martedì 17 ottobre 2017

Sfida al nichilismo




Le risposte del cristianesimo alle domande dell’uomo di oggi.

Dialogo con don Carrón. Esce oggi, 17 ottobre, in Italia Dov’è Dio? La fede cristiana al tempo della grande incertezza (Milano, Piemme edizioni, 2017, pagine 216, euro 15,90), il primo libro intervista di don Julián Carrón, presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione, scritto da Andrea Tornielli. Il volume, una conversazione con il vaticanista della Stampa, verrà presentato a Milano giovedì 19 alle 21 nell’aula magna dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Con gli autori intervengono Adolfo Ceretti e Mauro Magatti, moderati da Elisabetta Soglio. Del testo anticipiamo alcuni estratti.
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(Andrea Tornielli) Si può ancora incontrare Dio nel tempo in cui viviamo, nella “società liquida” in cui siamo immersi? La secolarizzazione e la scristianizzazione, caratteristiche di un Occidente un tempo cristiano, sono un segno della fine dei tempi o soltanto della fine di un tempo e dell’inizio di un altro? La società plurale e relativista è il nemico da combattere innalzando barriere e muri, oppure può diventare l’occasione per annunciare il Vangelo in modo nuovo? Don Julián Carrón è da dodici anni alla guida del movimento di Comunione e Liberazione. Ha avuto il compito non facile di raccogliere il testimone da don Luigi Giussani, il quale, pur non avendo inteso «fondare niente» perché voleva soltanto riproporre gli elementi essenziali del cristianesimo e dell’appartenenza alla Chiesa, ha dato vita a un movimento che come tutte le realtà nuove ha fatto e fa discutere. Mi sembrava interessante dialogare con lui, sacerdote spagnolo nato tra i ciliegi dell’Estremadura, sul momento storico che stiamo vivendo. 
Don Julián, perché è così difficile credere oggi? 
Per una distanza da noi stessi. A chi interessa Gesù? A chi ne ha bisogno. E chi ne ha bisogno? Chi è cosciente delle proprie ferite, delle proprie malattie, del proprio male, della propria insoddisfazione, del proprio peccato. Ne ha bisogno chi si sente mancante di qualcosa e avverte il dramma della propria incompiutezza, chi è messo alla prova dalla vita o ha sperimentato che anche il raggiungimento degli obiettivi più grandi che si era prefisso non è servito a dargli il compimento sperato. Queste sono le persone che hanno intercettato la portata di Gesù per la loro vita e lo hanno seguito. Accorgersi della propria incompiutezza rende possibile aprirsi a qualcosa d’altro: «Che cos’è quello che cerco?». Occorre andare fino in fondo a se stessi. Ma che cosa può ridestare la nostra sete quando è affievolita o in tanti modi travisata, ridotta? Essere guardati gratuitamente, senza condizioni, senza misura, vale a dire incontrare qualcuno che ha lo stesso sguardo di Gesù. Tutte le persone che attraversano difficoltà, fatiche, contraddizioni — borderline, irregolari — e che vivono drammi di ogni tipo hanno bisogno di essere guardate come Gesù guardava, accoglieva e amava la gente. Ma, attenzione, la loro risposta accade secondo un disegno che non è il nostro: non è l’esito di un meccanismo, come quando mettiamo l’euro nel distributore di bevande e cade la lattina di aranciata. La possibilità di un loro “sì” non dipende da noi, ma dal disegno di Dio e dalla loro libertà. Noi, come cristiani, abbiamo un compito: testimoniare che alle ferite e alle esigenze degli uomini, in qualunque condizione versino, c’è risposta.
Qual è il rapporto tra misericordia e giustizia? Ogni volta che si parla della misericordia c’è qualcuno che dice: «Eh sì, misericordia, misericordia. Però la giustizia…».
L’esigenza di giustizia non può essere soddisfatta da risposte parziali, essa reclama la totalità. Perciò senza la prospettiva di un “oltre” non ci può essere vera giustizia. Mi hanno colpito le parole finali di un’intervista al filosofo Paolo Rossi, di qualche anno fa, pubblicata sul «Corriere della Sera»: «Non me ne importa niente della prova dell’esistenza di Dio. Però […] ho questo sasso sullo stomaco: non accetto volentieri l’idea che il carnefice e la vittima scompaiano insieme nel nulla». Se insomma il carnefice e la vittima finiscono entrambi nel nulla, se tutto finisce con questa vita, non c’è giustizia. L’esigenza di giustizia, come tutte le esigenze umane fondamentali, è senza limiti, porta in sé un’urgenza di totalità. È proprio questo ciò che noi non riusciamo a soddisfare, anche se realizziamo tutti i nostri tentativi. Nessuna delle nostre immagini di giustizia riesce a compiere fino in fondo l’esigenza di giustizia. Ci troviamo davanti a qualcosa che ci sovrasta in tutti i modi e che colpisce tutti: tanto le vittime (e chi è vicino a esse), perché nessuno potrà mai soddisfare la loro sete di giustizia, quanto gli autori degli abusi, perché niente sarà mai sufficiente a colmare la voragine prodotta in loro dal male compiuto.
Che cosa può allora soddisfare questa sete di giustizia?
Solo Dio fatto uomo, Cristo — quell’“oltre” che è entrato nella storia —, con la sua misericordia, croce e resurrezione, può soddisfare la sete di giustizia, può portare una risposta all’esigenza degli uni e degli altri. Ecco qui emergere il nesso tra misericordia e giustizia: senza Cristo il problema è insolubile. Così come niente è davvero in grado di saziare la sete di felicità della samaritana, allo stesso modo niente può veramente soddisfare la sete di giustizia che ci troviamo addosso. Si manifesta qui tutto il mistero dell’uomo. Senza quell’“oltre” che si rende presente nella storia attraverso Cristo, che fa sì che proprio per il legame con il Padre si rompa la spirale della violenza, non si può cominciare a sperare in un mondo diverso. Senza l’abbraccio di Cristo non c’è vera risposta, né per le vittime, né per i carnefici.
Papa Ratzinger, in un colloquio sul suo viaggio a Cuba con il cardinale Ortega y Alamino, ha detto che «la Chiesa non è nel mondo per cambiare i governi» e che la via del dialogo è l’unica via possibile. Che cosa significa questo, secondo lei, e quali chiavi di lettura offre tale sguardo per la vita di un movimento come CL?
Cristo non è venuto a portare nel mondo uno dei possibili schieramenti, una delle possibili opzioni politiche. Egli ha messo sul tavolo della storia la più grande promessa che l’umanità abbia mai ricevuto: chi lo segue vivrà il centuplo quaggiù, un’intensità cento volte maggiore in ogni aspetto del vivere, e poi sperimenterà la vita eterna. Cristo ha la pretesa di essere la risposta al desiderio sconfinato di felicità di ogni singola persona. Ma questo è anche l’unico annuncio interessante per l’uomo reale. La sfida di oggi non è appena cambiare un governo. La vera sfida è il nichilismo che attanaglia giovani e meno giovani, cioè il credere che in fondo non ci sia una risposta adeguata al proprio desiderio. Nel tran tran quotidiano uno pensa di potersela cavare. Ma quando la vita urge si accorge del senso di distruzione che lo abita, di tutta la mancanza di speranza. Può forse rispondervi un cambiamento di strutture o di governi? È qui che uno può cogliere la portata del cristianesimo e il contributo che un cristiano, nella misura in cui vive ciò che ha ricevuto, gli può offrire. Mi diceva di recente un giornalista non credente: «Voi non vi rendete conto di cosa portate!».
Come ha accolto, nel marzo 2013, l’elezione del cardinale Jorge Mario Bergoglio quale successore di Benedetto XVI?
Con grande sorpresa. Sapevo che da cardinale aveva mostrato interesse per la figura di don Giussani e aveva sempre accettato gli inviti di alcuni del movimento in Argentina a presentare i libri del nostro fondatore. Poi mi erano noti i suoi rapporti di amicizia con persone della comunità di Roma. Da quando ho cominciato a vederlo in azione, mi è diventato evidente — al di là di quello che poteva apparire a prima vista, e cioè che egli costituisse una rottura rispetto a Benedetto XVI, tanto sono diversi per temperamento e storia — che tutto il magistero di Francesco rappresenta una radicalizzazione di quello di Benedetto XVI. Francesco ha portato a compimento una serie di intuizioni di Papa Ratzinger e grazie alla sua modalità di porsi le ha rese accessibili a tutti. In Papa Francesco c’è il desiderio di rispondere alla nuova situazione che si è venuta a creare e che egli chiama «cambiamento d’epoca». Le persone semplici comprendono benissimo il suo messaggio: la modalità della sua presenza, i suoi gesti e le sue parole intercettano infatti immediatamente i bisogni e le ferite dell’uomo contemporaneo. Questa capacità di sintonizzarsi con l’uomo, di dialogare con il cuore dell’uomo ferito, caratterizza anche l’anima di Benedetto. Ma, per la sua indole pastorale, per il suo temperamento, per la sua personalità di fede, Papa Bergoglio riesce a testimoniare il volto della misericordia con una semplicità, con un’immediatezza, con un abbraccio all’altro che raggiunge di schianto le persone più diverse e più semplici allo stesso tempo. Papa Francesco rappresenta una grazia per la Chiesa nel mondo di oggi. L’unica questione è se noi accettiamo la provocazione della sua testimonianza, per imparare, dal suo modo di porsi, a essere testimoni come lui. È evidente che un uomo non può fare tutto o andare ovunque: allora egli compie un gesto come quello di recarsi a Lampedusa o a Lesbos, indicandoci attraverso esso che occorre uscire, che occorre abbracciare l’altro, testimoniando la fede con gli stessi gesti di Gesù. Ma perché tutto ciò diventi nostro, patrimonio di tutti, bisogna che la Chiesa, cioè tutti noi, assecondiamo la testimonianza del Papa, imitandola e traendone le conseguenze nella nostra vita. Perciò mi permetto di dire: lasciamoci colpire e provocare da lui!
L'Osservatore Romano