sabato 16 settembre 2017

XXIV Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) — 17 settembre 2017. Ambientale, commento al Vangelo e Lectio.




                                                       Ma Dio non si arrende: 
Dio trova un nuovo modo per arrivare ad un amore libero,
irrevocabile, al frutto di tale amore...
Non siamo noi che dobbiamo produrre il grande frutto;
il cristianesimo non è un moralismo,
non siamo noi che dobbiamo fare quanto Dio si aspetta dal mondo,
ma dobbiamo innanzitutto entrare in questo mistero ontologico:
Dio si dà Egli stesso.
Il suo essere, il suo amare, precede il nostro agire
e, nel contesto del suo Corpo,
nel contesto dello stare in Lui,
identificati con Lui,
nobilitati con il suo Sangue,
possiamo anche noi agire con Cristo.

Benedetto XVI, Incontro con i seminaristi di Roma, 12 febbraio 2011

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Ambientale
Nella 24.ma Domenica del Tempo ordinario la liturgia ci propone il Vangelo (Mt 18, 21-35) in cui Gesù spiega il perdono cristiano
Dal Vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Pietro si avvicinò a Gesù e gli disse: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?». E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette. Per questo, il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi. Aveva cominciato a regolare i conti, quando gli fu presentato un tale che gli doveva diecimila talenti. Poiché costui non era in grado di restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli e quanto possedeva, e così saldasse il debito. Allora il servo, prostrato a terra, lo supplicava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa”. Il padrone ebbe compassione di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito. Appena uscito, quel servo trovò uno dei suoi compagni, che gli doveva cento denari. Lo prese per il collo e lo soffocava, dicendo: “Restituisci quello che devi!”. Il suo compagno, prostrato a terra, lo pregava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò”. Ma egli non volle, andò e lo fece gettare in prigione, fino a che non avesse pagato il debito. Visto quello che accadeva, i suoi compagni furono molto dispiaciuti e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto. Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: “Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?”. Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto. Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello».
ietro interroga il Signore: “Quante volte dovrò perdonare un mio fratello quando pecca contro di me?”. Gesù risponde: ”Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette”, cioè, sempre. Questa risposta perentoria c’imbarazza, forse, oppure c’innervosisce. Il Maestro, infatti, motiva quest’affermazione facendo riflettere l’uditorio sulla sproporzione fra le colpe perdonateci da Dio e quelle che dovremmo perdonare al prossimo. Ma non tutti condividono quest’analisi, perché capita di sentire dichiarare: “Io quest’errore non l’avrei commesso, non si può cadere così in basso!”. Si tratta di miopia spirituale, di scarsa conoscenza di se stessi. Chiunque in realtà, senza l’aiuto della grazia divina, può diventare preda di tentazioni irrefrenabili, di demoni che inducono a peccati anche molto gravi, pur senza averne l’intenzione. Le cronache di una società dimentica di Dio ce ne danno l’amara conferma ogni giorno. Lo Spirito Santo c’invita a ricorrere alla Sua protezione onnipotente, abitando in noi con la catechesi, l’ascolto della Parola, i sacramenti, ovvero, la vita nella comunità cristiana. Quando un fratello pecca contro di noi, ricordiamoci della misericordia ricevuta, sapendo che la causa prima del male è, anzitutto, il diavolo; il perdono offerto agli altri sarà rivolto a noi nel Giudizio finale. (Sanfilippo)
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Commento al Vangelo

Sino all’ultimo spicciolo.


Pensaci bene: ti senti in debito con qualcuno? Anche questo è vivere intensamente la Quaresima. Con tuo marito o tua moglie, con tuo figlio, con tua suocera, con il collega, ti sei sempre comportato con amore, pazienza misericordia? Hai un peso sulla coscienza che cerchi di dimenticare, un peccato nascosto che tenti di seppellire? Un giudizio, un rancore, un tradimento. Non aver paura di lasciare che venga alla luce, anzi tiralo fuori tu, magari sono vent'anni che ti comprime il cuore e ti impedisce la libertà e la pace. Fallo oggi, confessalo, perché il nostro debito è condonato. Forse, come il servo malvagio siamo così presi da noi stessi che riteniamo di aver ottenuto solo una dilazione e tutti i nostri sforzi sono nervosamente diretti a raccattare in qualsiasi modo quel che dobbiamo rifondere. Abbiamo implorato clemenza e un po' di pazienza per restituire, e sorprendentemente il Signore ci ha condonato il debito, nulla più da restituire. Cancellato. E' questa l'esperienza che cambia radicalmente la vita. E' il cristianesimo. Un condannato a morte al quale gli si sono spalancate le porte della cella ed è ormai libero. Chi non ha questa esperienza vive il proprio cristianesimo senza gioia, e quindi una vita senza frutto, sciapa e immersa nella mormorazione, tutta regole, e sforzi per compierle. Leggi, e sacrifici per rispettarle. La vita come una corsa ad ostacoli, senza amore, esigendo da se stessi e dagli altri, tutti strapazzati perché non scappino dai nostri rigidi schemi, ogni "prossimo" imprigionato perché paghi ciò che crediamo ci debbano dare, così che anche noi possiamo pagare il dovuto a Dio. Sì, viviamo nello stravolgimento della relazione con Lui, non abbiamo conosciuto la gratuità del suo amore e crediamo che, per stare in pace, dobbiamo dargli quello che non abbiamo esigendolo dagli altri. Guarda le relazioni nella tua famiglia, e capirai. Accettiamolo, siamo nemici della Croce di Cristo perché scandalizzati del suo amore così umanamente "ingiusto" da giustificare ciò che noi non giustificheremmo. Ma il documento della nostra condanna è stato distrutto proprio sulla Croce del Signore. Il Suo amore ci ha graziati, senza merito. Oggi, e ogni giorno. Allora convertiamoci e lasciamoci amare sino ad accogliere il perdono per lo stesso peccato settanta volte sette, cioè infinite volte; e così saremo trasformati in misericordia che accoglie e perdona sempre, rompendo volta per volta la spirale di odio che avvelena il mondo, a casa come ovunque, per schiudere il Cielo su questa generazione.

Il nostro debito è stato condonato. Ma la parola condono evoca sempre sdegno, sa di qualcosa che non si è meritato, ai cuori che si ritengono giusti e onesti appare come un’ingiustizia. Il condono è sempre fuori-legge, contestato e rigettato in nome della giustizia, sia per i grandi evasori fiscali, sia per i popoli poveri e in via di sviluppo, perché l’uomo non è abituato al condono dei debiti. La colpa rimane incastrata nel cuore perché non si è mai fatta l’esperienza esistenziale di un perdono capace non solo di condonare, ma anche di ricreare un cuore nuovo, orientato al bene proprio laddove lo era stato al male. 
Nella nostra vita ci è spesso accaduto come al servo spietato: nella preghiera, nell’accostarci al sacramento della penitenza, abbiamo “implorato clemenza e un po’ di pazienza per restituire”, dimenticando o ignorando che il Signore perdona condonando tutto il debito e, in più, donando lo Spirito Santo che trasforma radicalmente il cuore, come il Battesimo. Il suo perdono è “la seconda tavola di salvezza dopo il naufragio della grazia perduta” (Tertulliano, De paenitentia, 4, 2): il Signore ha distrutto il “documento scritto della nostra colpa; lo ha tolto di mezzo inchiodandolo alla croce” (Col 2, 14). Nessun debito da estinguere, perché “non c’è più nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù” (Rm 8, 1). Nulla più da restituire
E’ l’esperienza che cambia radicalmente la vita, il cuore del cristianesimo; e questo è un cristiano: un condannato a morte al quale siano state spalancate le porte della cella; è libero, ha conosciuto nel suo intimo la misericordia di Dio, e per questo, al termine di ogni eucarestia, di ogni confessione, all’ascoltare la predicazione del Vangelo, nel segreto della sua preghiera contrita e umiliata, può esultare con la Chiesa come nella notte di Pasqua quando canta “O felix culpa, felice colpa, che meritò di avere un così grande redentore!” (Exultet di Pasqua). 
La gratitudine, la pace, la consolazione e la gioia sono gli effetti immediati del perdono: “Tutto il valore della Penitenza consiste nel restituirci alla grazia di Dio stringendoci a lui in intima e grande amicizia. Coloro che ricevono il sacramento della Penitenza con cuore contrito e in una disposizione religiosa conseguono la pace e la serenità della coscienza insieme a una vivissima consolazione dello spirito. Infatti, il sacramento della Riconciliazione con Dio opera una autentica risurrezione spirituale, restituisce la dignità e i beni della vita dei figli di Dio, di cui il più prezioso è l’amicizia di Dio” (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1468). 
Il servo aveva ottenuto tutto ciò: il debito che lo separava dal suo re era stato cancellato, la magnanimità lo aveva fatto risorgere dalla prigione alla quale era condannato, gli erano stati restituiti la dignità e i beni, poteva ancora amministrarli nell’intima e grande amicizia con il suo re. Eppure non appaiono in lui la gratitudine, la consolazione e la pace. Sembra piuttosto non accorgersi di nulla, una scorza sul cuore gli impedisce di lasciarsi raggiungere dalla misericordia del Re che “si era impietosito di lui”. Troppo grande, stupefacente, incredibile quell’amore, e così rispettoso della sua libertà al punto di lasciare che si rinchiudesse nel suo orgoglio incapace di accogliere la gratuità del condono. 
Come accade a noi, che, pur rivolgendoci a Dio, lo consideriamo uno strozzino che può solo dilazionare i tempi della restituzione: lo conosciamo attraverso la carne, e proiettiamo su di Lui l’immagine che abbiamo dell’uomo e della giustizia mondana, il poco di cui abbiamo esperienza empirica. Per questo siamo preoccupati di quello che dovremmo fare per estinguere il debito, illusi e sedotti dall’inganno “originale” d’essere diventati come dio, nella superba certezza di poterlo trattare da pari a pari e di saper raccogliere una fortuna quale la sua; ma ci ritroviamo stretti nel moralismo e nel legalismo che ci soffocano l’anima. 
La parabola infatti, ci illumina su quale sia il vero obiettivo di satana: il peccato concreto è solo uno strumento con il quale egli cerca di inchiodarci alla disperazione cieca sull’amore infinito di Dio: sollecita l’orgoglio perché, ferito dal fallimento, ci spinga nell’abisso di violenza, odio ed esigenza che cancella la speranza, la fede e la carità dal cuore, anticipo dell’inferno al quale vuole condurci. 
Il Re aveva condonato 10.000 talenti, una somma esorbitante, se si pensa che la rendita annua del regno di Erode era di novecento talenti (cf G. Flavio, Antichità Giud. XVII, 11,4,$$ 317-320); la somma corrispondeva a 360 tonnellate di oro o di argento. Un talento era pari a 6.000 denari, mentre uno stipendio medio era di 30 denari; 10.000 talenti significavano dunque 60.000.000 di stipendi quotidiani. Per pagare questo debito il servo avrebbe dovuto lavorare circa 200.000 anni. Quale stoltezza allora appare nel servo che si illudeva di poter rifondere una fortuna così immensa! 
Ma il demonio è così astuto da saper innescare l’orgoglio perché si inoltri nell’irragionevolezza dove è impossibile accogliere l’unico amore ragionevole, quello che, a fronte di un debito impossibile da saldare, può solo condonarlo. Il debito del peccato, di qualunque peccato, infatti, è inestinguibile, se non a prezzo della vita, come la stessa Legge prescriveva. E non solo con la propria, ma anche con quella “della moglie e dei figli”. Il peccato che rompe la relazione con Dio distrugge tutto, la famiglia, il futuro dei figli, si sparge come un’epidemia, rende schiavi e uccide. 
Ma Cristo ha pagato sino all’ultimo spicciolo – con la sua stessa vita – il prezzo della nostra redenzione: “Egli ha pagato per noi all’eterno Padre il debito di Adamo, e con il sangue sparso per la nostra salvezza ha cancellato la condanna della colpa antica” (Exultet di Pasqua). Ma il servo spietato non aveva capito: “lasciato andare” era rimasto imprigionato, come i canarini nati nella gabbia e per questo incapaci di volare una volta usciti. Il perdono non lo aveva toccato e rigenerato, e così si era infilato nel cammino oscuro dei sensi di colpa e dell’orgoglio ferito, di quanti vivono il proprio cristianesimo senza la gioia della resurrezione, arrestandosi nel perimetro limitato della “religione naturale”: “Nelle religioni mondiali, espiazione significa normalmente riparazione e ripristino dei rapporti perturbati esistenti con la divinità, ottenuti tramite azioni propiziatrici degli uomini. L’azione espiatrice con la quale gli uomini mirano a conciliarsi e a propiziarsi la divinità, sta al centro della storia delle religioni (J. Ratzinger, Introduzione al Cristianesimo, pp. 227-228). 
Per questo, la loro esistenza è costellata di regole e leggi, e sforzi per compierle e rispettarle; le loro giornate si dispiegano come una corsa ad ostacoli, senza amore, esigendo da se stessi e dagli altri. Moglie, marito, figli, colleghi, tutti strapazzati perché non scappino dai propri rigidi schemi; ogni “prossimo” è imprigionato perché paghi “il dovuto”, la considerazione, la pazienza, il rispetto, l’amore di cui si è debitori verso Dio ma di cui si è sprovvisti, e che, stoltamente, si vorrebbe estorcere agli altri per poter mettere in pace la coscienza. 
Anche per noi spesso il sangue di Cristo sembra non aver segnato gli stipiti delle nostre porte, e viviamo nel terrore che possa giungere da un momento all’altro l’angelo giustiziere. Una vita senza la Pasqua è una vita preda dell’angoscia e dei sensi di colpa, chiusa nell’oscurità del sospetto e dell’insoddisfazione che avvolgono ogni relazione. In debito con Dio vediamo creditori ovunque: tutti ci devono qualcosa, ci sentiamo vittime di ingiustizie di ogni tipo, nessuno ci comprende tributandoci gli onori, l’affetto e la gratitudine che ci spettano. 
Ma dietro ad ogni atteggiamento di esigenza vi è sempre un cuore che non ha conosciuto il perdono, la profonda riconciliazione con Dio. Chi invece si è sentito perdonato e riconciliato con Dio, vive in pace, e non pone più limiti all’amore. Ha sperimentato la Pasqua, e ha scoperto in Cristo il prezzo “dovuto” del riscatto, l’unico che poteva estinguere il nostro debito: “Voi sapete che non a prezzo di cose corruttibili, come l’argento e l’oro, foste liberati dalla vostra vuota condotta ereditata dai vostri padri, ma con il sangue prezioso di Cristo, come di agnello senza difetti e senza macchia… Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce, perché, non vivendo più per il peccato, vivessimo per la giustizia. (cfr. 1 Pt. 1, 18-19 e 1 Pt. 2, 24). 
Non si tratta dunque della semplice chiusura di una partita di dare e avere. La parabola ci dice che la Redenzione operata da Cristo è qualcosa di infinitamente più grande di un pur inaudito e scandaloso condono del debito: Gesù ha offerto se stesso per riscattarci dalla morte che paralizzava il nostro cuore, rendendolo incapace di amare. Il condono totale del debito era necessario per liberare l’uomo dalla schiavitù del peccato e ricrearlo a immagine e somiglianza di Dio, vivo per la giustizia, come hanno ripetuto i Padri: “Dio si è fatto uomo affinché l’uomo potesse divenire dio”. 
Il re della parabola è immagine del Padre che guarda con amore ai suoi servi, anche a quelli infedeli che hanno sperperato i suoi beni, disprezzando e usando per se stessi la Grazia della natura divina di cui erano partecipi. Un Re invincibile di fronte al debito più grande, che perdona e condona perché il servo possa di nuovo essere accolto nella sua intimità e vivere secondo la sua volontà, nell’amore e nella fedeltà. Solo se perdonati, riconciliati con Dio e ricreati in Cristo, possiamo vivere in pienezza l’amore che supera le barriere della morte, alte “settanta volte sette” la nostra statura: impossibile per l’uomo superarle, ma possibile presso Dio. 
In Cristo e solo in Lui siamo cristiani, figli del perdono che vivono perdonando agli altri “settanta volte sette”, infinite volte come infinito era il nostro debito dissolto nella misericordia: “Rivestitevi dunque, come amati di Dio, santi e diletti, di sentimenti [alla lettera: di viscere] di misericordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza; sopportandovi a vicenda e perdonandovi scambievolmente, se qualcuno abbia di che lamentarsi nei riguardi degli altri. Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi” (Col 3, 12-13). 
Pietro, a nome della Chiesa domanda e ascolta l’annuncio del Signore, e lo accoglie come un seme di vita nuova deposto nelle sue viscere. La Chiesa, infatti, è il luogo del perdono, il seno benedetto dove rinascere nella misericordia. Chi ha conosciuto il perdono di Dio vede la sproporzione tra quanto gli è stato condonato e “i 100 denari” di cui è creditore. I suoi occhi vedono la trave che li appesantisce e non si accorgono della pagliuzza posata sugli occhi del prossimo
Se il nostro debito con Dio è estinto, anche il debito del nostro prossimo è naturalmente disciolto nelle stesse viscere di misericordia che ci hanno liberato. Un amore senza limiti che risponde a un debito infinito rompe la catena del male e della rivalsa, e disegna una nuova “economia di misericordia”, la follia dell’economia divina. La pace, la gioia, la vita vera è tutta in questo amore: “O immensità del tuo amore per noi! O inestimabile segno di bontà: per riscattare lo schiavo, hai sacrificato il tuo Figlio!” (Exultet di Pasqua).
Japicca

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Il perdono non ha limiti...

Lectio divina sulle letture della XXIV Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) — 17 settembre 2017

1) Una misura smisurata
Nel Vangelo di questa domenica si racconta di quando Pietro chiese a Cristo quante volte avrebbe dovuto perdonare al suo prossimo. Il Messia, il portatore del Vangelo della misericordia rispose che doveva perdonare “ non sette volte, fino a settanta volte sette” (Mt 18,21s). cioè sempre. Infatti il numero “settanta” per “sette” è simbolico, e significa, più che una quantità determinata, una quantità infinita, smisurata.
Dicendo che occorre perdonare “settanta volte sette”, Gesù insegna che il perdono cristiano è senza limiti e che solamente il perdono senza limiti assomiglia al perdono di Dio.  Questo perdono divino è il motivo e la misura del perdono fraterno. Poiché Dio Padre ci ha già fatti oggetto di un perdono senza misura, noi  dobbiamo perdonare senza misura. Il perdono fraterno è conseguenza perdono paterno di Dio da invocare sui quanti ci offendono, pregando: “Padre nostro che sei nei cieli … Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo” a coloro che sono colpevoli nei nostri riguardi (= “ai nostri debitori”) e facendo nostra la preghiera di Cristo in Croce, quando, rivolgendosi al Padre, supplicò: “Perdonali”, “Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno” (Lc 23,34). 
Perdono” è la parola pronunciata da Cristo, al quale fu fatto del male in modo ingiustissimo e senza misura.  Il Messia morente perdona e apre lo spazio dell’amore infinito all’umo che l’offende e lo sta uccidendo. Pronuncia questa parola del cuore che rivela un Dio infinitamente buono: il Dio del perdono e della misericordia.
Come possiamo, noi poveri esseri limitati, mettere in pratica questo amore illimitato?
In primo luogo, mendicando la misericordia di Dio, perché non possiamo dare ciò che non abbiamo.  Il Padrone, di cui Cristo parla nella parabola di oggi, si lascia impietosire dalla supplica del servitore e gli condona tutto il debito rivelando un amore non solo paziente ma sconfinato nella sua misericordia. L’errore da evitare dopo questo perdono è di non riconoscere che in quel perdono c’è il suo amore per noi e che questo amore cresce in noi, se le condividiamo.
In secondo luogo,  prendendo coscienza che l’accoglienza del perdono di Dio si concretizza nel saper perdonare gli altri e che perdonando chi ci ha offeso, amiamo il prossimo come noi stessi e realizziamo non solo il suo  ma anche il nostro bene, e la nostra felicità.
In terzo luogo, prendendo coscienza che il perdono non è solamente un atto che siamo chimati a fare infinite volte, ma è un modo di essere che deve coinvolgere tutta la vita quotidiana per tutto l’arco della nostra esistenza. È una dimensione “religiosa”, nel senso pieno del termine perché esprime la nostra comunione con Dio, cui amore trasforma: “Perdonare non é ignorare ma trasformare: cioè Dio deve entrare in questo mondo e opporre all’oceano dell’ingiustizia un oceano più grande del bene e dell’amore”. (Benedetto XVI, 24 luglio 2005)
Un esempio alto e umano di questo perdono ci viene dalla Madonna, che spesso è invocata come Madre di misericordia. Ai piedi del Figlio suo crocifisso, Maria ci perdonò accettando come figli gli uomini, per quali Cristo era stato messo in Croce e per i quali moriva. Con questo sì (fiat) divenne per sempre, senza limiti, nostra  Madre, Madre del perdono, come pochi decenni prima si mise pienamente a disposizione di Dio e divenne la madre di Gesù, il Volto umano della divina Misericordia. Maria è diventata così e rimane per sempre la “Madre della Misericordia”, modello ed esempio di perdono.
2) Perdono e gratuità
La parabola di oggi ci da anche un altro insegnamento circa il perdono, che non deve essere “solamente” per sempre ma gratuito e che non si deve separare il rapporto con di da que llo con il prossimo. In effetti, il servo della parabole è condannato perché tiene il perdono per sé, e non permette che il perdono ricevuto diventi gioia e perdono anche per gli altri. L’errore di questo servo è quello di separare il rapporto con Dio dal rapporto col prossimo. E invece è un rapporto unico: come fra Dio e l’uomo c’è un rapporto di gratuità, di amore accogliente, così deve essere fra l’uomo e i suoi fratelli.
Penso che  la parabola voglia sottolineare che l’amore di Dio non è anzitutto circolare, reciproco, ma espansivo, oblativo. È nella linea della gratuità, non della stretta reciprocità. Dio non si lascia rinchiudere nella stretta reciprocità. E, dunque, chi crede in Dio e parla di Dio, deve allargare lo spazio del perdono, che realizza la giustizia vera.
L’importante è capir e vivere il fatto che “la giustizia di Dio è il suo perdono”(Misericordiae Vultus, 20). Scrive papa Francesco: “La misericordia non è contraria alla giustizia ma esprime il comportamento di Dio verso il peccatore, offrendogli un’ulteriore possibilità di ravvedersi, convertirsi e credere” (Id.  21). Dobbiamo essere Chiesa in uscita  guardando gli altri con gli occhi di Gesù: occhi di amore e non di esclusione, certi che Dio è tutto e solo Amore, e proprio essendo Amore è apertura, accoglienza, dialogo, che nella sua relazione con noi, uomini peccatori, è si fa  compassione, grazia, perdono: misericordia,.
Le Vergini consacrate sono chiamate in modo particolare ad essere testimoni di questa misericordia del Signore, nella quale siamo tutti salvati.
L’esistenza di queste donne tiene viva l’esperienza del perdono di Dio, perché vivononella a consapevolezza di essere persone salvate, di essere grandi quando si riconoscono piccole, di sentirsi rinnovate ed avvolte dalla santità di Dio quando riconoscono il proprio peccato.
Dunque, la vita consacrata rimane una scuola privilegiata della «compunzione del cuore», del riconoscimento umile della propria miseria, ma è anche una scuola della fiducia nella misericordia di Dio, nel suo amore che mai abbandona. In effetti, più si è vicini a DioLui, più si è utili agli altri.
Con il dono totale di se stesse, le vergini consacrate sperimentano la grazia, la misericordia e il perdono di Dio non solo per sé, ma anche per i fratelli, perché la loro vocazione è di portare nel cuore e nella preghiera le angosce e le attese degli uomini, specie di quelli che sono lontani da Dio.
La verginità è frutto di una prolungata amicizia con Gesù maturata nell’ascolto costante della sua Parola, nel dialogo della preghiera, nell’incontro eucaristico. Per questo le vergini consacrate sono testimoni credibili della fede deve essere una persona che vive per Cristo, con Cristo e in Cristo, trasformando la propria vita secondo le esigenze più alte della gratuità.
La gratuità è uno dei fulcri del vangelo. Tutto è Grazia. “Nessuno” può pretendere niente, tutto fluisce, perché tutto viene donato. Come direbbe Paolo, “Che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto? E se l’hai ricevuto, perché te ne vanti come non l’avessi ricevuto?” (1 Cor 4,7). La gratuità non è fare le cose senza motive, ma farle con il massimo dei motivi, che è la fede che si ende operosa mediante la carità (cfr Gal 5,6).
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Lettura patristica
San Giovanni Crisostomo (344/354  – 407)
In Matth. 61, 5
Questa parabola cerca di ottenere due cose: che noi riconosciamo e condanniamo i nostri peccati, e che perdoniamo quelli degli altri. E il condannare è in funzione del perdonare, affinché cioè il perdonare diventi più facile. Colui infatti che riconosce i propri peccati, sarà più disposto a perdonare al proprio fratello. E non solo a perdonare con la bocca, ma di cuore. Altrimenti noi rivolgeremo la spada contro noi stessi. Che male può farti il tuo nemico che possa essere paragonato a quello che tu fai a te stesso, accendendo la tua ira e attirando contro di te la sentenza di condanna da parte di Dio? Se infatti tu sei vigilante e vivi filosoficamente, tutto il male ricadrà sulla testa di chi ti offende e sarà lui a pagare il malfatto; ma se ti ostini nella tua indignazione e nel risentimento, allora sarai tu stesso a riportare il danno: non quello che ti procurerà l’offesa del nemico, ma quello che ti deriverà dal tuo rancore. Non dire che t’insultò e che ti calunniò e ti fece mille mali, quanti più oltraggi tu enumeri, tanto più dimostri che egli è tuo benefattore. Egli infatti ti ha dato modo di espiare i tuoi peccati. Quanto più infatti egli ti ha offeso tanto più è diventato per te causa di perdono. Infatti se noi vogliamo, nessuno potrà danneggiarci; anzi i nostri stessi nemici saranno per noi causa di bene immenso. Ma perché parlo soltanto degli uomini? C’è qualcosa di più perverso del demonio? Eppure anche lui può essere per noi occasione di grande gloria, come lo dimostra Giobbe. Se dunque il diavolo può essere per te occasione di ricompensa, perché temi un uomo, tuo nemico? Considera infatti quanto tu guadagni sopportando con mansuetudine gli attacchi dei tuoi nemici. Il primo e più grande vantaggio è il perdono dei tuoi peccati. In secondo luogo tu acquisti costanza e pazienza e inoltre mitezza e misericordia: infatti chi non sa adirarsi contro coloro che l’offendono, tanto più sarà mite verso gli amici. Infine, sradicheremo per sempre da noi l’ira: e non vi è bene pari a questo. Chi infatti è libero dall’ira, evidentemente sarà libero dalla tristezza di cui l’ira è fonte e non consumerà la sua vita in vani affanni e dolori. Chi non s’adira né odia, non sa neppure essere triste, ma godrà di gioia e di beni infiniti. Odiando infatti gli altri, noi puniamo noi stessi; e, al contrario, benefichiamo noi stessi, amando. Oltre a tutto questo, tu sarai rispettato persino dai tuoi nemici, anche se essi sono demoni; anzi, con questo tuo atteggiamento non avrai più neppure un nemico. Infine, ciò che vale più di tutto ed è prima di tutto: tu ti guadagnerai la benevolenza di Dio; se hai peccato, otterrai il perdono; e se hai praticato il bene, aggiungerai nuovi motivi di fiducia e di speranza.
Sforziamoci dunque di non odiare nessuno, affinché Dio ci ami. Anche se noi siamo debitori di mille talenti, egli avrà misericordia di noi e ci perdonerà. Ma tu dici che sei stato offeso dal tuo nemico . Ebbene, abbi compassione di lui e non odiarlo; compiangilo vivamente, non disprezzarlo. Infatti, non sei stato tu ad offendere Dio, ma lui; tu, invece, hai acquistato gloria se hai sopportato con pazienza il suo odio. Ricorda che Cristo, quando stava per essere crocifisso, si rallegrò per sè e pianse per i suoi crocifissori. Tale deve essere la nostra disposizione d’animo; e quanto più noi siamo offesi, tanto più dobbiamo piangere per coloro che ci offendono. A noi provengono molti beni da questo fatto mentre a loro accade tutto il contrario. Costui – tu replichi – mi ha oltraggiato e schiaffeggiato dinanzi a tutti. E io ti dico che egli si è disonorato davanti a tutti ed ha aperto la bocca di mille accusatori; per te invece ha intrecciato più grandi e splendide corone e ha aumentato il numero degli araldi della tua pazienza. Ma egli mi ha insultato davanti agli altri – tu obietti ancora. E che è questo, quando Dio solo sarà il tuo giudice e non coloro che hanno inteso quelle calunnie? Per sé, infatti, ha aggiunto nuovo motivo di castigo, cosicché egli dovrà render conto non solo dei propri atti, ma anche delle parole che pronunciò contro di te. Se ti ha accusato presso gli uomini, egli però si è screditato davanti a Dio. Se poi queste considerazioni non ti bastano, pensa che anche il tuo Dio è stato calunniato non solo da Satana, ma anche dagli uomini e da quelli che amava sopra tutti.
Monsignor Francesco Follo è osservatore permanente della Santa Sede presso l’UNESCO a Parigi