venerdì 20 ottobre 2017

XXIX Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) — 22 ottobre 2017. Ambientale, commento al Vangelo e Lectio divina




Nel Vangelo della XXIX Domenica del Tempo ordinario, i farisei chiedono a Gesù se sia lecito o no pagare il tributo a Cesare
Dal Vangelo secondo Matteo (Mt 22,15-21)
In quel tempo, i farisei se ne andarono e tennero consiglio per vedere come cogliere in fallo Gesù nei suoi discorsi. Mandarono dunque da lui i propri discepoli, con gli erodiani, a dirgli: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno. Dunque, di’ a noi il tuo parere: è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?». Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: «Ipocriti, perché volete mettermi alla prova? Mostratemi la moneta del tributo». Ed essi gli presentarono un denaro. Egli domandò loro: «Questa immagine e l’iscrizione, di chi sono?». Gli risposero: «Di Cesare».  Allora disse loro: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio»
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Talvolta il nemico c’insidia adulandoci, con l’intento di metterci alla prova per danneggiarci. La stessa dinamica è visibile nel Vangelo odierno dove Gesù stesso viene tentato. Il Signore, però, approfitta di questa sfida per ammaestraci, insegnando, anzitutto, che la vita delle persone deve crescere e svilupparsi negli ambiti sia civili che religiosi. Il Maestro dichiara altresì la liceità del pagamento e della riscossione dei tributi nel contesto della società civile, cogliendo l’occasione per sottolineare come la dignità dell’uomo sia da ritenersi inestimabile perché creato ad immagine di Dio e destinato alla comunione eterna con Lui: “Rendete a Cesare ciò che porta l’immagine di Cesare e a Dio ciò che porta l’immagine di Dio”. Il Padre si è rivelato pienamente in Cristo nello Spirito Santo come comunione di persone divine che hanno fra loro relazioni d’Amore. Così anche la famiglia umana porta nel suo DNA l’immagine del Dio Creatore, essendo le sue relazioni riflesso di tale Amore e della dignità incommensurabile di ogni membro. Una “famiglia imago Dei” mostra in tutta la sua bellezza la differenza uomo-donna come il luogo fecondo e necessario per la manifestazione di quell’Amore salvifico che dà stabilità e pienezza non solo ai suoi componenti, ma a tutta la società civile. (Sanfilippo)
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Di chi siete “icona”?

Su quali “certezze” fondiamo la nostra vita? San Paolo ricorda ai Tessalonicesi e a ciascuno di noi di essere stati “eletti da Dio”, grazie al Vangelo che si è “diffuso”, letteralmente si potrebbe tradurre anche “ci ha generato”, attraverso la “parola, la potenza dello Spirito Santo e con profonda convinzione”.
Quest’ultimo termine è fondamentale: esso deriva dalla radice greca che indica “pienezza”. Da essa nascono termini affini che possono significare anche “riempire un recipiente”, “compiere un dovere”, “completare o restituire un tributo o un salario”.
La “profonda convinzione”, dunque, è legata a un’esperienza: l’annuncio ricevuto con la predicazione si è rivelato autentico per la potenza dello Spirito Santo, che ha dato compimento e pienezza al Vangelo. Fatti reali, miracoli concreti nella propria vita “riempita” da Cristo, è questa la certezza dei cristiani.
Come gli altri pagani entrati nelle diverse comunità, anche i Tessalonicesi avevano l’esperienza della morte a causa dei loro peccati, “nei quali hanno vissuto alla maniera di questo mondo”; ma anche che “Dio, ricco di misericordia, per grazia, li ha fatti resuscitare e sedere nei cieli in Cristo Gesù”.
Il fondamento della loro fede era proprio la vita nuova che conducevano: non tradivano più la moglie, non abortivano e non abbandonavano i propri figli; non erano più schiavi delle concupiscenze, non servivano mammona, amavano i nemici. Era una vita celeste, propria di chi è stato “restituito” al Padre che è nei Cieli.
E così era stato: sepolti con Cristo nel battesimo, vi avevano lasciato l’immagine dell’uomo di terra, quella del primo Adamo caduto nel peccato; e riemersi dalle acque era rinati con Lui, il secondo Adamo, rivestiti dell’immagine dell’uomo celeste.
E tu, ed io? Guardiamoci allo specchio, e vediamo quale sia la nostra immagine. E’ la parte nascosta della risposta di Gesù ai “discepoli dei farisei e agli erodiani”: “mostratemi la moneta del tributo”.  E a noi dice: “mostratemi la vostra vita: di chi è l’immagine e l’iscrizione?”. Di chi siete “icona”, e che cosa annuncia la vostra condotta?
Sulla moneta del “tributo”, l’imposta “per testa” imposta da Roma, vi era l’immagine dell’imperatore Tiberio e l’iscrizione “Tiberio Cesare, augusto figlio del divino Augusto, pontefice massimo”.  E in noi, quale volto risplende? E di chi siamo figli?
Per rispondere occorre risalire all’origine del brano evangelico. E, nascosta, vi troviamo la grande questione posta dal figlio di Giuseppe il carpentiere: chi sono io per la gente? E per te? Per i farisei era un eretico, un impostore, addirittura un demonio. Ed era una certezza granitica, ma non era la “profonda convinzione” dei Tessalonicesi…
Per questo non potevano tollerare che Gesù si spacciasse per Figlio di Dio. Non poteva essere Lui il Messia. Si erano, infatti, già messi d’accordo tra loro e con gli erodiani, un gruppo legato a Erode e che, probabilmente, riconosceva in lui il Messia. Due fazioni opposte riunite dal rifiuto di Gesù e dall’obiettivo di toglierlo di mezzo.
Per questo inviano i loro “apostoli”: altri se stessi incaricati di mettere in trappola Gesù.  Sì, anche la “malizia” ha i suoi missionari; ma sono “ipocriti”, attori che recitano una parte che non corrisponde alla loro realtà. Allungano le frange, pregano ostentatamente, espongono l’immagine di Dio ma dentro sono pieni di rapina e malizia.
E Gesù si trova ad affrontare queste monete false. Ha davanti l’ipocrisia che tutti ci avvolge, come quando preghiamo o andiamo a messa e ci rivolgiamo a Lui, mentre il nostro cuore è lontanissimo, parcheggiato fuori della Chiesa, schiavo del mondo e della sua mentalità.
Ma l’ipocrisia si fa evidente nel modo in cui essi iniziano a rivolgersi al Signore: “sappiamo che insegni la via di Dio senza nascondere la verità, e non guardi in faccia a nessuno perché non guardi le apparenze”. Ed è vero, e lo sperimenteranno nella sua risposta. Ma nelle loro parole vi è un doppio senso terribile: tu non ti curi di nessun uomo.
E’ qui che nasce l’ipocrisia, da questa immagine falsa di Gesù che essi avevano. Non potevano specchiarsi nel suo volto come figli nel Figlio; non potevano aprirsi umilmente al suo amore, perché pensavano male di Lui. Come noi, che non vogliamo essere come Gesù, che la sua immagine sia impressa in noi. Ne siamo scandalizzati, perché oppressi dalla superbia.
Dubitiamo di Lui, come Adamo ed Eva furono indotti dal demonio a dubitare di Dio. Dietro la libertà di Gesù, dietro la sua parresia, non si nasconde forse l’indifferenza cinica verso i miei problemi? La Chiesa mi dice che dietro a questa storia difficile, di sofferenze e solitudine, a questo matrimonio che fa acqua, c’è la mano di Dio che resta spesso invisibile e misteriosa. Ma non sarà invece che Dio si disinteressa di me, mi lascia soffrire, perché non ha davvero a cuore le mie cose?
Risuona la stessa insinuazione del serpente: “tu che pensi, che opinione hai?” Non c’entra la fede, c’entrano i pensieri umani: pensa con la tua testa, non vedi che il frutto che Dio ti proibisce è bello, buono e può esaudire il tuo desiderio di essere come Lui? Si, non solo immagine e somiglianza di Dio, puoi diventare tu stesso dio… Come Augusto, come Tiberio, come Erode…
Per questo chiedono a Gesù se “è lecito pagare il tributo”, che in greco può anche significare “c’è il potere, l’autorità?”. Ah, allora la questione è davvero seria! E’ in gioco l’identità e l’autorità di Gesù, che è la stessa di Dio. E’ in gioco lo Shemà, il cuore della fede di Israele. E’ come se chiedessero a Gesù: chi ha autorità assoluta sulla nostra vita? Chi amare con tutto il cuore, la mente e le forze? Ma non per essere illuminati davvero, solo per trovare un pretesto contro di Lui. Avevano già scelto il loro Re, e non era Dio.
La stessa domanda risuona oggi nelle nostre chiese per provare l’intenzione dei nostri cuori e la certezza della nostra fede: chi conduce la nostra storia? Chi può dirci che cosa “è lecito” e cosa non lo è? Perché per comprendere quale immagine portiamo, occorre sapere a chi apparteniamo: a Dio che ci ha scelti da sempre, o a Cesare, cioè al demonio, che invece scegliamo noi?
Scriveva Sant’Ilario che chi sceglie l’immagine di Cesare sarà poi obbligato a versargli i tributi, mentre chi sceglie l’immagine di Dio è libero, non deve nulla al mondo. Il demonio, infatti, esige da noi la tassa su ogni pensiero, parola, gesto. I peccati, con cui lo dobbiamo servire. Non sono essi l’immagine che riflettiamo in famiglia, al lavoro, ovunque?
Ma Dio è geloso di noi. E viene ancora con la sua Chiesa a cercarci per strapparci di dosso l’immagine ipocrita che non si addice ai figli di Dio. Davvero vuoi la certezza dei Tessalonicesi? Davvero vuoi accogliere Dio come l’unico tuo Signore, e lasciarlo condurre la tua storia come ha fatto con Israele? Vedrai “Ciro”, immagine degli eventi impensabili e incomprensibili, chiamato da Dio perché tutto concorra al tuo bene. Sperimentare questo è la pienezza della fede, l’unica che ci fa “restituire a Dio quello che suo”, cioè tutto noi stessi.
Allora lasciati ammaestrare dalla Chiesa, porgi l’orecchio alla predicazione, accostati alla confessione e lascia a Cristo i tuoi peccati; mangia il suo Corpo e bevi il suo Sangue per risorgere con Lui ed essere trasformato nella sua stessa immagine, figlio nel Figlio, luce per il mondo.

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Lectio divina sulle letture della XXIX Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) — 22 ottobre 2017

di Francesco Follo *

1) Le tasse allo Stato, l’uomo a Dio. 
Il contesto del Vangelo di questa 29° Domenica è il dibattito di Gesù con i farisei e gli erodiani, che gli tendono una trappola, facendogli una domanda sul tributo da pagare ai romani. Sotto l’apparenza di fedeltà alla legge di Dio o a quella dell’Imperatore romano, costoro cercano motivi per accusarlo. Se alla  loro domanda: “E’ lecito o no pagare il tributo a Cesare?”, Gesù rispondesse dicesse: “Dovete  pagare”, potrebbero accusarlo, insieme al popolo, di essere amico dei romani.  Se il Messia desse come risposta: “Non dovete pagare”, potrebbero accusarlo, presso con le autorità romane, di essere un rivoluzionario. Insomma, lo vogliono mettere in una situazione che i farisei pensano che sia senza uscita. Invece, Cristo trova una via di uscita rispondendo alla questione del tributo a Cesare con un sorprendente realismo politico. La tassa va pagata all’imperatore perché  l’immagine sulla moneta è la sua. Ma, l’uomo, ogni essere umano, porta in sé l’immagine di Dio e, quindi, è a Lui, e a Lui solo, che ognuno deve “pagare” il tributo perché gli è debitore della propria esistenza.
Nella sua risposta : “Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”,  Cristo non resta al solo piano politico ma afferma chiaramente che ciò che più conta è il Regno di Dio. Le parole di Cristo illuminano la linea di condotta del cristiano nel mondo. La fede non gli chiede di emarginarsi dalle realtà temporali, anzi diviene per lui uno stimolo maggiore perché si impegni con laboriosa generosità nel trasformarle dall’interno, contribuendo così all’instaurazione del Regno dei cieli.
Dunque, se la prima riflessione che nasce dalla lettura del Vangelo di oggi è che il Messia non contrappone lo Stato a Dio e dice di contribuire al bene comune anche pagando le tasse, perché il convivere richiede solidarietà, la seconda riflessione che mi viene alla mente è che la frase “Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”  non solo non contrappone Cesare a Dio (o l’uomo o Dio), ma neppure lo giustappone Cesare a Dio (e l’uomo e Dio), ma è come se dicesse “Date all’uomo quello che è dell’uomo, così che possa sentire e vivere la gioia di dare a Dio quel che è di Dio”.
Riferendosi all’immagine di Cesare impressa sulla moneta, di cui i farisei egli erodiani parlano, Gesù ricorda a loro come a noi che siamo creati a immagine e somiglianza di Dio, che se a Cesare spettano i loro tributi, a Dio appartiene la loro vita. Gesù parte dal dovere di restituire il denaro a Cesare, la cui immagine è impressa sul metallo per arrivare all’obbligo di restituire l’uomo a Dio, la cui immagine è “impressa” nella natura umana. E’ giusto rendere  a Cesare il denaro con la sua immagine, è giusto e doveroso rendere a Dio l’uomo, fatto a Sua immagine.
Proponendo queste riflessioni mi metto nel solco dei Padri della Chiesa, uno dei quali scrisse: “L’immagine di Dio non è impressa sull’oro, ma sul genere umano. La moneta di Cesare è oro, quella di Dio è l’umanità … Pertanto da’ la tua ricchezza materiale a Cesare, ma serba per Dio l’innocenza unica della tua coscienza, dove Dio è contemplato … Cesare, infatti, ha richiesto la sua immagine su ogni moneta, ma Dio ha scelto l’uomo, che egli ha creato, per riflettere la sua gloria” (Anonimo, Opera incompleta su Matteo, Omelia 42). E Sant’Agostino ha utilizzato più volte questo riferimento nelle sue omelie: “Se Cesare reclama la propria immagine impressa sulla moneta – afferma -, non esigerà Dio dall’uomo l’immagine divina scolpita in lui?” (Ennarrationes in Psalmos, Salmo 94, 2). E ancora: “Come si ridà a Cesare la moneta, così si ridà a Dio l’anima illuminata e impressa dalla luce del suo volto … Cristo infatti abita nell’uomo interiore” (Ibid., Salmo 4, 8). Perché l’uomo non solo non è riducibile alla materialità ma, anzi, proprio quella spirituale costituisce la dimensione prevalente di ogni esistenza.
2) Restituire l’uomo a Dio.
Comandando di versare il tributo a Cesare, Gesù Cristo riconosce il potere civile e i suoi diritti, ma in modo altrettanto chiaro ricorda che si devono rispettare i superiori diritti di Dio (cfr Dignitatis humanae, 8). Dicendo: “Rendete a Dio quel che è di Dio”, il Messia insegna chiaramente che ciò che più conta è il Regno di Dio.
Quindi, se da una parte, alla luce del Vangelo, che racconta di questa diatriba sul tributo da dare a Cesare (cfr. Mc 12,13-17; Mt 22, 15-22; Lc 20, 20-26),  i cristiani riconoscono e rispettano la distinzione e l’autonomia dello Stato, considerandola un grande progresso dell’umanità e  una condizione fondamentale per la stessa libertà della Chiesa e l’adempimento della sua universale missione di salvezza tra tutti i popoli. Dall’altre parte, i credenti in Cristo prendono sul serio il comando di restituire a Dio quello che è di Dio, cioè tutto perché “perché del Signore è la terra e tutto ciò che essa contiene” (1 Cor10, 26). Restituiamo a Dio i nostri cari, il nostro prossimo, tutti gli uomini onorandoli, cioè prendendoci cura di loro come di un tesoro prezioso. Ogni donna e ogni uomo sono talenti d’oro offerti a noi per il nostro bene, sono nel mondo le vere monete d’oro che portano incisa l’immagine e l’iscrizione di Dio.
Un modo peculiare di restituire tutto a Dio è quello delle vergini consacrate che grazie alla consacrazione sono “spazio umano abitato dalla Trinità” (VC 41) e testimoniano come il dono totale di se stesse a questo Amore le spinge “a prendersi cura dell’immagine divina deformata nei volti dei fratelli e sorelle” (VC 75d) e rivelano così il Mistero di un Dio che si mette a servizio dell’uomo.
La vita di queste donne si fonda su almeno tre pilastri.
Il primo è la “Consacrazione” stessa, che è determinata dall’iniziativa dell’amore gratuito di Dio che chiama e dalla fede in Lui come risposta a questa chiamata. La Consacrazione è vita incentrata in Dio, in abbandono totale e amorsa fiducia, vita di gratuità e di gratitudine, di particolare manifestazione del Mistero di Dio in una semplice ed umile persona.
Il secondo pilastro è l’amore verso i fratelli e sorelle di tutto il mondo. La donna consacrata è chiamata a condividere l’Amore, perché il dono ricevuto è dono da donare, da con-dividere, in riconoscenza e amore a Dio, che per primo l’ha amata. Il dono del Signore fatto a lei non esclude gli altri, ma attraverso di lei è destinato a circolare anzitutto tra tutti coloro con i quali vive e lavora, per poi arrivare al mondo intero.
Il terzo pilastro, o meglio, la meta della Vita Consacrata è una missione da compiere in favore degli uomini che abitano in questo mondo che è di Dio: “Andate in tutto il mondo” (Mc 16, 15). La missione del cristiano di andare, racchiusa nel cuore del Vangelo e risuonata solennemente nel giorno di Pentecoste, ha un suo segreto custodito anch’esso come perla preziosa nel Vangelo: Rimanete nel mio amore. Andare e rimanere: sono le due coordinate evangeliche in cui si muove la vergine consacrata, e da cui trae quotidianamente la sua linfa vitale. Questo “andare in tutto il mondo” è la continuazione del dono di sé agli altri vissuto nell’interno della Chiese e che, dall’interno della comunità, si estende a tutti gli altri esseri umani. In questo gesto di donazione gli altri sono percepiti anch’essi come dono di Dio per noi, con cui con-vivere e con-dividere i doni, che abbiamo ricevuto dal Signore. In questo cammino nel mondo, l’impegno fondamentale è la lode di Dio, la testimonianza di Gesù a livello personale e comunitario e l’annuncio esplicito del suo Nome alle nazioni, vivendo una vera dimensione missionaria e restituendo il mondo a Dio. 
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Letture patristiche
San Clemente di Roma
Ad Corinth. 60, 4 – 61, 3
Preghiera per i governanti
Dona concordia e pace a noi e a tutti gli abitanti della terra come la desti ai padri nostri quando ti invocavano santamente nella fede e nella verità (1Tm 2,7). Rendici sottomessi al tuo nome onnipotente e pieno di virtù e a quelli che ci comandano e ci guidano sulla terra.

Tu, Signore, desti loro il potere della regalità per la tua magnifica e ineffabile forza perché noi conoscendo la gloria e l’onore loro dati ubbidissimo ad essi senza opporci alla tua volontà. Dona ad essi, Signore, sanità, pace, concordia e costanza per esercitare al sicuro la sovranità data da te.

Tu, Signore, re celeste dei secoli concedi ai figli degli uomini gloria, onore e potere sulle cose della terra. Signore, porta a buon fine il loro volere secondo ciò che è buono e gradito alla tua presenza per esercitare con pietà nella pace e nella dolcezza il potere che tu hai loro dato e ti trovino misericordioso.
Te, il solo capace di compiere questi beni ed altri più grandi per noi ringraziamo per mezzo del gran Sacerdote e protettore delle anime nostre Gesù Cristo per il quale ora a te sia la gloria e la magnificenza e di generazione in generazione e nei secoli dei secoli. Amen.
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Teofilo di Antiochia
Ad Auct. 1, 11 
Onorerò l’imperatore: non lo adorerò, ma per lui pregherò. Solo il Dio reale, il Dio vero adorerò, sapendo che da lui l’imperatore è stato fatto. Certo mi chiederai: perché non adori l’imperatore? Perché non è stato fatto per essere adorato, ma per essere onorato con l’ossequio delle leggi: non è infatti un Dio, ma un uomo costituito da Dio non ad essere adorato, ma a fungere da giusto giudice. In un certo senso gli è stata affidata da Dio l’amministrazione; ed egli stesso non vuole che chi a lui è subordinato si chiami imperatore: imperatore è il nome suo e a nessun altro è lecito chiamarsi così. Egualmente anche l’adorazione è unicamente di Dio. Dunque, o uomo, sei davvero in errore: onora l’imperatore amandolo, ubbidendogli, pregando per lui: facendo così, farai il volere di Dio. Dice infatti la legge divina: “O figlio, onora Dio e l’imperatore, e non essere disubbidiente né all’uno né all’altro. Subito infatti puniscono i loro nemici” (Pr 24,21s).
Monsignor Francesco Follo è osservatore permanente della Santa Sede presso l’UNESCO a Parigi.