venerdì 13 ottobre 2017

Un’occasione provvidenziale



Ad Assisi. «Il dialogo interreligioso: una sfida, o un’occasione da cogliere?»: questo il tema della prolusione che il cardinale presidente del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso ha tenuto lunedì 9 in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico dell’Istituto teologico di Assisi.
(Jean-Louis Tauran) Contrariamente a quanto si dice spesso, il dialogo interreligioso non favorisce il relativismo, ma lo combatte, dato che la prima cosa che si fa non è altro che proclamare la propria fede. Devo confessare che per me Gesù Cristo è il Signore. Devo dire come ha cambiato la mia vita. E il mio partner nel dialogo dovrà fare lo stesso. Non si può imbastire un dialogo sull’ambiguità.
Dialoghiamo perché Dio stesso è dialogo e non ha mai abbandonato l’umanità. «Dio che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi ha parlato ai Padri» (Ebrei 1, 1). Cristo è l’unico Salvatore, e ogni uomo è stato redento da lui, anche se non ne è consapevole. Ma «lo Spirito soffia dove vuole» (Giovanni, 3, 8) ed è all’opera in ogni persona umana. Quindi siamo invitati a scoprire la presenza di Dio in ogni cultura, in ogni persona, in ogni uomo. Sono i famosi semina verbi. 
Secondo la nostra fede, Dio è presente in ogni uomo sin dall’inizio della sua esistenza, quindi molto prima di appartenere a una religione. Questo Dio è il Dio-Trinità, che invita ognuno di noi a condividere la sua vita. Siamo quindi invitati a entrare nel dialogo fondamentale iniziato da Dio stesso.
La parola “dialogo”, in latino colloquium, appare per la prima volta in un documento del magistero nell’enciclica Ecclesiam suam di Paolo VI. In realtà, il Papa parla del colloquium salutis, cioè il dialogo della salvezza di cui Dio prende l’iniziativa, e suggerisce così che se la Chiesa dialoga con l’umanità, lo fa perché confessa che Dio si è rivelato lui stesso al mondo tramite un processo di dialogo. Quindi, per Paolo VI, la dimensione dialogale della rivelazione fonda il carattere dialogale della missione. Da rilevare che l’enciclica parla del colloquium salutis per «tutta l’umanità», e non soltanto con le religioni dell’umanità. È perché confessiamo che Dio ha scelto, per rivelarsi, la via del dialogo con l’umanità, che la missione della Chiesa consiste appunto nel prendere l’iniziativa del dialogo con l’umanità.
Per noi cristiani il centro di gravità della dimensione religiosa non è da ricercare in un libro sacro, in riti o minuziosi precetti, ma si trova nella persona umana, così come la pienezza della rivelazione non è il libro delle Scritture, ma la persona di Cristo Figlio di Dio «mediatore e pienezza della rivelazione» (Dei Verbum, 2). Ciò comporta delle conseguenze sul modo di concepire il dialogo interreligioso. Per esempio, se noi c’interessiamo al Corano, non è per il Corano stesso, ma a causa del rispetto che i musulmani hanno verso questo libro, dove trovano le risposte alle loro domande.
Se ci riferiamo all'insegnamento di Giovanni Paolo II, a partire dall’anno 1986, dopo la prima riunione di Assisi del 27 ottobre, abbiamo una chiara visione dei fondamenti teologici dell’impegno della Chiesa nel dialogo interreligioso. Mi riferisco soprattutto al discorso del 22 dicembre 1986 alla Curia romana. Il Papa sviluppa la sua riflessione in tre punti. L’unità della famiglia umana: tutti gli uomini sono stati creati a immagine e somiglianza di Dio, e quindi ogni uomo è un fratello, ogni donna, una sorella, per cui Cristo è morto (1 Corinzi 8, 11). Quindi c’è un unico disegno divino per ogni essere umano, un principio e una fine unici, quali che siano il colore della pelle, l’orizzonte geografico e storico, la cultura in cui sono vissuti.
Dopo aver evocato l’unità della famiglia umana, Giovanni Paolo II sottolinea le differenze: alcune, dovute alla storia, devono essere superate; altre sono un’occasione per conoscere bene le tradizioni nazionali e religiose degli altri, ed essere pronti a rispettare quei semi del Verbo che vi si trovano nascosti. Detto ciò, il concilio parla anche nel decreto Ad gentes dei non cristiani che possono apprendere da noi quali ricchezze Dio, nella sua munificenza, ha dato ai popoli e insieme, alla luce del Vangelo, di liberarle e di ricondurle sotto l’autorità di Dio Salvatore. 
Così si capisce meglio quale sia la vocazione della Chiesa in seno all’umanità. La Chiesa ha la missione di testimoniare che tutte le differenze sono ordinate all’unico popolo di Dio. Essa diventa sacramento «ossia segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» (Lumen gentium 1). 
Il dialogo interreligioso diventa un’occasione di apprendimento e di testimonianza della propria fede. Ecco perché mi sembra che i credenti sono oggi di fronte a tre sfide, come ha ricordato Papa Francesco ai musulmani ad Al-Azhar, al Cairo il 28 aprile 2017. La sfida dell’identità: chi è il mio Dio? La mia vita è coerente con le mie convinzioni religiose? La sfida dell’alterità: chi pratica una religione diversa dalla mia non è necessariamente un nemico, ma un pellegrino verso la verità. 3) La sfida della sincerità: Dio è all’opera in ogni persona, e quindi, attraverso vie che lui solo conosce, può condurre gli uomini che senza loro colpa ignorano il vangelo, a quella fede «senza la quale è impossibile piacergli» (Ebrei 11, 6). Vedete: non si tratta di mettere tra parentesi la nostra fede, di tacere di fronte alle discriminazioni, alle persecuzioni, di cui nel mondo cadono vittime tanti nostri fratelli nella fede.
La Rivoluzione francese del 1789 ha cercato di organizzare una società senza Dio. Le grandi ideologie del secolo scorso, il marxismo e il nazismo, avevano lo scopo di organizzare la società contro Dio e, negli anni settanta, quando le religioni erano ancora una realtà maggioritaria, si cercò di privatizzarle. Si poteva essere credenti, ma non si doveva vedere. Il grande paradosso è, che se Dio ha fatto ritorno sul palcoscenico delle società occidentali (in verità non era mai uscito di scena), è grazie ai musulmani. Sono i musulmani che hanno chiesto spazio per edificare le loro moschee, rispetto per i loro riti, spazio per Dio nella società. 
Purtroppo il fondamentalismo e il terrorismo sono stati o sono ancora identificati erroneamente con la religione islamica. Non si tratta, ovviamente, del vero islam, praticato dalla stragrande maggioranza dei seguaci di questa religione. Le religioni sono capaci del peggio o del meglio, possono mettersi al servizio di un progetto di santità o di alienazione, possono predicare la pace o la guerra. Quindi pongo la domanda: il dialogo interreligioso è un rischio o un’opportunità?
Sicuramente, col dialogo mi assumo un rischio: non rinuncio alla mia fede, ma accetto di farmi interpellare dalle convinzioni altrui, di prendere in considerazione argomenti diversi dai miei. Ogni religione ha la sua identità, ma accetto di considerare che Dio è anche all’opera in tutti, nell’anima di chi lo cerca con sincerità. Non si tratta di voler creare a tavolino una religione universale, o di cercare il “minimo comune denominatore religioso”. La prima condizione perché il dialogo interreligioso sia fecondo è la chiarezza. Ogni credente dev’essere consapevole della propria identità spirituale. Quindi, secondo me, quando si fa questo, il rischio del relativismo non esiste. Invece, il dialogo interreligioso è un’opportunità provvidenziale per approfondire la propria fede con una catechesi appropriata, nonché per conoscere le religioni degli altri.
Il dialogo, dunque, non nasce da tattica o tattica, ma è richiesto dal profondo rispetto per tutto ciò che nell’uomo ha operato lo Spirito, che soffia dove vuole. Il dialogo interreligioso mobilita dunque tutti coloro che sono in cammino verso Dio o verso l’Assoluto. Noi crediamo che la ricerca a tentoni di Dio risponde ai disegni della Provvidenza e, per eliminare ogni sospetto di relativismo, non diciamo che tutte le religioni insegnano la stessa cosa, ma che tutti i credenti e cercatori di Dio hanno la stessa dignità. Pensando, in particolare, alle difficoltà che incontra il dialogo coi musulmani, molto spesso, i problemi sono dovuti all’ignoranza da entrambe le parti, e l’ignoranza genera la paura. Per vivere insieme, si deve guardare chi è diverso da noi con benevola curiosità, stima e desiderio di camminare insieme. La massiccia presenza dei musulmani nelle nostre società può essere provvidenziale perché ci spinge a essere più trasparenti, a non aver paura di mostrarci cristiani e di testimoniare la nostra fede.
L'Osservatore Romano