giovedì 12 ottobre 2017

Eternamente giovane



Christoph Schönborn: Ciò che mantiene giovane la Chiesa

Sette criteri. Il cardinale Christoph Schönborn venticinque anni fa era il segretario della commissione di vescovi e cardinali incaricati della redazione del Catechismo della Chiesa cattolica (Ccc). Nel suo intervento alla solenne commemorazione nell’aula nuova del Sinodo, l’arcivescovo di Vienna ha delineato i «grandi orientamenti secondo cui fu concepito ed elaborato il Ccc» individuando i «sette criteri» che all’epoca hanno guidato il lavoro: la fede costituisce un tutto organico; la differenza tra dottrina della fede e teologia deve essere chiara; bisogna rispettare la gerarchia delle verità per vedere la dottrina della fede come un tutto organico; il primato della grazia deve essere sempre direttivo; la dottrina deve essere visibile nella sua struttura trinitaria; tutto deve essere visto in ordine a Cristo; in tutte le esposizioni si deve rendere visibile l’unità interna di Scrittura e tradizione.Pubblichiamo quasi integralmente i primi due punti e quello conclusivo.
Ciò che mantiene giovane la Chiesa
(Christoph Schönborn) L’idea di un catechismo presuppone che si percepisca e si consideri la fede come un tutto, e che si ritenga possibile concepirla ed esporla come un tutto organico. I punti chiave in tal senso sono le citazioni di Ireneo nei numeri 172-175. Si tratta della questione dell’unità della fede: «Da secoli, attraverso molte lingue, culture, popoli e nazioni, la Chiesa non cessa di confessare la sua unica fede, ricevuta da un solo Signore, trasmessa mediante un solo Battesimo, radicata nella convinzione che tutti gli uomini non hanno che un solo Dio e Padre» (172). Un tema fondamentale del Catechismo è l’unità del Dio trino, e da qui l’unità del genere umano, la chiamata soprannaturale di tutti gli uomini alla comunione con Dio. Sant’Ireneo di Lione, come testimone di questa fede, spiega: «La Chiesa, sebbene diffusa in tutto il mondo fino alle estremità della terra, avendo ricevuto dagli apostoli e dai loro discepoli la fede [...], conserva questa predicazione e questa fede con cura e, come se abitasse un’unica casa, vi crede in uno stesso identico modo, come se avesse una sola anima ed un cuore solo, e predica le verità della fede, le insegna e le trasmette con voce unanime, come se avesse una sola bocca» (173).
La convinzione che la fede sia una, anche attraverso i secoli, rappresenta anche per noi oggi il presupposto da cui partire per annunciare la stessa fede che già gli apostoli ci hanno tramandato. Ireneo continua dicendo: «Infatti, se le lingue nel mondo sono varie, il contenuto della tradizione è però unico e identico. E non hanno altra fede o altra tradizione né le Chiese che sono in Germania, né quelle che sono in Spagna, né quelle che sono presso i Celti (in Gallia), né quelle dell’Oriente, dell’Egitto, della Libia, né quelle che sono al centro del mondo», (quale fosse il centro del mondo, Ireneo non ce lo dice, se la sua città d’origine, Antiochia o se Lione, la sua città vescovile, ad ogni modo anche lì si insegna la stessa fede). «Il messaggio della Chiesa è dunque veridico e solido, poiché essa addita a tutto il mondo una sola via di salvezza» (174). Ed infine: «Conserviamo con cura questa fede che abbiamo ricevuto dalla Chiesa, perché, sotto l’azione dello Spirito di Dio, essa, come un deposito di grande valore, chiuso in un vaso prezioso, continuamente ringiovanisce e fa ringiovanire anche il vaso che la contiene» (175). La fede resta sempre giovane e mantiene giovane la Chiesa.
La fede è una. Lo è non solo al tempo di Ireneo, ma anche nel ventesimo secolo. 
Bisogna fare in anticipo una distinzione, quella fra teologia e dottrina della fede. È un problema fondamentale, così mi sembra, che nell’attuale dibattito oggi, non si distingua più abbastanza chiaramente la teologia e la dottrina della fede. In qualche modo regna il sospetto che questo Catechismo rappresenti solo una teologia fra le altre. Che sia quella “ratzingheriana” o, come ha detto Hans Küng: è teologia “romana”. Naturalmente i vescovi che hanno inviato i loro contributi, ed erano molti, hanno una loro teologia, una loro cultura, una loro lingua e un loro carattere. C’è nella Chiesa, e ci sarà sempre, una pluralità legittima. Bonaventura e Tommaso sono semplicemente diversi, così come sono diversi Giovanni e Matteo. Ma questa diversità, se non deve diventare opposizione e contrasto, è possibile solo sul fondamento di un’unità nella fede. L’unità nella fede viene prima delle teologie plurali, deve essere loro presupposta. Se non è più possibile parlare dell’unica fede in diverse teologie, allora le diverse teologie non stanno più insieme nella casa della Chiesa cattolica. Il Catechismo ha cercato sempre, e questo era uno dei criteri di redazione più importanti, di formulare solo il deposito comune della fede, naturalmente non solo ciò che è deposito di fede definito, bensì anche ciò che dice il magistero ordinario della Chiesa e ciò che costituisce la coscienza della fede della Chiesa.
Nelle fasi di redazione si è sempre fatta, coscientemente, attenzione a tenere lontano dal Catechismo tesi teologiche, anche tesi teologiche controverse. Un esempio. Nelle prime fasi di redazione, il capitolo sul descensus ad inferos veniva formulato in maniera chiaramente “balthasariana”. Era stato fatto dunque il tentativo di introdurre nel Catechismo l’approccio di Hans Urs von Balthasar e di altri teologi a questo mistero di fede. Nel corso del processo redazionale si eliminò una tale impostazione perché ci si disse: questa è certamente una tesi teologica degna di discussione, è anche una visione spirituale che può avere la sua fondatezza, ma non è la dottrina della fede della Chiesa, non si tratta del deposito di fede comune della Chiesa. Non si troverà nel Catechismo, per citare un altro esempio, la dottrina trinitaria psicologica agostiniana, anche se alcuni vescovi ed esperti lo richiedevano con insistenza, e nonostante essa abbia influenzato per secoli la teologia dell’occidente. Essa non fa parte della dottrina di fede della Chiesa, fino ad oggi essa è rimasta una dottrina teologica, una teoria teologica, di alto livello, ma pur sempre una teoria teologica e non dottrina di fede vincolante. Distinguere dottrina della fede e teologia è un presupposto per poter redigere e presentare un libro della fede, senza con ciò negare, fin dal principio, il diritto alla pluralità teologica, ma con l’esigenza di trovarci qui su un piano ancora più fondamentale, sul piano della dottrina della fede.
Il lavoro esegetico nel Catechismo è stato controllato da eccellenti esperti biblici. Non è certamente vero, come si è ritenuto, che l’esegesi degli ultimi trenta, cinquanta anni non abbia lasciato alcuna traccia in questo testo. Il testo su Gesù e Israele, per esempio, il rapporto di Gesù con il popolo eletto (574-591), presuppone un lavoro esegetico molto differenziato e qualificato. Chiunque si intenda un po’ di esegesi si renderà conto di quanto eccellente lavoro esegetico sia qui confluito. Quando tuttavia si critica come “uso non scientifico delle Scritture” il fatto che il Catechismo formuli: “Gesù dice” — e poi segue per esempio una citazione di Giovanni —, questo lo rifiuto decisamente. Nel Catechismo non abbiamo a che fare con una monografia esegetica, ma con un libro della fede. Ed è del tutto legittimo dire nella liturgia: “Parola del nostro Signore Gesù Cristo”, quando si legge il Vangelo di Giovanni. Con ciò nessuno ritiene che ogni parola nel Vangelo di Giovanni sia ipsissima vox. Se si è criticato che le lettere pastorali vengono citate con: “Paolo dice” e poi segue una citazione dalla prima lettera a Timoteo, questo è poco serio. C’è, infatti, una differenza fra una monografia esegetica scientifica e l’uso catechetico delle Scritture. E noi dobbiamo avere il diritto di dire, secondo i migliori criteri esegetici biblici: “Paolo scrive nella prima lettera a Timoteo...”. Ciò non significa, che egli l’abbia scritta con la propria penna, che la prima lettera a Timoteo debba essere ipsissima vox di san Paolo. Ma se la Chiesa, nella sua liturgia, attribuisce questa lettera a Paolo, lo fa non senza legittimazione. I criteri dell’uso delle Scritture nel Catechismo sono quelli indicati nella Dei Verbum nr. 12. È legittimo e necessario che nello studio della sacra Scrittura, nella ricerca delle intenzioni degli autori sacri si deve tener conto delle condizioni del loro tempo e della loro cultura, delle forme narrative, del modo di esprimersi e di pensare della loro epoca. Esiste tuttavia un principio importante per la retta interpretazione, senza il quale la Scrittura resterebbe lettera morta, e questo dice: la sacra Scrittura deve essere letta e interpretata con l’aiuto dello stesso Spirito mediante la quale è stata scritta (cfr. 111). Si tratta dell’intima relazione esistente fra interpretazione scientifica e spirituale della Scrittura. Bisogna prestare grande attenzione al contenuto e all’unità di tutta la Scrittura. Si deve leggere la Scrittura nella tradizione vivente di tutta la Chiesa, essa non si può leggere separata dalla storia della sua lettura. E bisogna considerare l’analogia della fede, intendendo con essa anche la lunga esperienza della fede nel corso dei secoli. Francesco di Assisi è, per esempio, un commento vivente del Vangelo. Il Catechismo cerca di mostrarlo intrecciando molto strettamente Scrittura e tradizione.
Si è rimproverato che il Catechismo abbia riportato, l’una dopo l’altra, citazioni molto diverse fra loro: Agostino, poi Tommaso, poi un testo conciliare, poi una citazione liturgica. Qualcosa di giusto può anche esserci in questa critica. Ma il pensiero fondamentale, volutamente seguito, è che la tradizione della Chiesa rappresenta un’unità vivente. Ho tutto il diritto, e anche la possibilità, oggi, di leggere Agostino, senza essere uno specialista di pelagianesimo, e Tommaso, senza essere un conoscitore di Aristotele. Ciò significa che, accanto all’interpretazione storico scientifica della dottrina della Chiesa, esiste anche una lettura nell’unità della tradizione della fede, nella quale io, per esempio, leggo Agostino in primo luogo come testimone della fede. Qui Tommaso, Agostino, Ireneo e la piccola Teresa possono stare senza problemi vicini fra loro. Si tratta della contemporaneità nella fede.
Infine bisogna qui menzionare anche l’esperienza dei santi. Si è cercato intenzionalmente di lasciare l’ultima parola ai santi, in tutte le sezioni importanti del Catechismo, per rendere evidente, che non si tratta di un insegnamento arido, ma di esperienza vivente di fede. Non è stato possibile, per questo Catechismo, articolare in maniera adeguata le diverse esperienze di fede dei tempi odierni, perché esse sono culturalmente davvero molto diverse. Un’esperienza, però, può essere resa universale come nessun’altra, l’esperienza dei santi.

L'Osservatore Romano,