lunedì 9 ottobre 2017

C’è Gesù in ogni migrante




(Fratel Alois) Una delle questioni su cui Papa Francesco cerca di sensibilizzare tutti i cristiani è quella dell’ospitalità ai migranti. Avendo posto la misericordia al centro del suo ministero, sa che si tratta di una delle questioni più importanti nell’attuale situazione dell’Europa e del mondo. Noi fratelli, a Taizé, vibriamo a questo appello del Papa perché l’accoglienza dei migranti è iscritta nella nostra storia. All’inizio della seconda guerra mondiale, quando ancora non c’erano fratelli con lui, fratel Roger, il nostro fondatore, accoglieva già rifugiati, soprattutto ebrei. Quell’accoglienza ci ha accompagnato fino a oggi.
La compassione di Dio nei nostri confronti ci spinge, come cristiani, a compiere gesti di solidarietà verso i più vulnerabili, ad aprire il nostro cuore alla miseria altrui, alla povertà materiale come pure alle sofferenze nascoste. Ovunque nel mondo, donne, uomini e bambini sono costretti a lasciare la loro terra, per ragioni sia politiche sia economiche. È la disperazione a motivarli a partire. È più forte di tutte le barriere innalzate per ostacolare il loro viaggio. Questi grandi flussi migratori sono inevitabili. Non rendersene conto significherebbe essere miopi. Cercare un modo per regolare questi flussi è legittimo e persino necessario, ma volerli impedire edificando muri irti di filo spinato è assolutamente inutile. Abbandonare i profughi nelle mani dei passatori, con il rischio che muoiano nel Mediterraneo, contraddice tutti i valori umani.
Di fronte all’arrivo massiccio di migranti, la paura è comprensibile. Resistere alla paura significa non che debba scomparire, ma che non ci deve paralizzare. Non permettiamo che il rifiuto dello straniero si insinui nelle nostre mentalità perché il rifiuto dell’altro è il germe della barbarie.
I paesi ricchi non dovrebbero forse prendere maggiormente coscienza di avere la loro parte di responsabilità nelle ferite della storia — e oggi negli squilibri ambientali — che hanno provocato e continuano a provocare immense migrazioni? Un secondo passo dovrebbe portarli a superare la paura e a iniziare coraggiosamente a modellare il volto nuovo che le migrazioni stanno già dando alle società occidentali. A tale riguardo, l’Italia è in prima linea. Tengo a dire che molti in tutta Europa ammirano la capacità di accoglienza di tanti italiani e vorrebbero che gli altri paesi fossero più solidali. Molti giovani europei fanno fatica a capire i loro governi quando questi manifestano la volontà di chiudere le frontiere. Quei giovani chiedono al contrario che la globalizzazione dell’economia sia associata a una globalizzazione della solidarietà.
Perché tanti discorsi sottolineano i problemi, senza metterne in risalto il lato positivo? Invece di vedere nello straniero una minaccia per il nostro standard di vita o la nostra cultura, accogliamolo come un membro della famiglia umana. Certo, le differenze culturali sono a volte profonde e occorre uno sforzo, da entrambe le parti, per trovare un’armonia. Ma la storia mostra come un incontro delle culture possa essere fecondo, per la cultura stessa, per la demografia, per l’economia. È vero che ci sono difficoltà legate all’arrivo dei migranti, ma la loro venuta è anche un’opportunità. Quanti bussano alla porta spingono i paesi di accoglienza a divenire aperti e solidali, a riprendere slancio.
Questo impatto positivo vale anche per la Chiesa. L’accoglienza dei migranti non ci stimola forse a vivere più concretamente il Vangelo? Molte parrocchie e comunità ne fanno già l’esperienza. Nessuno ha soluzioni facili di fronte a tanti profughi. Ma, ne sono convinto, non troveremo una soluzione senza contatti personali. E allora faremo questa scoperta: i poveri hanno qualcosa da dire, non si tratta solo di aiutarli, ma di ascoltarli e di ricevere da loro.
Andiamo a visitare i profughi. Al semplice fine di conoscerli, di ascoltare la loro storia. Quando andiamo incontro a quanti sono più poveri di noi, anche se a mani vuote, una gioia è donata. Spesso i più diseredati, con il loro bisogno degli altri, ci portano a una generosità che ci fa uscire da noi stessi. Ci aiutano ad accettare le nostre stesse debolezze e la nostra vulnerabilità. Le paure lasciano il posto alla fraternità.
A Taizé, accogliendo profughi, abbiamo ricevuto più di quanto abbiamo donato. I nostri occhi si sono aperti alle loro situazioni, la cui gravità è inimmaginabile. Sono nate belle amicizie. Non smetto mai di dire loro, ai cristiani e ai musulmani: è Dio che vi ha inviato da noi. Andando ancora più a fondo, ricordiamo che Cristo Gesù è venuto per unire tutta la famiglia umana nell’amore di Dio. Ha dato la sua vita per quella sulla croce. Da allora è unito a ogni essere umano ed è lui che possiamo vedere in ogni persona, soprattutto in quella più dimenticata. Lui è lì, in particolare in ogni profugo.
Quando andiamo incontro alle persone ferite dalla vita, ci avviciniamo a Gesù che era povero tra i poveri. Sono loro a poterci far entrare nella più grande intimità con Gesù.

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A Taizé da rifugiati ad amici
Parte della stessa famiglia
di AMAYA VALCÁRCEL (Jesuit Refugee Service)
Taizé è un piccolo villaggio della Borgogna, in Francia, di soli centottanta abitanti, che deve la sua fama alla comunità ecumenica fondata nel 1940 da fratel Roger, monaco svizzero che si era sentito chiamato a prestare aiuto alle persone in fuga dalla guerra. Oggi la comunità conta un centinaio di fratelli provenienti da trentacinque paesi e appartenenti a diverse fedi cristiane; vi arrivano ogni anno migliaia di pellegrini in particolare giovani — nei mesi estivi addirittura tremila-quattromila a settimana — che vengono accolti con l’aiuto di volontari. L’accoglienza dei rifugiati è la seconda natura di Taizé. Ebrei, prigionieri di guerra tedeschi, orfani di guerra, vittime dei conflitti scoppiati di volta in volta nel Laos, nel Vietnam, nei Balcani, nel Ruanda: qui tutti hanno trovato ospitalità, e alcuni sono rimasti nella regione. Otto anni fa, una coppia cristiana iracheno-egiziana ha potuto iniziare con la piccola Joana una nuova vita; le ha fatto seguito qualche tempo dopo un’altra famiglia irachena, di fede cristiana, giunta direttamente da Mosul con due figli in tenera età, e da un’altra ancora, siriana, di fede islamica, con quattro figli.
Nell’autunno del 2015 il governo francese aveva deciso di chiudere il campo rifugiati di Calais, noto come “la giungla”. Vi vivevano allora seimila-settemila persone in attesa di poter entrare nel Regno Unito. Le autorità francesi si rivolsero al municipio di Taizé affinché interpellasse la comunità circa la disponibilità ad accoglierne alcuni. La risposta dei fratelli fu pronta e affermativa. La comunità avvertiva che qualcosa di nuovo stava per avvenire: il sindaco di Taizé, Georges Bouillin, si disse pronto a fare quanto in suo potere per essere di aiuto. «Per me — dice — accogliere queste persone è un fatto naturale. Non posso pensare cosa significhi abbandonare il proprio villaggio, lasciando dietro di sé ogni cosa, la propria cultura, le tradizioni. Mi riesce difficile immaginare di stare lontano io stesso da Taizé, fosse pure per quindici giorni». Nell’autunno del 2015 sono scesi da un autobus undici giovani con appresso soltanto sacchetti di plastica, qualcuno una coperta. Il più giovane aveva 19 anni, il più anziano 38. Uno di loro, che arrivava dall’Afghanistan, ha raccontato che il suo villaggio era stato attaccato dai talebani, e come conseguenza la sua famiglia si era dispersa. In tre mesi era passato per dodici nazioni diverse, avanzando a piedi, col treno, per mare, con il pullman. Ora lavora presso una ditta di costruzioni e tra le varie mansioni gli è capitato di restaurare la chiesa romanica del villaggio di Taizé.
Un anno più tardi è arrivato a Taizé, sempre proveniente da Calais, un secondo gruppo di diciotto giovani, tutti africani. Molti dei rifugiati avevano già parenti che vivevano nel Regno Unito, eppure non gli fu riconosciuto il diritto di ingresso nel paese. Con l’eccezione di quattro, sono rimasti tutti in Francia. Una giovane del luogo di nome Janka spiega: «Una volta capito che non c’erano speranze di raggiungere il Regno Unito, alcuni se ne sono andati senza nemmeno salutare. Penso che in questo modo il distacco gli riuscisse più facile, quasi a volersi proteggere in qualche modo, e porre tutta l’attenzione sul da farsi. Non ce l’avrebbero fatta, altrimenti». Per contrasto, è stato il clima di rispetto e di fiducia percepito nell’accoglienza di Taizé a fare la differenza per gli altri. Fin dal primo giorno erano stati chiamati “i giovani” oppure “i nostri nuovi amici”, mai rifugiati o migranti.
L’edificio messo a disposizione dalla comunità ai nuovi amici si trova al centro del villaggio, di fronte alla chiesa romanica. Un locale è stato destinato alla preghiera, con tappeti orientati verso la Mecca e un corano a disposizione. Per i nuovi arrivati una sorpresa al di là di ogni aspettativa. Alcuni dei fratelli e persone del luogo si sono fatti carico di accompagnare i nuovi arrivati nella vita quotidiana: prendevano i pasti insieme, rendendo grazie in arabo e francese. Ben presto volontari della regione si sono offerti di impartire lezioni di francese quattro volte alla settimana, favorendo così una reciproca conoscenza, preludio di veri e propri rapporti di amicizia. Altri, nella comunità, hanno dedicato ore all’ascolto, prendendo appunti, chiedendo particolari, cercando di preparare domande di asilo coerenti col risultato che, fatta eccezione per un caso, a tutti è stato riconosciuto lo status di rifugiato. E ora si vanno gradualmente integrando nella realtà locale.
È il primo aspetto di cui i rifugiati si sono resi conto: una presenza più ricca, diversa nell’interazione con la popolazione locale. Ferenc, che vive a Taizé da diciassette anni, così lo spiega: «Quando spendi il tuo tempo per la persona in quanto tale, e non per un motivo qualsiasi, si instaura un rapporto qualitativamente diverso». Concorda Kiki, abitante del villaggio: «La vera differenza è nel livello di coinvolgimento personale che la comunità ha nei confronti di ogni individuo». Consapevole di quanto importante sia per qualsiasi forma di integrazione l’apprendimento della lingua locale, la comunità ha organizzato lezioni a carattere intensivo tenute da volontari del luogo. Spiega Christine, una degli insegnanti: «Dovendo far fronte a così tante difficoltà e con così poche certezze, quest’ora di francese rappresenta un momento in cui le loro storie passano in secondo piano; è una sorta di realtà parallela, uno spazio in cui si scherza e si ride insieme». La comunità e l’intero villaggio si sono premurati di coinvolgere gli amici sparsi nella regione, chiedendo di collaborare nell’opera di accompagnamento dei rifugiati: il numero delle persone che si sono dichiarate disponibili è stato sorprendente, superando ogni aspettativa. Capita che agli incontri di coordinamento prendano parte più di sessanta volontari, chi per le lezioni di francese, chi per funzioni amministrative o di assistenza sanitaria, chi ancora per organizzare iniziative sportive con i rifugiati, portarli a visitare la regione o invitarli a pranzo o a cena.
Quando sono arrivati i rifugiati, i fratelli hanno preso contatti con l’imam di Chalon-sur-Saône, che insieme alla sua comunità ha accolto con calore i giovani, e ora spesso li incontra al villaggio, dividendo il pasto con i fratelli di Taizé; tra questi, qualcuno ha deciso di studiare l’arabo per approfondire la conoscenza dell’islam attraverso letture e incontri. Fratel David condivide la sua esperienza: «Il candore di queste persone ci ha lasciato una traccia profonda, indelebile. La mia conoscenza dell’islam era limitata a un livello teorico. Ora, conoscendo più da vicino la fede di questi giovani, scopro di avere tanto da imparare dal loro esempio. Vedo come si abbandonano a Dio in una fede piena, concreta, una fede vissuta». I giovani ospiti hanno iniziato così a sentirsi davvero parte di una grande famiglia. I mentori si incontrano con i rifugiati una o due volte alla settimana per un tè o una passeggiata insieme. «Mi hanno fatto cambiare l’idea che avevo dei musulmani», si sente dire spesso. Lo stesso sindaco, in origine agricoltore, e sua moglie seguono un rifugiato sudanese che dimostra interesse per l’agricoltura e attualmente lavora presso una cooperativa della zona. Molti dei rifugiati sono originariamente pastori o contadini; solo alcuni di loro sono potuti andare a scuola. La comunità di Taizé ha trovato per loro delle forme di praticantato presso ditte di costruzione, di idraulica o in qualche fabbrica, che hanno accettato di prenderli in carico ciascuna per due settimane. In questo modo è possibile farli familiarizzare con i ritmi di lavoro europei e capire quali possono essere i loro interessi e le loro capacità in modo da prepararli per un futuro impiego.
Nel luglio 2016, in seguito all’uccisione di un sacerdote cattolico francese di 86 anni, padre Jacques Hamel, da parte di due musulmani, uno dei sudanesi ospiti a Taizé ha rivolto queste parole a tremila giovani radunati nella chiesa della Riconciliazione: «In Europa, molti hanno paura dei rifugiati: a volte per motivi economici, altre per timore che tra loro si nascondano dei terroristi. Anch’io temo i terroristi: ho sofferto tanto per le violenze nel mio paese. Ma da musulmano, credo che noi dobbiamo costruire la pace. Il Profeta ci chiede di essere misericordiosi verso il mondo; vuole che si viva uniti, non uccidere il prossimo. Non è religione, quella. Nel Sudan non conoscevo persone di fede cristiana, qui a Taizé invece una comunità cristiana mi ha fatto sentire bene accetto, accolto. Vedo che preghiamo in forme diverse, ma tutti crediamo che Dio vuole la pace. Credo si possa vivere insieme in pace, e dare così un messaggio al mondo intero. Il mondo ha bisogno della nostra testimonianza».
Una giovane del posto, Christine, spiega l’importanza dell’accoglienza: «Basandomi sulla nostra esperienza, direi che è estremamente importante che l’accoglienza veda tutti uniti: i fratelli, le autorità locali, gli abitanti del villaggio, ciascuno secondo la propria capacità. Noi tutti abbiamo ruoli diversi, e i rifugiati sanno cosa possono aspettarsi da ciascuno di noi. Questa esperienza ha rafforzato i rapporti con le persone della mia regione che non conoscevo tanto bene. Ora so che posso contare su ognuno di loro, e mi sento ancora più saldamente ancorata nel mio territorio. Mi spaventa l’idea di prendere un aereo per andare a conoscere il mondo; ora però è il mondo a venire da me in questo piccolo angolo della Francia».
Fratel Marek, che accompagna il secondo gruppo di rifugiati, tiene a dire: «L’umanità che osserviamo in loro è stupenda. A dispetto delle difficoltà che hanno dovuto superare e le sfide tutt’ora da affrontare — barriere linguistiche, adattamento culturale — riescono comunque a godere la vita, gli piace far festa, hanno la capacità di prendere le distanze dalle cose, di superare gli ostacoli. Per noi della comunità monastica, il fatto di vivere così vicini a loro ci porta a essere più vicini all’umanità tutta, un’umanità che lotta per vivere, un’umanità sofferente. Ci aiutano a far sì che ci sentiamo anche noi un po’ nel Sudan, un po’ in Eritrea, in Afghanistan, in Siria». Nelle parole di fratel David, questi giovani rifugiati musulmani «fanno ormai parte della nostra famiglia. Sono certo che saremo sempre in contatto, per sempre. Quantomeno con alcuni di loro. Non sono “i rifugiati sudanesi che abbiamo aiutato”, sono parte della nostra famiglia».


L'Osservatore Romano