domenica 22 ottobre 2017

L'alba della mezzanotte



Luigino Bruni (Avvenire)

Un popolo che crede ancora in se stesso ha ancora il suo proprio Dio. Proietta il suo piacere di sé, il suo sentimento di potenza in un essere al quale possa rendere grazie. Chi è ricco vuole offrire; un popolo superbo ha bisogno di un Dio per "sacrificare"… Laddove declina la volontà di potenza, c’è ogni volta anche una involuzione fisiologica, una "décadence". La divinità ella "décadence" diventa il Dio dei fisiologicamente regrediti, dei deboli Friedrich Nietzsche, L’Anticristo
In certi momenti decisivi, la fede e la speranza diventano, di fatto, la stessa cosa. Ciò accade quando la domanda: "tu credi?", ci appare troppo piccola e incapace di cogliere la ricchezza del mistero del nostro cuore. Quando perdiamo la fede semplicemente perché volevamo diventare adulti e la prima fede bambina non è riuscita a crescere insieme al nostro amore e al dolore nostro e degli altri, la fede può ritornare a casa presa per mano dalla speranza. La speranza è più resiliente della fede, perché anche sotto un cielo diventato disabitato possiamo sempre sperare che le parole buone che ci avevano detto che nel mondo c’era un amore più grande, fossero vere – che ne fossero vere alcune, che ne fosse vera almeno una. Anche quando non riusciamo più a credere in Dio possiamo sempre continuare a sperarlo, possiamo sperare che nel giorno in cui abbiamo smesso di pregare abbiamo commesso l’errore più grande, ma quel giorno non potevamo saperlo. E questa speranza, umile e mite, diventa già una nuova preghiera vera, e riempie di vita e di bellezza l’umanissima e inquieta attesa del non-ancora.

«Così Giovanni, figlio di Karèach, e tutti i capi delle bande armate raccolsero tutti i superstiti di Giuda, (…) e insieme con il profeta Geremia e con Baruc, figlio di Neria, andarono nella terra d’Egitto, non avendo dato ascolto alla voce di YHWH» (Geremia 43, 4-7). Quei superstiti portano con sé Geremia e il suo discepolo Baruc verso l’Egitto. Lo portano in mezzo a loro, come nuova arca dell’Alleanza. Non ascoltano le sue parole, ma il patto con quel Dio diverso, i racconti dei patriarchi e della liberazione attraverso il mare, erano ancora vivi nei loro cromosomi morali e spirituali, e, in qualche modo, continuavano a determinare le loro azioni. Come accade a chi ha dimenticato la fede dei genitori e tutte le preghiere imparate da bambino, ma prova un dolore vero se il terremoto distrugge la chiesa del paese dove da piccolo ha ascoltato parole buone. Questa fede può non essere solo cultura o nostalgia dell’infanzia. Agisce a un livello più profondo della nostra psicologia, opera a nostra insaputa e, qualche volta, a nostro dispetto, come un istinto o un destino. Possiamo non ascoltare i profeti, li possiamo uccidere, ma c’è un "resto" dell’anima che si può intonare con la loro voce. Per questo li vogliamo con noi, non li ascoltiamo, ma li vorremmo vicini, li vogliamo accanto, per quel bisogno di vita e di verità che hanno anche i malvagi. Restiamo umani anche quando siamo cattivi. Siamo Adam prima di essere anche Caino, e restiamo Adam anche dopo Abele. Restiamo immagine e somiglianza di chi possiamo non ascoltare con l’orecchio, ma che non possiamo non ascoltare con le midolla – questa è l’antropologia biblica.

Geremia, giunto con la carovana in Egitto, continua, semplicemente, a fare il suo "mestiere", a compiere il suo destino. A profetizzare in nome di YHWH, a parlare con la bocca e con i gesti: «Allora la parola di YHWH fu rivolta a Geremia a Tafni: "Prendi in mano grandi pietre e sotterrale nel fango nel terreno argilloso all’ingresso della casa del faraone a Tafni, sotto gli occhi dei Giudei"» (43,8-9). Il senso del gesto è subito chiaro: «Io manderò a prendere Nabucodònosor, re di Babilonia, mio servo; egli porrà il trono su queste pietre che hai sotterrato e stenderà il baldacchino sopra di esse» (43,10). Sono fuggiti in Egitto, ma non possono fuggire al loro triste destino. Anche in Egitto YHWH continua a parlare a Geremia, gli consegna messaggi per il popolo. E Geremia obbedisce. Lo ha fatto per tutta la vita, e continua a farlo anche in esilio, senza patria, senza tempio. Questa voce nomade ed errante, che parla senza tempio, tra deportati e in mezzo a nuovi dei, dice ancora una volta la laicità radicale dell’umanesimo biblico: per trovare lo spirito divino sulla terra non c’è bisogno di altro che di persone umane, di voci di uomini e donne, di mani, di occhi, di corpi. Siamo noi l’unico tempio imprescindibile sotto il sole – allora, forse, nel nostro tempo dove il Dio parla sempre meno nei templi, possiamo sperare di riascoltare la sua voce se incontriamo e riconosciamo almeno un profeta.

Geremia continua a profetizzare, e i suoi continuano a non ascoltarlo: «Dice dunque YHWH: "Perché mi provocate con l’opera delle vostre mani, offrendo incenso a divinità straniere nella terra d’Egitto?"» (44,7-8). Al termine della sua missione e della sua vita, Geremia si ritrova dentro le stesse battaglie dei primi tempi ad Anatot. Sopra tutto e tutti, ritroviamo la sua eterna e continua lotta contro l’idolatria, la grande malattia di Israele e di tutte le religioni, della quale i profeti sarebbero la sola cura, se fossero ascoltati: «Allora tutti gli uomini che sapevano che le loro donne avevano bruciato incenso a divinità straniere, e tutte le donne che erano presenti, una grande folla, e tutto il popolo che dimorava nel paese d’Egitto e a Patros, risposero a Geremia: "Quanto all’ordine che ci hai comunicato in nome del Signore, noi non ti vogliamo dare ascolto; anzi decisamente eseguiremo tutto ciò che abbiamo promesso, cioè bruceremo incenso alla regina del cielo e le offriremo libagioni come abbiamo già fatto noi, i nostri padri, i nostri re e i nostri capi nelle città di Giuda e per le strade di Gerusalemme"» (44,15-17). Coerenti e sinceri fino alla fine nel loro rifiuto.

Ritrovare la lotta (vana) all’idolatria anche al termine del libro e della profezia di Geremia, deportato, stanco e vecchio, è qualcosa di una importanza estrema. Il giorno in cui Geremia ricevette la vocazione, YHWH gli aveva detto che i re, i sacerdoti e tutto il popolo «ti faranno guerra, ma non ti vinceranno» (1,19). Perché non hanno "vinto" i suoi nemici? In realtà, se ripercorriamo l’intero suo libro, ci accorgiamo che Geremia sapeva per vocazione che quel popolo era troppo guastato per convertirsi, e gli aveva sempre annunciato la fine. Dove sta allora la "vittoria" di Geremia? I profeti, innanzitutto, non vogliono vincere, vogliono solo rispondere alla loro vocazione, resistere fino alla fine nell’insuccesso e nella frustrazione, non spegnere la loro voce che continua a gridare nel deserto di ascolti. In questo senso Geremia "ha vinto".
I profeti sanno che non possono vincere le loro battaglie idolatriche. L’idolatria è invincibile, perché noi essere umani amiamo troppo costruire idoli. E fino alla fine il libro di Geremia ci spiega e rispiega la natura dell’idolatria, e quindi la sua ineluttabilità: «Da quando abbiamo cessato di bruciare incenso alla regina del cielo e di offrirle libagioni, abbiamo sofferto carestia di tutto e siamo stati sterminati dalla spada e dalla fame» (44,17-19).

La radice dell’idolatria è la nostra tendenza radicale a trasformare il rapporto con la divinità in uno scambio commerciale. Crediamo in un dio se e fino a quando ci conviene, se e fino quando quella particolare divinità soddisfa al meglio i nostri bisogni; e cambiamo dio non appena pensiamo che un nuovo "dio" serva meglio i nostri interessi. E quando si cambia un dio per un altro più conveniente si sta chiaramente dicendo che sia il dio vecchio che il nuovo erano, semplicemente, degli idoli, cioè esperienze di consumo per cercare il nostro tornaconto. I rapporto idolatrico è un mutuo consumo, un consumarsi a vicenda: l’idolo consuma il suo credente, e l’idolatra consuma l’idolo, fino al reciproco olocausto totale. 
L’idolatria torna puntuale tutte le volte che nell’esperienza religiosa o ideale prevale la dimensione del consumo di beni spirituali, la ricerca di emozioni forti, la soddisfazione dei propri interessi e del piacere. Gli uomini e le donne lo hanno sempre fatto, e continuano a farlo, dentro e fuori le religioni, dentro e fuori la chiesa, i movimenti, le comunità religiose. È naturale, è umano cercare anche con Dio un rapporto di convenienza. Ma non è l’esperienza di Dio che i profeti ci donano e difendono. Il rapporto con il Dio biblico conviene massimamente all’uomo, ma è una convenienza che va trovata su un piano diverso da quello economico, del consumo e del piacere – è questo il grande insegnamento di Giobbe, dei vangeli, dei profeti. Non è la convenienza del potere e della ricchezza. La convenienza del Dio biblico è l’impotenza di Giobbe, la sconfitta dei profeti, la "potenza" del Discorso della montagna, la "debolezza" di un Dio onnipotente che non riesce a convertire neanche il suo popolo. Tutte le volte, e sono tante, che misuriamo la convenienza della fede con il metro del nostro consumo e del nostro piacere siamo giàdentro un rapporto idolatrico, anche se al nostro idolo conveniente diamo il nome di Dio. Non bisogna mai dimenticare che alle pendici del Sinai il nome dato al vitello d’oro, il paradigma di ogni idolo, fu YHWH: «Allora dissero: "Ecco il tuo Dio, o Israele, colui che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto!". Ciò vedendo, Aronne costruì un altare davanti al vitello e proclamò: "Domani sarà festa in onore di YHWH"» (Esodo 32,4-5). Forse la principale ragione che rende le idolatria invincibile è proprio il nome: l’idolo di oggi ha spesso lo stesso nome del Dio di ieri, e lo celebriamo sotto lo stesso monte, sugli stessi altari, con le stesse preghiere.

La tenace lotta dei profeti contro l’idolatria, che la Bibbia ha custodito e custodisce, ci aiuta a prendere coscienza della nostra idolatria (noi invece siamo più bravi a vedere quella degli altri), e poi ci dona la speranza che un giorno potremo udire una voce diversa oltre i molti idoli che riempiono la nostra casa. La fede biblica, ogni fede, è autentica finché ci aiuta a prendere coscienza della nostra naturale e inevitabile condizione idolatrica, e quindi ci fa nascere nell’anima il desiderio di qualcosa di più vero. E perché ce lo ripete cento, mille volte nel corso della vita. Fino alla fine, quando, se non abbiamo smesso di frequentarla e ascoltarla, ci aiuterà a distinguere l’angelo buono della morte dall’ultimo idolo che ancora non conoscevamo. E sarà il nostro ultimo grazie alla Bibbia, ai profeti, alla vita. 
l.bruni@lumsa.it