venerdì 17 novembre 2017

Una monaca wi-fi


Esce oggi in libreria Si salvi chi vuole. Manuale di imperfezione spirituale, il nuovo libro di Costanza Miriano. Per gentile concessione dell’autrice pubblichiamo una parte del primo capitolo.
Ho deciso, voglio farmi monaca. Ecco, mi rendo conto che, per esempio, a prima vista, la mia postura adesso potrebbe sembrare non proprio simile a quella di san Pacomio, uno dei Padri del deserto che furono gli apripista di questa forma di vita: sono le tre di notte e non sono ancora a metà della lista delle cose da fare oggi, che poi è ieri già da qualche ora, indosso dei pantaloncini fucsia da corsa – tipico capo del monachesimo occidentale –, ho alla mia destra una crema levigante (gli spiriti degli acquisti inutili tendono a materializzarsi nelle notti d’estate, e voci di farmacisti assennati vissuti secoli or sono ti bisbigliano: «Quanti trattamenti antipidocchi avresti potuto comprare invece di questa crema che non frenerà il tuo decadimento?»), alla sinistra i libri di Groucho Marx e vari cibi raccomandati dalla federazione mondiale colesterolo. Per espiare, di fronte a me, una bottiglietta con una bevanda drenante (noi aspiranti monaci teniamo in somma considerazione la lotta alla ritenzione idrica, si sa). Intorno, in ordine sparso, delle pinzette, un correttore (non del senso di un amanuense che ti controlli i testi, ma una crema rosa chiarissimo per coprire le occhiaie), tre rosari, il modulo di iscrizione a un secondo anno di classico, due multe, dei fiori agonizzanti, il breviario, una decina di libri cominciati e abbandonati, sempre per quel fastidioso problema che ogni giornata ha ventiquattr’ore e, quando meno te lo aspetti, finisce, e poi ricomincia, sempre cortissima, e bisogna ripetere tutta una serie di cose che, testarde, si ripropongono ogni giorno, tipo preparare da mangiare a pranzo e cena, perché coi figli, a differenza di quanto succede coi gatti, non puoi cavartela con una ciotola di crocchette ai gamberi.
Eppure, in questo caos di giornate zippate e liste sempre troppo lunghe e cronicamente inevase, voglio farmi monaca, perché la preghiera è la forza più potente della storia, quella che cambia prima noi e poi il mondo – un giorno ci risulterà chiarissimo, quando tutto ci sarà svelato, dopo la morte, e che ridere quando vedremo che la bisnonna Irma o Francesco e Giacinta, pastori analfabeti di nove anni, hanno spostato eserciti più di Churchill e Eisenhower. Solo che è necessario un cuore monacale, allenato come un ranger, per trovare il modo di pregare nelle nostre vite iperconnesse – zero tempi morti (per me il massimo simbolo del lusso non è certo un paio di ballerine Roger Vivier, ma mia mamma che fa La Settimana Enigmistica davanti al fuoco) – quando tutto sembra congiurare contro la preghiera e il silenzio. A isolare uno spazio blindato dalle parole e dalle relazioni inutili, serve davvero una decisione chirurgica, scavare nella mia carne e togliere quello che non serve alla vita vera. Recintare uno spazio di silenzio e di incontro, perché noi non possiamo far sorgere il sole, ma possiamo trovarci lì quando sorge. Se non isoliamo uno spazio dal rumore di fondo e dai pensieri, dalle urgenze e dalle richieste esterne, dalle voci degli altri e anche dalla nostra, non lo sentiamo Dio che ci parla, perché lui non urla. Voglio farmi monaca, perché conviene davvero che siamo noi a scegliere la nostra vita, prenderla in mano, senza lasciar fare alle circostanze. La maggior parte di noi si adatta alle situazioni senza porsi troppe domande, senza averle davvero scelte, procedendo nella vita senza un progetto, più come uno che vaga dentro un centro commerciale in un giorno di saldi, che non come uno che costruisce qualcosa secondo un progetto. Chi procede a tentoni, oltre a fare delle solenni cretinate, può finire per accorgersi di avere mancato il bersaglio principale della propria vita, e quello è ben più doloroso di un acquisto sbagliato.
Chi ha un progetto invece può districarsi nelle giornate più piene, e se è fedele al suo progetto, una pietra dopo l’altra, un colpo di scalpello dopo l’altro, può tirar su una cattedrale della sua vita, a volte anche senza essere neppure del tutto consapevole dell’opera d’arte compiuta. Ecco, questo è il progetto decisivo della nostra vita, e vale la pena investirci il meglio di noi: quale spazio dare a Dio? Quando? Come? Foglietto alla mano, agenda, penna, per impedire alle cose più urgenti di oscurare la più importante di tutte. Un monaco come noi, laici che vivono nel mondo, ricama la sua vita con una selva di fili intrecciati, magari rotti e riannodati, però ci sta per scelta, e in modo consapevole. E da quel mucchio di fili sa tirar fuori un ricamo. Un monaco come noi vorrebbe pregare nel silenzio ma, appena prova a tirare fuori dalla tasca un rosario, viene convocato per un’importantissima questione di pattini contesi, o di frasi di latino, o di Nutella finita. Un monaco come noi ha sempre una riunione urgentissima di lavoro all’ora in cui voleva fare adorazione e, quando apre la Bibbia, al marito, solitamente loquace come un portaombrelli, viene improvvisamente voglia di parlare (e, siccome la cosa avviene una volta all’anno come la fioritura dei ciliegi in Giappone, bisogna cogliere l’attimo). Un monaco come noi sogna l’eroismo, il martirio e, ogni tanto, se ha dormito poco e bevuto troppi caffè, immagina persino di fondare cose nuove, di insegnare qualcosa a qualcuno.
Ma la realtà di questo monachesimo è stare nella mediocrità, questa croce passiva che, se la abbracci, ti cambia. È stare accanto ai figli che ti deludono, agli anziani che tornano bambini, è stare dentro la vita imperfetta, la casa con le macchie di muffa e le porte scrostate, perché la realtà è così, la muffa si forma e la vernice si scrosta… Voglio farmi monaca perché la vita è difficile. È scomoda. È fatta di borse che cadono dal sedile della macchina quando freni e di ciotole col pranzo che si aprono sugli XDCAM del preziosissimo materiale che hai girato (ma la glassa di aceto balsamico sta benissimo anche sulle pagelle da riconsegnare a scuola, è un must di ogni mamma lavoratrice). La vita è difficile, non perché lo zio Gualtiero una volta ha detto che mia cugina era più bella di me e da allora ho sofferto moltissimo; è difficile e basta, finché non metti il cuore nel posto giusto, perché nessuno di noi è stato amato nel modo giusto, e non è colpa degli altri. È che, come disse mia figlia Lavinia, sconsolata dopo una misteriosa faccenda di amichette di scuola: «Solo Gesù mi vuol bene perfetto, come io voglio esser voluta bene.» (Prendo nota della sua attitudine mistica, la rispetto molto, ma lo dico ufficialmente: non sono pronta alla quarta adolescenza. Io mi metto in coma farmacologico e aspetto che passi.) Sarebbe bello se la metà, o anche solo un quarto, delle persone adulte arrivasse alla consapevolezza di una bambina delle elementari, e la smettesse di mendicare affetto nei posti sbagliati. Affetto o i suoi surrogati, tipo Aston Martin o presidenze di consigli di amministrazione, o sederi da sedicenni piazzati su corpi ultracinquantenni, garanzia di sguardi, o curricula da secchione, come se l’affetto potesse mai essere garantito da qualcosa. Il problema non è il mendicare, che è la nostra condizione esistenziale, cioè il bisogno di relazione per essere felici. Il problema è mendicare nel posto sbagliato, cioè riempire il nulla col nulla.
Penso che anche oggi possa essere un nuovo tempo per il monachesimo: non c’è nessuno che ami il mondo più del monaco. E proprio per questo, perché vede il bene e la bellezza possibili sulla terra, vuole curarla come un contadino fa col suo campo. C’è dunque bisogno di schiere di monaci in questo tempo di grande crisi, con la fede costretta in un angolo, e uomini e donne depressi e nauseati e stanchi e annoiati di tutto (guardate le facce della gente in fila alla cassa del supermercato), che Dio nemmeno lo rifiutano, semplicemente non alzano neppure la testa per cercarlo.
Quanto a noi, siccome nessuno di noi, grazie al cielo, è Papa (alcuni di noi sono capi del mondo, ma vabbè, quella è roba per gli psichiatri), ci è richiesto solo questo paziente, nascosto lavoro di scalpello su noi stessi. Come gli artigiani che, sotto le volte delle cattedrali, rifinivano la pietra e creavano intarsi e sculture, a volte piccole e nascoste, che probabilmente nessuno avrebbe notato, così a noi è chiesto di lavorare di cesello sul nostro cuore (erano anni che volevo dirlo, che poi è il motivo per cui scrivo libri; quando mai nella vita ti capita di dire “cesello”?). Voglio farmi monaca, infine, perché voglio stare in un monastero con tutti gli amici, che sono tantissimi. Incontrati una sola volta o diventati una compagnia stabile, amici di carne o solo immagini su un social network, amici che si intrecciano alla mia vita con una parola o con un fiume di parole, amici sfiorati o depositari di sedute quotidiane di autoanalisi, amici che sanno farsi presenti con gesti concreti, e condivisione di pesi. Voglio stare legata in cordata con loro, perché c’è un regno da conquistare, e il nostro piccolo esercito lo può espugnare solo se è unito, faccia a faccia con Dio, gomito a gomito con i fratelli. Questo monastero è unito via telefono, via internet, via carne, o anche solo via preghiera – dico “solo” per dire che magari non si riesce a vedersi spesso, a volte non ci si vede più, ma quando si sono denudate insieme le anime si è uniti per sempre, e la preghiera è l’unione più potente. Come con l’amica che ho ascoltato dopo un incontro al Nord, fino alle tre di notte. Ci siamo parlate come sorelle senza esserci mai viste prima. Ci siamo sentite qualche volta. Per ringraziarmi della poca cosa che le avevo dato – ascolto, e niente più – mi ha mandato un’icona meravigliosa, scritta (così si dice) per me da una suora, davanti alla quale prego tutti i giorni. Una settimana dopo è morta in un incidente.
Ecco, lei è una consorella che sento più viva che mai, in questo monastero wi-fi. E anche se i dizionari dicono che wireless fidelity non è la traduzione esatta di questo nome commerciale, per me è perfetta: una fedeltà senza fili. Siamo fedeli al nostro monastero senza essere legati da nessun filo, da null’altro che il desiderio di amare e far amare Dio, e di essere insieme in questa avventura, che è un combattimento prima di tutto con noi stessi, e non si è mai visto un esercito composto da un solo soldato. E poi, certo, una consorella monaca wi-fi può essere utilissima anche per consigliarti i semi di chia per la pancia piatta o una crema che funziona come quella di La Mer ma costa un decimo. Tra consorelle e confratelli ci si presta case e vestiti (se volete anche figli, per dire: al momento io sarei disponibile a prestare un quindicenne in cambio di due seienni e un treenne). Una consorella sa quando è il momento di sgridarti e quando invece il momento di farti un complimento, anche finto o eventualmente usato – non andiamo troppo per il sottile. Su questo i confratelli sono leggermente meno intuitivi, però magari possono darti una mano con la dichiarazione dei redditi (nel mentre, non è uno stereotipo, io parlo di saldi con la moglie del commercialista) o pareri medici, o anche a trovare una strada in base a tue vaghissime indicazioni («Dove sei?» «Non so, vedo un lampione»). L’importante è saperlo, e non farsi spiegare la strada da una consorella, né esporsi a rischi inutili con dei confratelli (perché mai dovresti chiedere a un maschio se per caso quel colore di capelli ti invecchia? Quello magari ti dice la verità). Sapere di essere in un monastero wi-fi è una grande consolazione, perché chi decide di passare un po’ del suo tempo solo con Cristo, per arrivare a passare tutto il tempo con Cristo e i fratelli, trasforma il suo cuore. Impara a tifare per gli altri.


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 UN ESTRATTO DEL LIBRO

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Terza colonna del monastero


La terza colonna su cui costruire la cattedrale, la terza arma che ci viene consegnata per combattere, è davvero un ordigno potentissimo, molto più del calzino sintetico a fenicotteri rosa che mia figlia Livia non vuole abbandonare (chi può dire quali reazioni chimiche si inneschino a trentaquattro gradi all’ombra, dentro una Stan Smith contenente un indumento in poliuretano indossato per due giorni consecutivi?). La confessione è una roba incredibile. È qualcosa che, se la capissimo davvero, se ci credessimo seriamente, potrebbe cambiare in modo potentissimo e, gradualmente, definitivo la nostra vita. A volte, a dire il vero, anche non troppo gradualmente. Ho visto persone togliere tappi enormi e opprimenti che da anni, decenni in alcuni casi, soffocavano le loro vite. Certo, la confessione è segreta, segretissima – e il sacerdote che tradisce il segreto è scomunicato, questa cosa me la ripetono spesso, per stare più tranquille, le nostre bambine quando consegnano i loro segreti a qualche prete mio amico – ma non c’è bisogno di sapere niente quando vedi uscire dal confessionale una persona con una faccia diversa, una donna che per anni hai visto sempre con le sopracciglia aggrottate, il viso contratto, e adesso piange e ride insieme, e stenti a credere che sia lei, e devi fare il riconoscimento tipo parente di un morto, dal golfino che ha addosso, perché la sua faccia è davvero un’altra. Una volta una mia amica era addirittura scalza, quando è uscita, trasformata, dal confessionale. Il senso di liberazione deve essere stato talmente forte da sentirsi in dovere, per giustizia, di liberare anche i piedi dal sandalo tacco dieci. Ovviamente io non sapevo niente di quel nodo, e continuo a ignorare cosa la opprimesse tanto. Invece il sacerdote da cui l’avevo accompagnata, prima ancora che entrasse, le ha detto la parola giusta, quella magica, che l’ha convinta ad aprirsi. Questa per me è una delle prove dell’esistenza di Dio: non si spiega altrimenti il fatto che a essere così capace di profondissima, intuitiva comprensione sia un maschio, uno appartenente alla stessa specie di quei soggetti a cui di solito devi spiegare le cose con dei cartelli scritti molto grossi. Quei signori che dormono con te da vent’anni e, nonostante questo, mancano ancora dei fondamentali, e non sanno ancora che, se dici «non mi sono affatto offesa, perché di quella non potrei mai essere gelosa, figurati», e loro non arrivano entro venti minuti con delle rose, sono uomini morti. Meglio ancora se dicono che quella lì è cicciona (ci basta così poco per essere felici). Un sacerdote, quando sta confessando, invece, ha un carisma particolare, ha il dono del discernimento. E poi rimane quel fatto inaudito che, mentre tu gli squaderni il tuo mondo interiore, sta lì e ti ascolta: non se ne va nell’altra stanza a leggere un articolo su qualche fosco scenario geopolitico mondiale, oppure a dividere le viti per grandezza, che non è proprio come salvare il mondo, ma è sempre meglio che ascoltare una donna. Un confessore, invece, salva il mondo una persona alla volta. Dice un mio amico, appartenente alla schiera dei preti supereroi, che ci vuole più testosterone a stare una giornata in confessionale che a giocare una partita di rugby. E siamo ancora solo sul piano umano: una confessione fatta bene ti fa la diagnosi, cioè ti dice come stai, a che punto sei del cammino. Su quali fronti devi lavorare. Ti aiuta a mettere intelligenza e metodo nella vita spirituale, a non essere emotivo, a non procedere in modo ondivago. Soprattutto, se fatta con un sacerdote che ti conosce (lo so, sarebbe più comodo con degli estranei), ti aiuta a resettare i parametri, e giudica la tua vita, ma con uno sguardo più buono e più lucido del tuo. Ti accompagna nel dare importanza a ciò che ne ha davvero, a volte persino a essere più indulgente su alcune cose, e magari più serio su altre. A volte per esempio è utile, molto più di tante chiacchiere, fare un diagramma serio dell’uso delle nostre risorse: il tempo e i soldi, tanto per cominciare. Quanto diamo ai poveri e quanto al parrucchiere. Quanto tempo stiamo sui social e quanto in cucina a preparare la cena ai figli. Numeri, oggettivi, e non chiacchiere che ci rendano presentabili a noi stessi: sono le statistiche che fanno la foto della nostra vita. Solo a partire da quello si può fare un lavoro serio su di noi, e non importa se si fa brutta figura col confessore. Anzi, più crediamo di fare brutta figura, più significa che la confessione è stata usata bene (e, secondo me, per questo il confessore ci vuole bene di più, perché il desiderio di essere nella verità con umiltà scioglie tutti i cuori, che poi peraltro siamo tutti bruttini allo stesso modo, solo c’è chi fa finta meglio). Come promemoria, soprattutto per me stessa, mi vorrei ricordare che la confessione non è una psicoterapia (infatti non si paga), e quindi è inutile che cerchiamo di dare la colpa alla nonna Adelina che preferiva nostra sorella, o ai compagni di classe che non ci apprezzavano abbastanza (probabilmente perché le secchione che non passano i compiti «per il vero bene dei compagni» non ispirano proprio tantissima simpatia a prima vista, e già è tanto se non vengono prese a randellate). D’altra parte, problemi da piccoli ne abbiamo avuti tutti: anche il figlio che ho allattato fino a tre anni sostiene di essere stato trascurato e maltrattato a causa di una carenza di PlayStation, e dice che farà lo psichiatra per aiutare le persone che hanno avuto un’infanzia difficile come la sua (forse avrei dovuto picchiarlo forte). Un’altra cosa che la confessione non è: elencare i peccati degli altri, ché quello lo sappiamo fare tutti. No, perché a ben vedere io avrò pure sbagliato, ma alla fine, in fondo in fondo, secondo me mi avevano provocato. Sui peccati altrui io di solito sono preparatissima, non me ne sfugge uno. E comunque, nel dubbio, qualcuno ne aggiungo anche, fa rifulgere di più la mia aureola. Invece una confessione fatta bene, dicevamo, è come una Tac. Ti dice dov’è il problema, ti fa la diagnosi. Ma la nostra parte è solo l’inizio: la tua vita, se la consegni con una confessione seria, diventa un affare di Dio. Lui ti difende se tu ti autoaccusi, diventa il tuo avvocato. E non uno d’ufficio, ma il migliore sulla piazza, parecchio meglio di Robert Redford in Legal Eagles, ti arrivo a dire. Qualunque cosa tu abbia fatto, se seriamente sei pentito, e seriamente vuoi mettercela tutta a non farla più, la puoi consegnare a Cristo, che è morto in croce proprio per quello, per prendersi i tuoi peccati. Da quel momento in poi, non ci devi pensare più. Non devi ascoltare le parole dell’accusatore che continua a dirti che, siccome sei una schifezza, sicuramente ci cadrai di nuovo. Non consegnare il tuo pentimento al nemico, che continua ad accusarti (gli piace riempire di rimorsi il passato, di ansie il futuro), ma a Dio, che è il Dio del presente. Da quel momento in poi, puoi andare a testa alta, perché Dio in persona si è fatto carico delle tue malefatte. È lui che ti protegge e tu puoi provare seriamente a convertirti, da quel momento in poi, mentre al passato pensa qualcun altro di molto potente. Il mio amico che ha consegnato un tradimento, e ora può guardare sua moglie negli occhi e imparare di nuovo ad amarla; la mia amica che ha chiesto perdono per avere ucciso suo figlio nel grembo; il padre che ha lasciato la madre di sua figlia all’altare e per quarant’anni non si è occupato di quella bambina che nel frattempo è diventata una donna ferita: tutte queste persone riescono a vivere senza essere schiacciate dal dolore, solo perché qualcuno lo porta per loro. Non va così nel mondo, che, come si sa, permette tutto ma non perdona nulla. Io so che prima o poi uno struzzo mi caverà un occhio, per vendicarsi di quella borsa di piume che mi sono dovuta inderogabilmente procurare facendo perdere un pomeriggio, svariati euro e molta dopamina a mio marito, perché ero certa che da quel giorno, grazie a quella borsa, la mia vita sarebbe definitivamente cambiata, e poi sono riuscita a usarla una volta sola (ma adesso vado di là, la prendo ed esco a comprare le sigarette, inizio a fumare apposta, guarda). Vabbè, dato che siamo in vena di confessioni pubbliche, ho buttato io quel pezzetto di legno che mio marito doveva riattaccare alla chitarra, pensavo fosse un rifiuto ed ero posseduta – mi capita un’ora all’anno – dallo spirito di Donna Letizia, ho aspirato per qualche minuto a una casa impeccabile. Tanto lo so che lui non ce la fa a leggere i miei libri tutti interi, troppo verbosi, dopo un po’ gli vanno gli occhi in modalità salvaschermo (se invece sei arrivato fin qui, marito, perdonami). La Chiesa, al contrario, cerca di non permettere nulla che faccia male all’uomo, ma perdona tutto, tutto, tutto. Dio si è fatto uomo ed è morto in croce per quello. Non per un incidente di percorso, ma per salvarci dai nostri peccati. L’unico modo per nascondere i peccati è dirli tutti, perché l’unico che può intervenire sul passato è Dio, e finché qualcuno non se li prende su di sé, quelli stanno lì.
Non bisognerebbe lasciar passare più di un mese tra una confessione e l’altra. E siccome la ricrescita la vedi allo specchio, non c’è bisogno di segnare quando sei stata dal parrucchiere l’ultima volta, mentre sugli effetti del peccato siamo più bravi a mascherare, forse noi monaci è meglio che ci segniamo la data sul diario spirituale – la cui esistenza, consigliatissima, è una delle poche buone ragioni per cui le mie borse superano le dimensioni di un bagaglio a mano consentito sui voli low cost anche quando vado dal dentista (se si apre una voragine sul marciapiede e vengo inghiottita e devo ricominciare una nuova vita vicino a Sydney ho tutto l’occorrente con me, tranne il piegaciglia, ma tanto praticamente non ho le ciglia). Quella data ce la dobbiamo segnare perché dobbiamo trovare spazio fra la ricerca della prenotazione della nuova carta di identità («La tengo io che tu perdi tutto, caro»), la riunione col capo e la recita di fine anno (ho tre giorni e una manciata di ore per cercare di scoprire come vestire le mie figlie senza chiederlo apertamente a nessuna mamma, la qual cosa mi farebbe precipitare nella scala sociale, visto che loro hanno i vestiti pronti da un mese mentre io ho saputo della recita solo ieri, e so che la sera prima, alle 19.29, supplicherò la signora della merceria di non chiudere, per poi trascorrere la notte successiva a rispolverare le nozioni di cucito apprese dalla nonna a nove anni, ma d’altra parte chi si accorgerà di qualche colpo di pinzatrice?). Ecco, io so che le vere donne mistiche si confessano quando la contrizione (che è la prima parte del Sacramento, ed è diversa dal senso di colpa; è invece fiduciosa apertura al perdono) sovrabbonda dal loro cuore tutto immerso in Cristo. Io invece mi confesso quando me lo ricorda l’agenda, ma pazienza. La seconda parte del Sacramento è la confessione del proprio peccato e non di quelli altrui, senza scuse; di tutti i peccati, non solo di quelli lievi, con umiltà e semplicità, senza scrupoli. Poi serve la soddisfazione, qualcosa che curi con un antidoto, che noi possiamo suggerire e che il sacerdote sceglie. Infine viene il proposito di correggersi con l’aiuto di Dio, e l’assoluzione. A questo punto l’alleanza è ristabilita! Per una cifra modica posso vendere una mappa dei sacerdoti con l’udito peggiore di tutta Roma, quei vecchietti gentili che se dici il peccato velocissimo e a bassa voce non lo sentono; ho anche ottime segnalazioni di sacerdoti troppo buoni, ma, fidatevi, veramente troppo. E se si arriva a due minuti dalla chiusura della chiesa ci si può procurare anche un sacerdote molto frettoloso. Ecco, non è questo il senso del Sacramento. Anzi, se uno fosse un monaco serio, non dovrebbe confessarsi con un sacerdote che non lo conosce solo perché si vergogna, perché non si tratta di un rito magico, ma di un serio desiderio di conversione: non ricordo quale mistica medioevale scrisse che al Giubileo del 1300 solo due persone guadagnarono l’indulgenza davvero, perché avevano il cuore sincero (io, infatti, se incontro una mistica medioevale cambio marciapiede).