è più tollerabile la superficialità con cui nei secoli passati si sono espressi talvolta giudizi su ciò che è eretico o meno, tanto più che è necessario distinguere chiaramente tra teoria e prassi.
Ora, in tutte le culture, accanto alla conoscenza razionale — che si può esprimere in maniera discorsiva — sono presenti anche forme di conoscenza nelle quali gli uomini comunicano tra loro senza usare le parole. Tommaso d’Aquino parla di cognitio per connaturalitatem, intendendo con questo una conoscenza fondata su un’uguaglianza e una vicinanza spirituale, una «connaturalità». John Henry Newman ha scelto come suo motto cardinalizio la frase cor ad cor loquitur (il cuore parla al cuore).
Negli anni passati si leggeva molto il libro del gesuita Peter Lippert, Da anima ad anima, pubblicato per la prima volta nel 1924. In giapponese, è abbastanza diffusa l’espressione ishindenshin (“da animo ad animo”), che deriva dal buddismo Zen ed esprime la comunicazione e la trasmissione diretta di uno stato d’animo. In tutti questi casi si tratta di una conoscenza che non si comunica per via discorsiva e che deve essere tenuta in considerazione anche nella pratica della meditazione.
Ormai lo Zen viene praticato in tutto il mondo. Già da tempo si è data una risposta alla domanda se soltanto un buddista possa o debba praticare lo Zen: a tutti è, in linea di massima, consentito praticarlo. Per noi può essere di aiuto un confronto con gli Esercizi spirituali di sant’Ignazio di Loyola (1491-1556). Anche qui si usa la parola «esercizi». Uno studio più approfondito degli Esercizi mostra inoltre che si possono istituire paralleli strutturali tra l’esercizio dello Zen e gli Esercizi ignaziani. Questi ultimi hanno a che fare con la pratica spirituale che consiste nell’indicare un cammino. Per Ignazio, all’inizio dell’epoca moderna, essi costituivano una via per condurre la persona a una conoscenza esistenziale del suo rapporto con Dio. Egli perciò ha dato indicazioni precise sui luoghi e i tempi degli Esercizi, sull’atteggiamento del corpo e sulla disposizione dell’animo, e anche sui singoli passi da percorrere lungo il corso degli Esercizi. Ha descritto inoltre ampiamente il compito di colui che li guida e come deve comportarsi nei confronti di ogni esercitante. 
Ora, molti di questi dettagli erano stati dimenticati da tempo. A lungo gli Esercizi sono stati ridotti ad argomenti di conferenze. Nel frattempo qualcosa è cambiato, e non da ultimo grazie a stimoli di provenienza asiatica. In molti corsi si sono inseriti elementi psicosomatici. Il gruppo dei partecipanti si è ampliato e aperto. Gli Esercizi sono tornati a essere una guida che indica la strada a coloro che sono in ricerca e si trovano in cammino. 
Da un punto di vista cristiano, in un’epoca in cui il pluralismo si va diffondendo sempre più, siamo chiamati a fare una scelta personale. Perciò, esaminando tutte le vie a noi accessibili, possiamo giungere a condividere quello che Karl Rahner riteneva al termine di tutta la sua ricerca, ossia che la via indicata a noi da Gesù Cristo è quella di cui siamo maggiormente convinti che ci conduca a raggiungere lo scopo della nostra esistenza.
«Amore» e «servizio» sono due parole che in questi ultimi tempi si pongono sempre più al centro di ciò che si intende per cristianesimo e lo riducono a un comune denominatore semplice e facilmente comprensibile. Non si tratta di parole, ma di mettere in pratica le parole. In un certo senso, il silenzio viene prima delle parole.
L’amore servizievole e dimentico di sé si ricollega oggi a un’altra parola, che a suo modo ispira il dialogo buddista-cristiano, ma che forse ha anche creato un nuovo spazio per tale dialogo: ci riferiamo al termine paolino che indica la kenosis divina nell’Incarnazione di Gesù. 
In Filippesi 2, 5-8, in un testo in cui esorta a seguire Cristo, Paolo dice: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù: egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte, e a una morte di croce». Paolo afferma che Cristo heauton ekenōsen, «si rese vuoto», «si svuotò». Il termine «vuoto» non può essere colto a sufficienza nel suo senso letterale. 
I maestri giapponesi dello Zen e anche il filosofo Keiji Nishitani hanno riconosciuto la vicinanza di tale parola con uno dei concetti fondamentali della spiritualità e del pensiero buddista, e nelle loro riflessioni vi sono tornati sopra continuamente: śūnyatā, “il vuoto”. La parola di per sé non appartiene propriamente allo Zen, ma risale al dotto e mistico indiano del ii secolo dell’era cristiana. Nāgārjuna, a cui si deve soprattutto la formulazione del grande patrimonio dei contenuti del buddismo. Il termine, che ha anche un significato filosofico, è tra quelli che vengono usati principalmente per indicare una pratica spirituale. 
Nel buddismo Zen si tratta sostanzialmente di un processo di «svuotamento del vuoto», di un’operazione di distacco radicale da ciò a cui non ci si deve neppure afferrare e che viene detto «vuoto». Il vuoto non è una situazione che può essere oggetto di riflessione, ma un processo che richiama alla mente, per chi lo conosce, il linguaggio della mistica cristiana: dai classici spagnoli Giovanni della Croce o Teresa d’Ávila ai mistici renani, come Meister Eckhart. 
La mancanza di formazione filosofica e psicologica conduce alcuni maestri cristiani di meditazione a una linea di confine. Non deve meravigliare che per essi il parlare di Dio si dissolva nell’impersonale, e il Gesù fatto uomo non interessi più dal lato storico e diventi qualcosa che è a suo modo un principio cosmico. La durezza della croce diventa qui una barriera che non si può valicare facilmente. E che ciò sia vero lo dimostrano, da una parte il fatto che per i non cristiani il confronto con il Crocifisso costituisce spesso una esperienza scioccante: d’altra parte, il fatto che in epoca cosiddetta “postcristiana” quanti sono ancora cristiani o non lo sono più si adoperino a far sì che il simbolo della croce scompaia dalla vita pubblica, e che per molti giovani esso diventi un semplice oggetto di culto che non ha alcun interesse per loro. Chi vuole essere veramente cristiano, deve prendere posizione di fronte alla croce.
Tuttavia, nell’ambito del linguaggio religioso vale sempre il criterio dell’azione condotta in silenzio. Nel Giudizio universale di cui parla Gesù (cfr. Matteo 25, 31-46), ciò che conta è la dedizione disinteressata, l’impegno amorevole verso il prossimo. Per gli esercizi spirituali ne consegue che, quando il linguaggio viene meno e dopo gli esercizi si continua a condurre la propria vita in un’autosufficienza chiusa, e forse addirittura in un autocompiacimento elitario, da un punto di vista cristiano non si può parlare di una vita illuminata, vissuta nello spirito. 
Nel dialogo buddista-cristiano l’illuminazione autentica non può essere intesa unilateralmente come una conoscenza e una comprensione profonde. Piuttosto, essa invita a interessarsi, con dedizione piena di compassione, al mondo non illuminato.

L'Osservatore Romano