sabato 21 ottobre 2017

Consigli per discernere i discorsi ingannevoli.




(Diego Fares) Come discernere se un discorso viene dallo «spirito buono» e ci avvicina a Gesù, o se invece è animato dallo «spirito cattivo», anche quando chi lo pronuncia afferma di voler «dire la verità»? È l’interrogativo a cui, partendo dall’esperienza spirituale di Pietro Favre (1506-1546), canonizzato dal Pontefice il 17 dicembre 2013, risponde un articolo scritto per la Civiltà Cattolica di cui anticipiamo ampi stralci.

Ogni tanto capita di leggere articoli che attaccano la Chiesa e il Papa. Sì, la Chiesa e il Papa, perché si tratta di un attacco a entrambi, sebbene qualcuno affermi di attaccare il Papa per difendere la dottrina della Chiesa; come pure altri dicono di difendere il Papa mentre se la prendono con la Chiesa. Il linguaggio che essi usano non sembra complicato: i titoli su intrighi di potere, veleni tra alti prelati, lotte interne alla Curia, clamorosi errori pastorali o politici e minacce alla dottrina cattolica, sono chiarissimi e diretti. Ma un linguaggio semplicistico non è un linguaggio semplice, sebbene possa assomigliargli, proprio come la zizzania all’inizio assomiglia al grano buono. 
L’uomo della parabola lo discerne a colpo d’occhio: se c’è zizzania, è perché un nemico l’ha seminata (cfr. Matteo, 13, 28). Ma non si deve cercare di estirparla tutta prima del tempo, perché si corre il rischio di strappare insieme con essa anche il grano. Tuttavia è bene, quando le troppe erbacce soffocano il grano buono, tagliarne un po’ per dare respiro alle piante. Quando, in una discussione, i toni si alzano troppo e le parole cominciano a ferire, se si vuole continuare a dialogare, occorre abbassare i toni e «curare il linguaggio».
Qualcuno giustifica un linguaggio scandaloso dicendo che sono i fatti di cui si parla a essere tali. Se bastasse questa giustificazione, dovrebbe accadere lo stesso quando il Papa afferma che c’è corruzione in Vaticano o quando condanna uno scandalo. Ma la verità non consiste soltanto nei «fatti» che chiunque può riferire in modo soggettivo, senza preoccuparsi di chi sta ascoltando o leggendo. Parafrasando alcuni commenti su questo genere di notizie, si potrebbe dire che un certo tipo di linguaggio attacca soprattutto lo «splendore della verità».
Avere tutti maggiore cura del linguaggio che usiamo non è meno vitale dell’avere cura della qualità dell’aria del pianeta. E tale cura del linguaggio non riguarda soltanto i concetti e le immagini che scegliamo di utilizzare per intessere un discorso razionale: piuttosto ha a che fare con l’attenzione e il rispetto che hanno l’uno verso l’altro coloro che dialogano e cercano assieme la verità. 
Dato il livello di sofisticazione del linguaggio attuale, non è facile discernere con chiarezza quando si presenta un discorso ingannevole. Ce ne sono di vari generi. Su questo cammino di crescita nel discernimento del linguaggio ci facciamo aiutare da alcuni criteri indicati da san Pietro Favre, il gesuita compagno di Ignazio e di Francesco Saverio. Favre, a giudizio di Ignazio, era la persona che dava meglio gli Esercizi spirituali e aveva il carisma del discernimento e della conversazione spirituale: sapeva dialogare con tutti e aveva modi particolarmente rispettosi e convincenti nei confronti dei suoi avversari. 
Il primo criterio egli lo spiega così: «Durante la messa mi nacque un altro desiderio, che cioè tutto il bene che potrò compiere, l’abbia a fare con la mediazione dello Spirito buono e santo. E mi venne l’idea che a Dio non piaccia la maniera con cui gli eretici vogliono fare certe riforme nella Chiesa. Sebbene infatti dicano delle cose vere, ciò che capita anche ai demoni, non lo fanno con quello spirito di verità che è lo Spirito santo». 
Pietro Favre fa notare che non basta «dire cose vere», ma bisogna dirle con quello spirito di verità che è lo Spirito santo. Purché poi si voglia davvero che quelle cose aiutino a correggere concretamente un errore o un cattivo comportamento. Favre, in pratica, distingue tre «verità»: le cose vere (i fatti), lo spirito di verità (ossia la disposizione d’animo con cui si dicono «le cose vere»), e lo Spirito della verità come persona. Tra la verità dei fatti e lo Spirito della verità si colloca appunto lo spirito di verità o «spirito buono», il quale permette ai fatti della vita — anche al peccato — di connettersi con la grazia, che ordina tutto al bene. È utile possedere questo tipo di discernimento quando si tratta di giudicare se qualcosa è vero o falso. In un discorso va considerata e valutata la capacità che esso ha, nel suo insieme e in ciascuna parola, di essere usato per il bene dallo Spirito. E, d’altra parte, va soppesata la capacità che esso ha, nel suo insieme o in qualcuna delle sue parti, di bloccare l’azione dello spirito buono o di rafforzare quello cattivo. Quella che dunque potrebbe sembrare una piccola differenza — dire bene una cosa vera, oppure dirla con scherno, ira e disprezzo — in realtà è in grado di attivare grandi cambiamenti. Una verità detta con mitezza e rispetto è una mano tesa che crea ponti. Invece, una verità detta con asprezza e mancanza di rispetto è un ceffone che ostacola il dialogo e la comprensione reciproca.
San Pietro Favre ci offre un secondo criterio per discernere il modo di parlare secondo lo Spirito della verità. Egli chiede al Signore di insegnargli a parlare bene — sotto l’influsso dello Spirito santo — delle cose di Dio, e si accorge di fare esperienza di un «meno». Sente che nel suo linguaggio c’è qualcosa che, se non sta attento, può togliere efficacia alla grazia che ha ricevuto, nel momento in cui egli comunica questa esperienza a un altro. Favre dice così: «[Domandavo al Signore che] mi insegnasse come parlare di cose già prima intuite, per me o per gli altri, sotto l’influsso dello spirito buono. Di continuo infatti io dico, scrivo e faccio una quantità di cose senza badare allo spirito nel quale prima le avevo sentite. Così mi capita, ad esempio, di esprimere alla familiare, con gaiezza e animo scherzoso, ciò che per l’innanzi avevo provato in uno spirito di compassione e d’intima lacerazione: chi ascolta ne ricava minor frutto perché la verità vi è detta secondo uno spirito meno buono di quello con cui era stata recepita».
Favre attribuisce tutto questo al fatto di aver espresso la grazia ricevuta con uno spirito «meno» buono di quello con cui l’aveva ricevuta. E attribuisce questo minore grado di bontà a quello che potremmo chiamare un «cambiamento di tono»: ha espresso in modo scherzoso ciò che prima in lui aveva suscitato compassione. Si tratta di quei linguaggi in cui si nota un cambiamento di tono e di registro che «sminuisce» l’altro — lo squalifica, lo denigra — oppure si parla di cose importanti, persino sacre, in modo semplicistico o riduttivo.
Sant’Ignazio esprime questo tipo di tentazione con una regola di discernimento che mostra come non sempre lo spirito cattivo cerchi il male maggiore: «Se nel caso dei pensieri suggeriti si va a finire in qualche cosa cattiva o futile o meno buona di quella che l’anima si era prima proposta di fare, o la infiacchisce o inquieta, o conturba l’anima, togliendo la sua pace, tranquillità e quiete che prima aveva, è chiaro segno che questo procede dal cattivo spirito». Inoltre, questo «male minore» a volte viene cercato volutamente da chi si accorge che, se mirasse a un male maggiore, non avrebbe successo. Tutto questo ritorna spesso nei discorsi che si fanno sul Papa e sulla Chiesa, ed è la maniera più facile per far sì che molta gente “se la beva” senza accorgersene. 
Un terzo criterio, tra quelli indicati da Favre e che può tornare utile in questa riflessione, è quello del «magis ignaziano». Sant’Ignazio è l’uomo del magis («di più»), della «maggior gloria di Dio». Ma non si tratta di un «di più» ideale, di una perfezione proposta in astratto, che poi bisognerebbe cercare di realizzare, bensì di un «di più» concreto, possibile, incarnato nella vita, che tiene conto dei tempi, dei luoghi e delle persone. In definitiva, è il passo avanti che il Padre gradisce e che lo Spirito santo ci invita a fare. Può trattarsi di un grande passo, come quello della conversione di san Paolo o quello del gesto di san Massimiliano Kolbe, che ha dato la propria vita per salvare un condannato a morte; oppure di un piccolo passo, come quello che fa un bambino per saltare una pozzanghera. Piccolo o grande che sia, questo passo è un «più nello Spirito». Afferma Favre: «In generale quanto più alto sarà lo scopo che tu avrai proposto all’attività, alla fede, alla speranza e all’amore di un uomo perché egli vi dedichi tutte le sue forze affettive e operative, tanto più sarà probabile gli si mettano in moto gli spiriti buoni e cattivi [...], cioè quello che dà forza e quello che debilita, quello che illumina e quello che annebbia e oscura, insomma il buono e l’altro che gli è opposto».
In contrasto con la dimensione propria del linguaggio di Francesco, che esorta ciascuno — anche i suoi critici — a pensare al passo avanti da fare personalmente, esistono affermazioni che esortano a fare un passo avanti, ma finalizzato a individuare quale Papa precedente o quale enciclica o dogma di fede Francesco starebbe attaccando. Ecco il criterio per discernere quei linguaggi che seguono la logica dei farisei e dei dottori della legge, i quali, quando Gesù faceva un bene concreto — a esempio, guariva di sabato un uomo che aveva la mano paralizzata — lo accusavano di infrangere la legge. Il movimento di questi linguaggi è del tutto contrario a quello dell’incarnazione, in cui le parole e le azioni particolari non cercano di attaccare nessuno né di distruggere qualcosa, ma si propongono di trasmettere la grazia a una persona che si trova in un luogo e in un tempo determinato. Le affermazioni o insinuazioni sul fatto che Francesco attaccherebbe l’enciclica di Giovanni Paolo II Veritatis splendor non meriterebbero neppure di essere menzionate, se non fosse per il fatto che la gente semplice resta perplessa e scandalizzata quando cose simili vengono dette in maniera categorica e solenne. Il fatto che Francesco, nella sua esortazione apostolica Amoris laetitia, che raccoglie i risultati di due sinodi sulla famiglia, dica che «non tutte le discussioni dottrinali, morali o pastorali devono essere risolte con interventi del magistero» (Amoris laetitia, 3) è in perfetta consonanza con lo spirito della Veritatis splendor, in cui Giovanni Paolo II conclude «il discernimento di alcune tendenze della teologia morale odierna» con questa esortazione: «Bisogna però che noi, Fratelli nell’Episcopato, non ci fermiamo solo ad ammonire i fedeli circa gli errori e i pericoli di alcune teorie etiche. Dobbiamo, prima di tutto, mostrare l’affascinante splendore di quella verità che è Gesù Cristo stesso» (Veritatis splendor, 83). Francesco fa sua e amplia questa «esortazione apostolica» di san Giovanni Paolo II. Infatti, la verità non rifulge nelle definizioni, nemmeno in quelle della Veritatis splendor, ma nell’uomo vivo.

L'Osservatore Romano