venerdì 17 novembre 2017

Sabato della XXXII settimana del Tempo Ordinario



Sulla Via crucis di Gesù c’è anche Maria, sua Madre. 
I discepoli sono fuggiti, ella non fugge.
Ella sta lì, con il coraggio della madre, 
con la fedeltà della madre, 
con la bontà della madre, 
e con la sua fede, che resiste nell’oscurità: 
"E beata colei che ha creduto". 
"Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?.
 Sì, in questo momento Egli lo sa: troverà la fede. 
Questa, in quell’ora, è la sua grande consolazione.

Benedetto XVI

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Dal Vangelo secondo Luca 18,1-8

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi: “C’era in una città un giudice, che non temeva Dio e non aveva riguardo per nessuno. In quella città c’era anche una vedova, che andava da lui e diceva: Fammi giustizia contro il mio avversario. Per un certo tempo egli non volle; ma poi disse tra sé. Anche se non temo Dio e non ho rispetto di nessuno, poiché questa vedova è così molesta le farò giustizia, perché non venga continuamente a importunarmi”.
E il Signore soggiunse: “Avete udito ciò che dice il giudice disonesto. E Dio non farà giustizia ai suoi eletti che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà a lungo aspettare? Vi dico che farà loro giustizia prontamente.
Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?”.

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Sperare contro ogni speranza è il fondamento ultimo e primo della preghiera. Come quella della «vedova», con un «avversario» a stringerle la gola davanti ad un «giudice terribile»; non può appellarsi né alla giustizia umana visto che il giudice «non ha riguardo di nessuno», né al sentimento religioso perché il giudice «non teme Dio». Essa si confonde nell'immagine dell'inerme colomba che simboleggia Israele, la sposa del Signore così come appare nel Cantico dei Cantici: "O mia colomba, che stai nelle fenditure della roccia, nei nascondigli dei dirupi, mostrami il tuo viso, fammi sentire la tua voce, perché la tua voce è soave, il tuo viso è incantevole" (Ct. 2,14). La tradizione di Israele interpreta questo versetto alla luce della notte di Pasqua: "Quando il Faraone malvagio inseguì il popolo d'Israele, questo era simile a una colomba che era in fuga da un falco ed è entrata nella fessure delle rocce, e il serpente sibilava contro di lei. Se entrava, ecco il serpente, se usciva, ecco, c'era il falco" (Targum Shir Ha-Shirim 2:14). La preghiera della vedova è, essenzialmente, la voce dell'amata in difficoltà suscitata dall'Amato: è Lui che, innamorato e attirato da ciascuno di noi, desidera ascoltare la nostra voce, ci chiama e ci invita a «pregare incessantemente». La «necessità di pregare sempre e senza stancarsi» è la necessità dell'amore, perché per amare Cristo, non abbiamo che l'»insistenza» delle lacrime e della preghiera. E come è necessario amare per vivere, così pregare. Per questo il Signore conclude la parabola chiedendosi se, tornando, «troverà ancora la fede sulla terra», ovvero se troverà ancora amore nel cuore della Chiesa e di ciascuno di noi. Quando tutto ci sembra congiurare contro, la preghiera è il «linguaggio» della fede adulta. Laddove non possono le ragioni umane, può l'»insistenza» spinta al limite della resistenza altrui, come fanno i bambini quando si mettono in testa di farsi regalare il gelato o un nuovo giocattolo. La «Giustizia» nella Scrittura descrive il rapporto pieno e autentico con Dio, il permanere nella Verità. Questa vedova ha un avversario che le ha strappato o le vuole strappare questa vita santa, bella, giusta; per questo «non si stanca» nel rivendicare la misura di vita che corrisponde alla sposa di Cristo. Il verbo «enkakein» tradotto con «stancarsi», ha il significato di «cominciare a trascurare qualcosa» o «tralasciare un impegno a cui si è obbligati». La vedova sa di avere un avversario e di rischiare la vita, non trascurare la preghiera, la supplica, l'amore. Chi invece ha perduto questa coscienza si stanca e comincia a tralasciare l'impegno costitutivo della propria vita. 

Anche noi abbiamo lo stesso «avversario», il demonio, che prima ci inganna, seduce e spinge a peccare, e poi ci trascina «accusandoci» davanti al Giudice. Ma è proprio da questo tribunale che possiamo elevare il grido della preghiera, i gemiti inesprimibili dello «Spirito Paraclito», il nostro «avvocato» presso il Padre, lo Spirito del Signore Gesù che si è offerto per noi come «mallevadore». È Lui che, secondo il significato del termine, «impegnando sé stesso ed il proprio patrimonio», presta garanzia per ciascuno di noi, diventandone obbligato con i suoi stessi beni, con la sua vita. L'avversario non poteva immaginarlo: al solo pregare, Gesù si fa «prontamente» garante per noi presso Dio e il Giudice non può che ascoltare altrettanto «prontamente» un Avvocato che garantisce mostrando le sue stesse piaghe segno della sua vita offerta in riscatto. Per questo chiediamo con insistenza il compimento in noi della Giustizia della Croce. Pur essendo schiaccianti le prove contro di noi e siamo senza attenuanti - la moglie ha sofferto, i figli si sono sentiti perduti, l'amico è scappato, il fidanzato ferito... - per un miracolo impensato, la folle Giustizia di Dio ci scagiona facendo ricadere la colpa sull'Innocente che ha confessato un delitto mai commesso. "O immensità del tuo amore per noi! O inestimabile segno di bontà: per riscattare lo schiavo, hai sacrificato il tuo Figlio!" (Exultet di Pasqua). E' questa la Giustizia che trasforma un assassino in un santo, una vedova nella sposa più felice; la «giustificazione» che fa di noi i testimoni, come Abramo, della «fede sulla terra», che crede contro ogni evidenza, avviandosi ogni giorno al Moria, sino al ritorno del Signore.