martedì 5 settembre 2017

Venticinque anni di ascolto reciproco e di amicizia





(Enzo Bianchi) Il desiderio di offrire un tempo di dialogo e comunione, un luogo in cui ciascuna tradizione cristiana possa definirsi in ciò che ha di più caro e testimoniare la propria fede, è all’origine dei convegni ecumenici internazionali di spiritualità ortodossa, che la Comunità monastica di Bose organizza dal 1993, in collaborazione con le Chiese ortodosse. Un “convegno” delimita lo spazio di un con-venire: letteralmente, un venire assieme in un luogo di ascolto reciproco e di amicizia, un ambito di simpatia necessario per superare i pregiudizi e intraprendere un cammino serio di conoscenza e accoglienza della ricerca spirituale dell’altro. Questa ricerca condivisa ha permesso di conoscere meglio e di approfondire la tradizione spirituale delle Chiese ortodosse nella multiforme unità delle loro diverse tradizioni, senza trascurare il contributo delle Chiese orientali.
Quattro elementi hanno da sempre caratterizzato lo spirito di questi convegni: il desiderio di conoscere la spiritualità, la storia di santità e la testimonianza, spesso fino al martirio, della Chiesa sorella; l’incontro fraterno tra monaci d’oriente e d’occidente e la dimensione ecclesiale, con il coinvolgimento diretto dei rappresentanti delle Chiese; l’approfondimento scientifico, documentato nella pubblicazione annuale degli atti; l’apertura dialogante alle ricerche e alle attese dell’umanità contemporanea. Credo tuttavia che la dimensione fondamentale di questi convegni sia la condivisione della preghiera comune monastica, che fa discernere il Signore presente in mezzo ai suoi discepoli, con la sua misericordia e il suo amore: è il Signore che apre lo spazio dell’incontro tra i fratelli, l’ascolto gli uni degli altri, lo scambio reciproco dei suoi doni. Sin dall’inizio, per la nostra comunità, questa iniziativa ha voluto essere la risposta a un servizio che ci è stato chiesto e che speriamo di compiere umilmente alla Chiesa: senza pretese, senza presumere di svolgere azione diplomatica. Il nostro compito monastico è solo prestare un luogo di confronto, di ascolto e di preghiera.
Nei primi anni novanta, il crollo dei regimi comunisti aveva facilitato l’incontro con Chiese che avevano conosciuto lunghi anni di persecuzione, silenzio e forzata segregazione dalla società civile. Occorreva imparare a conoscere le ricchezze spirituali che questi cristiani avevano custodito e cercavano essi stessi di ritrovare. I primi convegni furono così dedicati ad alcune figure centrali della storia della spiritualità russa, da san Sergio di Radonež (1993) a Nil Sorskij (1994), da Paisij Veličkovskij (1995) a san Serafim di Sarov (1996) e Silvano del Monte Athos (1998). L’iniziativa ottenne ben presto la benedizione del Patriarca di Mosca Alessio ii e il costante interessamento dell’allora presidente del Dipartimento per le relazioni esterne del patriarcato di Mosca, il metropolita Cirillo di Smolensk e Kaliningrad, attuale Patriarca di Mosca, che parlò a Bose nei convegni dedicati ai martiri della Chiesa ortodossa russa in epoca sovietica (1999 e 2000). La segreteria di Stato di Sua Santità fece pervenire puntualmente il beneaugurante pensiero e la benedizione apostolica del Santo Padre, e il Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani salutò subito con favore e sostenne questi convegni, cui avrebbero preso parte come relatori anche il cardinale Walter Kasper e il cardinale Kurt Koch. Anche il patriarca di Costantinopoli Bartolomeo diede la sua benedizione all’iniziativa. Mentre continuava l’approfondimento della tradizione spirituale russa, con temi quali i santi starcy di Optina Pustyn’, il concilio di Mosca del 1917-1918, la preghiera di Gesù, Andrej Rublev, le missioni della Chiesa ortodossa russa, fu intrapreso lo studio dei padri monastici bizantini: Nicodemo Aghiorita, Giovanni Climaco, Simeone il Nuovo Teologo, Barsanufio, Giovanni e Doroteo di Gaza, Atanasio dell’Athos, Giovanni di Damasco, Nicola Cabasilas.
La fecondità di un approccio che riallacciava lo sviluppo della tradizione slava alle sue radici bizantine si è poi allargato, grazie alla collaborazione di tutte le Chiese ortodosse, a considerare l’unità della tradizione ortodossa nelle sue multiformi espressioni, concentrandosi sui temi fondanti della vita spirituale: la trasfigurazione (2007), la paternità spirituale (2008), la lotta spirituale (2009), comunione e solitudine (2010), la Parola di Dio nella vita spirituale (2011), la custodia del creato (2012), le età della vita spirituale (2013). Tre beatitudini evangeliche hanno infine scandito il tema degli ultimi convegni: «Beati i pacifici» (2014), «Beati i misericordiosi» (Misericordia e perdono), 2015, «Beati voi quando vi perseguiteranno per causa mia» (Martirio e comunione), 2016.
Nell’amicizia sincera, leale, umana si cercano vie di riconciliazione, di umiltà e di discernimento: come diceva l’indimenticabile Patriarca Atenagora, «quando ci si incontra nell’amore, si applica la vera teologia». L’arcivescovo Alexis di Düsseldorf diceva che gli incontri tra cristiani sono come un lume acceso in un enorme spazio: sembra illuminare e riscaldare solo una piccola porzione e tuttavia, per quanto grande, esteso sia quello spazio, le tenebre non sono più assolute.
Molti sono stati i volti e le presenze amiche che ci hanno aiutato e ci accompagnano in questo itinerario spirituale. Vorrei ricordare qui Nina Kauchtschischwili (1919-2010), con la quale abbiamo iniziato la serie dei convegni di spiritualità russa, e i membri del comitato scientifico dei convegni, padre Hervé Legrand, Antonio Rigo dell’università di Venezia e padre Michel Van Parys. Nel corso degli anni sono intervenute alcune delle voci più autorevoli dell’ortodossia contemporanea, e tra i maggiori teologi cattolici, anglicani e riformati del nostro tempo: Ioannis Zizioulas, Kallistos Ware, Ilarion Alfeev, Rowan Williams, Christos Yannaras, Andrei Pleşu, Andrew Louth, Aristotle Papanikolaou, Sebastian Brock, John Behr. Alcuni di questi testimoni dell’unità ora ci precedono nell’esodo verso il Padre: il metropolita Emilianos Timiadis, Olivier Clément, Sergej Averincev, Elisabeth Behr-Sigel, Fairy von Lilienfeld, i cardinali Achille Silvestrini e Tomáš Špidlík, suor Minke De Vries, Gerhard Podskalsky, dom André Louf.
Un anziano suddiacono del Patriarca Tichon di Mosca (1865-1925) scriveva che, quando si discute con qualcuno e questi resiste e rifiuta le nostre idee, ci si deve sempre elevare con longanimità al di sopra dei suoi argomenti, in modo che il nostro interlocutore possa ascoltare ciò che noi diciamo e gridare «Come è magnifico!» e così aprirsi a ciò che noi desideriamo comprenda. È ciò che dobbiamo imparare a fare oggi. L’ecumenismo non è una sorta di compromesso, scriveva il metropolita Anthony Bloom, un modo di riunire Chiese differenti e di avvicinare credenti. L’ecumenismo è un’obbedienza puntuale al comandamento del Signore che ha pregato per l’unità dei credenti in lui (cfr. Giovanni, 17, 21): è un’attitudine dello spirito che riconosce che Cristo è il Signore dell’ecumene, e confessa una verità che abbraccia questo universo, lo esalta, lo conduce a una grandezza, un’espansione e una bellezza che non conosceva. Sì, l’unità dei cristiani è opera dello Spirito, essa deve mostrare il fine della creazione: la trasfigurazione dell’umanità e di tutte le cose.
Quest’anno, la XXV edizione (Bose, 6-9 settembre 2017) è dedicata al «Dono dell’ospitalità». Essere “ospiti”, nell’accezione della parola italiana, significa al tempo stesso essere uomini e donne capaci di accoglienza ma anche, a nostra volta, riconoscerci stranieri ospitati in questa terra, come fa notare Papa Francesco nella sua lettera personale in occasione del convegno. C’è una dimensione spirituale dell’ospitalità che occorre ritrovare, come invitano a fare il Patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo, che a Bose terrà la prolusione («Accogliere l’umanità in una terra abitabile»), e il Patriarca di Alessandria e di tutta l’Africa Teodoro ii, che nel suo intervento chiede di «discernere la benedizione dello straniero»: riconoscere nell’altro che ci visita un dono e un appello è il primo passo per una cultura cristiana dell’accoglienza. Su questa capacità di fare spazio all’altro, al diverso, saremo giudicati nel giorno del giudizio, come ci rivela il Signore: «Ero straniero e mi avete accolto» (Matteo, 25, 35). In un tempo in cui decine di migliaia di uomini, donne, bambini, sono costretti a lasciare la casa e la loro terra da guerre, persecuzioni, carestie, il convegno vorrebbe ridestare la nostra coscienza, accrescere la nostra capacità di «accogliere, proteggere, promuovere e integrare», come ha chiesto pressantemente Papa Francesco nel suo messaggio per la prossima giornata mondiale del migrante e del rifugiato.
In quella regione interiore che i padri monastici chiamavano “stranierità” affonda le sue radici anche la filoxenía, l’amore verso lo straniero. Prima di essere la risposta a un’emergenza umanitaria, l’ospitalità è un dono per chi la offre e per chi la riceve. Nell’accoglienza dell’altro ne va del nostro essere fratelli e sorelle in umanità.

L'Osservatore Romano

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Con l’intervento di due patriarchi ortodossi si apre a Bose il convegno ecumenico di spiritualità 
L'Osservatore Romano 




Da venticinque anni. Dal 6 al 9 settembre si tiene presso il monastero di Bose l’annuale convegno internazionale di spiritualità ortodossa. L’appuntamento, giunto alla venticinquesima edizione e realizzato in collaborazione con le Chiese ortodosse, è dedicato al «dono dell’accoglienza». Un tema che — in un tempo in cui decine di migliaia di uomini, donne e bambini sono quotidianamente costretti a migrare fuggendo da guerre e persecuzioni — interpella non solo le responsabilità dei governanti. Anche perché prima di essere la risposta a un’emergenza umanitaria, l’ospitalità è un dono per chi la offre e per chi la riceve. Infatti, per la tradizione cristiana riconoscersi stranieri e pellegrini è il primo passo della scoperta di quella regione interiore che i padri monastici chiamavano “stranierità”, dove affonda le sue radici anche la filoxenía, l’amore verso lo straniero. In questo senso, il convegno si propone di esplorare vie di riconciliazione tra fedi e culture. Oltre all’intervento del fondatore di Bose, Enzo Bianchi, la sessione inaugurale prevede quelli del patriarca ecumenico di Costantinopoli e del patriarca greco-ortodosso di Alessandria e di tutta l’Africa, dei quali anticipiamo ampi stralci.

di Bartolomeo
Il tema che il comitato scientifico ha proposto per la venticinquesima sessione interpella non solo le Chiese di Dio, non solo i credenti nel Cristo risorto, ma tutti gli uomini di buona volontà, in quanto viviamo un periodo storico, in cui parlare di ospitalità può diventare scomodo, ancor di più se vogliamo intendere la ospitalità come un dono.
La nostra riflessione parte dalla consapevolezza della esistenza di una relazione d’amore che esiste tra il creato e il suo Creatore, in quanto opera dell’amore divino. «In principio Dio fece il cielo e la terra. Ma la terra era invisibile e disorganizzata, e c’era tenebra sopra l’abisso, e lo spirito di Dio aleggiava sull’acqua» (Genesi, 1, 1-2). Dio crea da sé cielo e terra, ma subito Egli partecipa alla sua stessa creazione. È lo sguardo dell’innamorato che vuole creare relazione. Relazione che fa istituire a Dio un legame profondo e misterioso con la sua creazione attraverso la Parola: «E Dio disse: Che ci sia la luce! E la luce fu. E Dio vide che la luce era una cosa bella» (Genesi, 1, 3-4). La stessa espressione la ritroviamo alla fine di ogni giorno della creazione, al secondo giorno con la separazione delle acque col firmamento; al terzo con la creazione della terra e delle piante; al quarto con la suddivisione tra giorno e notte e delle stelle; al quinto giorno con la creazione di pesci e uccelli, a cui si aggiunge un nuovo atto di amore divino: e Dio li benedisse (Genesi, 1, 22). La Parola di Dio diviene performativa. Dio benedice la sua opera e ne suggella la sacralità. Bellezza e sacralità fanno percepire la trasfigurazione cosmica dell’atto creativo di Dio. «I cieli narrano la gloria di Dio e il firmamento annuncia l’opera delle sue mani» (Salmi, 18, 2). Il sesto giorno la stessa terra diviene generatrice di benedizione, perché da essa escono “anime viventi”, gli animali, chiamati alla fecondità.
Assistiamo in questo percorso a una teofania creativa, che nulla ha a che fare con qualche forma di panteismo. Questa teofania prepara la terra abitabile, come il fidanzato prepara la casa per la sua fidanzata, patto eterno d’amore. Così acqua e terra diventano gli elementi della vita e le piante producono frutto, divengono benefiche, salutari, nutritive o semplicemente belle: «Osservate come crescono i gigli: essi non lavorano non filano; eppure io vi dico che Salomone stesso, in tutta la sua gloria, non fu vestito come uno di loro» (Luca, 12, 27). Esse appartengono alla terra per renderla abitabile, poiché sono centro e fonte di vita.
L’essere umano compare verso la fine del capitolo, creato a immagine di Dio eppure indissolubilmente legato alla terra, da cui viene tratto: «Facciamo un uomo a nostra immagine e somiglianza». Per la creazione dell’uomo Dio agisce nuovamente con la sua Parola non più in modo impersonale, ma direttamente, relazionando il suo essere Dio con la stessa possibilità dell’uomo di essere a immagine e somiglianza del creatore. L’amore divino manifesta una attenzione diversa per l’uomo, secondo il suo progetto primordiale teofanico e trasfigurante. Vi è una correlazione data dalla condivisione della terra tra mondo animale ed essere umano, chiamato da Dio Adam, da adamah la terra, che pone in relazione il mondo animale con l’uomo, ma la specificità della somiglianza a Dio nell’uomo instaura in lui un legame di responsabilità paradisiaca. È lì che Dio si relaziona con Adamo, lasciando a questi il compito di dare un nome a ogni essere vivente. L’azione umana evoca quella divina della creazione e instaura il legame di responsabilità: Dio è responsabile per la creazione che ha chiamato all’esistenza, così l’essere umano diviene responsabile degli esseri viventi a cui ha dato un nome. Se naturalmente c’è qualche cosa di unico nell’uomo creato a immagine di Dio, non viene meno la sua relazione col creato. Secondo i Padri della Chiesa l’umanità costituisce un vincolo di unità tra Dio e il mondo materiale, di cui è parte organica e senza la quale non potrebbe vivere, ma dall’altra possiede delle caratteristiche proprie di Dio, che pongono la creazione in relazione con Dio.
La libera scelta dell’uomo, nel giardino di Dio, nell’Eden, di prendere il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male, contravvenendo al disegno iniziale del Creatore, innesca la sua caduta dalla relazione paradisiaca e teofanica con Dio. Il patto d’amore si rompe, il fidanzamento è tradito e l’uomo non esercita più la funzione di abitante, ma di ospite e straniero, di forestiero e immigrato, «perché mia è la terra e voi siete presso di me come ospiti e forestieri» (Levitico, 25, 23). La estraniazione, la fuoriuscita dall’ospitalità frontale con Dio è il risultato del peccato di Adamo ed Eva. Tuttavia Dio non rompe il patto con l’uomo, l’amore di relazione permane anche dopo la caduta. La terra resta abitabile anche per le generazioni future: «Per tutti i giorni della terra, semina e raccolto, freddo e caldo, estate e primavera, né di giorno né di notte, non cesseranno». (Genesi, 8, 22). «Ecco, io stabilisco la mia alleanza con voi e con la vostra discendenza dopo di voi» (Genesi, 9, 9). Noè diviene il testimone della relazione esistente tra Dio e il creato. Dio accoglie l’uomo straniero e ospite e con lui attende la glorificazione di tutto il creato. Vi è una profonda connessione tra l’amore divino per la creazione e l’estraneità dell’uomo caduto per il creato, che farà dire a Paolo: «La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità — non per suo volere, ma per volere di colui che l’ha sottomessa — e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio» (Romani, 8, 19-21). Tutta la creazione abita la terra e loda il Signore, atto di libertà espresso magnificamente nel Salmo 148: «Lodate il Signore dai cieli, lodatelo nei cieli altissimi».
San Gregorio Palamas affermava che i cristiani rispondono con la lode e lo stupore quando contemplano i capolavori della creazione visibile di Dio. Cristo ha restaurato l’ospitalità di Dio nell’uomo, gli ha donato la libertà pasquale mediante la morte e risurrezione. Ha redento il cuore degli uomini restaurandolo come “tenda-tempio” della ospitalità di Dio: «Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito santo, che è in voi? Lo avete ricevuto da Dio e voi non appartenete a voi stessi». (1 Corinzi, 6, 19). E nella pratica della sua fede, il credente ospita lo straniero come Dio lo ospita nel mondo, creandolo, e nella sua misericordia, salvandolo. Misericordioso è colui che ospita nel suo cuore il misero, mette il suo cuore vicino a quello del misero, colui che permette all’altro di rigenerarsi, di sentirsi a casa sua, di riposarsi e di fare l’esperienza che c’è qualcuno che condivide insieme la propria storia. L’ospitalità è quindi condivisione, un protendersi verso l’altro, un prendersi cura degli altri. È la parabola del samaritano che si prende cura, che dedica il suo tempo. Non assorbe l’altro, non lo eguaglia a sé, ma lo rispetta in tutta la sua radicale differenza. È ospitalità che si fa accoglienza. Non esistono più stranieri ma ospiti, perché ospitare il forestiero e lo straniero, significa ospitare Cristo stesso. «Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo» (Ebrei, 13, 2).
Nella Lettera a Diogneto si dice che i cristiani «vivono nella loro patria, ma come forestieri». Il monachesimo ricorda che quaggiù non c’è una dimora permanente, ma come dice san Paolo: «La nostra cittadinanza è nei cieli». (Filippesi, 3, 20). Ma esso è anche spazio di libertà e di franchezza e perciò di incontro e di riconoscimento reciproco tra diversi. È anche follia in Cristo e un fuggire la fama, i riconoscimenti. Massimo di Kavsokalyva, sul santo Monte dell’Athos, si spostava costantemente bruciando la capanna in cui precedentemente dimorava, per evitare notorietà e fama. Ma è anche interiorizzazione dell’armonia cosmica, teofanica della creazione, trasfigurante nella sua ospitalità. È questa trasfigurazione che fa una persona, pura di cuore, capace di percepire il legame con la creazione. San Serafino di Sarov, nutriva l’orso nelle foreste del nord, san Francesco parlava con tutte le creature, san Gerasimo del Giordano viveva con un leone.
Come la vera natura di Dio è l’Amore, anche l’umanità è originariamente destinata al compito di amare. La terra abitabile è Maria, l’umanità ospitata è il Dio teantropo, eros divino fino alla follia. Follia per i non credenti, vanto per i cristiani.
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Con la porta sempre aperta

di Teodoro ii
L’uomo africano è lo straniero della nostra epoca. È lui l’uomo descritto da nostro Signore Gesù Cristo. La Chiesa di Alessandria porta sulle proprie spalle il peso della storia alessandrina, della megalopoli cosmopolita e l’universalità che ha sempre caratterizzato fin dai tempi antichi il suo pensiero, al di là e al di sopra delle nazioni e delle razze. Secondo la tradizione alessandrina ogni straniero ha diritto — notate la parola “diritto” — di ricevere alloggio, cibo e protezione, come persona sacra, come uguale a tutti, come un’immagine di Dio. La Chiesa conserva questa eredità ellenistica associandola inscindibilmente con la tradizione cristiana bizantina dell’amore, del sacrificio volontario per l’altro. La sua presenza nell’intero continente africano si mantiene lontana dalle intolleranze, dagli sciovinismi e dalle propagande. Persegue come proprio obiettivo fondamentale l’unità di tutti nella multiformità e nella pluralità, coltivando il rispetto per la persona umana, armonizzando le contrapposizioni tra le società e i popoli «nel vincolo della pace» (Efesini, 4, 3), e avendo come regola fondamentale l’amore di Cristo, «che è il vincolo della perfezione» (Colossesi, 3, 14).
Oggi l’Europa è in preda al terrore e alle vertigini davanti all’ondata dei profughi e al fenomeno dell’immigrazione, ma la Chiesa di Alessandria vive questo evento ogni giorno nello sconfinato continente africano, dove conflitti bellici, guerre civili e disastri naturali di scala biblica producono continuamente ondate di profughi ridotti alla miseria. Quanto sono attuali le parole di Gregorio di Nissa, che esprime la condizione odierna di molte persone in molte regioni della terra, e in particolare in Africa, luogo della nostra giurisdizione, quando dice in modo significativo: «Il tempo presente ci ha procurato una grande quantità di ignudi e di senzatetto. Alle porte di ognuno vi è una folla di deportati. Non mancano stranieri e profughi; ovunque si vede la mano tesa a chiedere. Per costoro la casa è all’aperto, loro riparo sono i portici, i biVII e gli angoli più riposti delle piazze».
Questa situazione di necessità assoluta è vissuta da decine di migliaia di africani nostri fratelli in Rwanda, in Sierra Leone, in Burundi, in Congo, in Sud Sudan e in molte altre regioni. Senza dimora e perseguitati, profughi nel loro stesso paese. Vedendo queste anime di Dio e le migliaia di bambini che ti guardano con i loro grandi occhi pieni di lacrime e di paura, prendiamo atto della necessità che la Chiesa dia il suo contributo nel fronteggiare e fornire soluzioni ai problemi sociali. E questo è naturale, perché lo scopo della Chiesa non è restare alla periferia della vita, ma accostarsi all’uomo in tutti gli aspetti e le manifestazioni della sua vita. Solo così lo serve, secondo l’esempio di Cristo, il quale non è «venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per le moltitudini» (cfr. Matteo, 20, 28; Marco, 10, 45).
Un altro fatto degno di essere sottolineato è che i monasteri sono sempre stati porti di rifugio al riparo dei venti e baluardi di giustizia sociale per i viandanti, i forestieri e gli uomini senza dimora. Centinaia di persone trovavano conforto e ospitalità sotto i tetti dei monasteri. Questa pratica continua fino ai nostri giorni nella Chiesa di Alessandria, e un ottimo esempio in questo senso è il sacro monastero di San Giorgio del Vecchio Cairo. Ancor oggi passa da questo monastero una moltitudine di persone, per lo più non cristiane, per esservi ospitate e trovarvi ristoro. In questo modo continua incessantemente l’antica prassi delle regole monastiche che ordinavano che la porta dei monasteri restasse sempre aperta, poiché l’ospitalità era considerata una “virtù regale”.
Lo straniero, dunque, deve essere accolto come immagine di Cristo, dal momento che lo stesso Cristo è diventato straniero ed è venuto sulla terra. Solo in questo modo, solo allora l’ospitalità degli stranieri può diventare benefica, poiché l’ospitalità è prima di tutto amore. La Chiesa di Alessandria, da parte sua, cerca di applicare questo comandamento nei suoi sforzi missionari nel tribolato continente africano. Ogni africano, come immagine di Dio, a prescindere dalla sua appartenenza razziale o religiosa, deve poter trovare chi si prende cura di lui in molti modi a ogni livello missionario e in ogni infrastruttura della Chiesa, fino agli estremi confini dell’Africa.
L'Osservatore Romano