martedì 13 febbraio 2018

Gesù e il giovane ricco


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Anno liturgico Capire la Quaresima: segni e parole di un ... - Avvenire

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6 ore fa - Con il Mercoledì delle Ceneri inizia la Quaresima (foto Epa). Il 14 febbraio, Mercoledì delle Ceneri, inizia la Quaresima. È il «tempo forte» che prepara alla Pasqua, culmine dell'Anno liturgico e della vita di ogni cristiano. Come dice san Paolo, è «il momento favorevole» per compiere «un cammino di vera conversione» così ...

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Il “Mercoledì delle ceneri” porta questo nome dal gesto che in quel giorno si compie nella liturgia. Al credente che inizia la Quaresima viene posta sul capo della cenere come segno di pentimento e di volontà di conversione. Per questo, mentre riceve le ceneri si sente rivolgere l’appello “Convertiti e credi al vangelo”, oppure “Ricordati che sei polvere e in polvere tornerai”.
Spargersi il capo di cenere è nella Bibbia un gesto di umiliazione e di pentimento di fronte al Signore per i peccati commessi.
In un antico testo della liturgia morava si trova un altro gesto legato alle ceneri. Esse non sono poste sul capo come segno di pentimento ma nelle mani del penitente per ricordare a lui ciò che Dio fa dei suoi peccati quando egli invoca il perdono, e come essi sono purificati dal fuoco della sua misericordia. Questa è un’altra possibile e suggestiva interpretazione del segno delle ceneri che la tradizione cristiana ci consegna. Il suo significato spirituale può orientare anche il nostro cammino quaresimale.
Queste le parole che nella liturgia morava delle ceneri il celebrante rivolge ai fedeli: 

“Riceviamo ora nelle nostre mani le ceneri.
Possiamo guardarle e ricordarci del fuoco
e della purificazione che l’amore del Signore
attuerà nel nostro giorno:
noi non siamo destinati a essere cenere
ma alla vita eterna,
vita di Cristo risorto per sempre”.

Ogni fedele riceve le ceneri nelle mani e il celebrante dice a ciascuno:

“Davanti al Signore i tuoi peccati pesano come questa cenere. Va’ in pace!”

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Domani, mercoledi delle Ceneri, inizia la Quaresima: propongo la lettura e la meditazione di un testo classico...

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Mc 10, 17-22
Mentre usciva per mettersi in viaggio, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: “Maestro buono, che cosa devo fare per avere la vita eterna? ”. Gesù gli disse: “Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo. Tu conosci i comandamenti: Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non dire falsa testimonianza, non frodare, onora il padre e la madre”
Egli allora gli disse: “Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza”. Allora Gesù, fissatolo, lo amò e gli disse: “Una cosa sola ti manca: và, vendi quello che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi”. Ma egli, rattristatosi per quelle parole, se ne andò afflitto, poiché aveva molti beni.

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Gesù esce per mettersi in viaggio, Lui è sempre in cammino. Gesù è il cammino. Passa, chiama, attira, e coinvolge nel movimento che strappa all'installazione, all'imborghesimento, al grigio della vita. Gesù è un vortice che purifica e stana chi vorrebbe nascondersi e fuggire dalla realtà. Il "tale" che appare nel Vangelo non ha nome, perchè non ha consistenza. E' immagine dei tanti che scivolano nella vita aggrappati alle proprie ricchezze, non solo economiche. Vuole la vita eterna, come ciascuno di noi. Ma è davvero quello che il suo cuore desidera? Corre incontro a Gesù, e si mette in ginocchio. Quante volte ci mettiamo in ginocchio davanti a Gesù! Quante volte ci mettiamo a pregare chiedendo luce su quel che dobbiamo fare. E nulla, ce ne torniamo tristi alla vita di ogni giorno, magari mormorando per non aver sentito nulla, per non aver capito, per essere rimasti al punto di partenza.  Non basta mettersi in ginocchio. Non basta correre in Chiesa. Non bastano neanche le nostre opere di giustizia, perchè il cammino di Gesù è qualcosa di diverso. 


Esso svela l'essenza della Legge che non è un cumulo di articoli del codice da rispettare. La Legge del Sinai, i Dieci Comandamenti sono le Parole della Vita, il cammino che Dio ha lasciato all'uomo per ereditare la vita che non muore. Ne sono un anticipo perchè sgorgano dal cuore stesso di Dio. I comandamenti sono pura Grazia perchè mostrano, nella vita quotidiana, la libertà di chi appartiene totalmente a Dio. Egli infatti "ha scritto sulle Tavole della Legge ciò che gli uomini non riuscivano a leggere nei loro cuori" (S. Agostino, Enarratio en Psalmum 57,1). Per questo, nel dialogo di oggi, cominciando con l'elencare i comandamenti da "non uccidere", Gesù è come se nascondesse la prima parte del Decalogo, quella che fonda e genera ogni comandamento, e che fa riferimento proprio al cammino che Dio ha aperto al suo popolo quando lo ha liberato dall'Egitto. Da quel miracolo d'amore che è stata la liberazione dall'angoscia della schiavitù sorge un amore nuovo, l'amore a Dio con tutto il cuore, con tutta la mente, con tutte le forze. Pensare di compiere la Legge senza aver conosciuto l'amore di Dio nella propria vita è pura illusioneQuando Gesù scopre le carte e presenta al ricco la perfezione, che nel linguaggio del Nuovo Testamento indica i cristiani sine-glossa, (i "perfetti" erano i battezzati), il "tale" si spaventa, si rattrista, perchè si rende conto che, in realtà, non aveva compiuto nessun comandamento. Aveva rispettato alcuni codici della Legge, ma il suo cuore era lontano, e la sua relazione con Dio era solo un vestito indossato. E' un cuore liberato la sorgente di una vita santa, separata, consacrata. 


Così il Signore, attraverso la tristezza del "tale" del vangelo, ci dice che cosa sia essere cristiani. Non sono parole esclusive per frati o monache, sono per noi, oggi. Gesù non si rivolge a un'elite di super cristiani, quasi che la libertà sia riservata ad un club esclusivo. Il "tale" che desiderava la vita eterna, in fondo desiderava essere cristiano, ma, all'udire l'annuncio di Gesù, torna alla sua vita triste, perchè il suo cuore non aveva conosciuto l'amore, quell'amore con il quale il Signore lo aveva amato fissandolo e annunciandogli la verità. Non aveva compreso che Colui che lo invitava a lasciare tutto e seguirlo, era Dio stesso, l'unico che poteva fissare in quel modo, giungere al cuore, amare e chiamare con quella autorità. Un cristiano è invece immagine della gioia di chi, come gli apostoli, ha incontrato in quello sguardo, l'amore di Dio, e per quell'amore unico, lasciare i propri beni non è una rinuncia ma una liberazione. Quel "tale" invece non ama che se stesso, non è mai uscito dall'Egitto, continua a fare mattoni, opere di buona fattura, ma impiegate per costruire una cattedrale al proprio io. La gioia e la pienezza della vita non derivano dal compiere la Legge, ma dalla rettitudine di intenzione con la quale si opera. C'è chi lavora e studia con grande profitto, ma resta incatenato alla tristezza. C'è chi paga le tasse sino all'ultimo centesimo, ed è pieno di livore e odio per chi evade il fisco. Senza amore, nella vita tutto non è che vanità... Nel "tale" del vangelo infatti, si riflette l'immagine di tutti coloro che credono di poter raggiungere il Cielo con le proprie forze e che la vita eterna sia una questione di meriti da porre dinanzi a Dio; o, più laicamente, un attestato di "civiltà" presso la "società civile", tanto di moda in questi tempi di moralismi amorali. Da qualunque parte lo si consideri, è lui, il proprio ego, il centro della sua vita. E' immagine di chi si sforza, di chi si impegna per compiere la legge, di non sgarrare, dell'uomo che vive l'orizzonte della religiosità naturale, dove non c'è posto per la Grazia. San Tommaso d'Aquino, commentando l'affermazione di San Paolo «Certo, noi sappiamo che la legge è buona, se uno ne usa legittimamente» (1 Tim. 1,8): scriveva «L'Apostolo si riferisce qui ai precetti morali perché aggiunge che si tratta di legge posta per i peccati... Il loro uso legittimo [potremmo anche tradurre ragionevole] è che l'uomo non attribuisca a questi precetti più di quanto è in essi contenuto. La legge è data per conoscere il peccato. Non vi è dunque in questi precetti morali la speranza di essere resi giusti, ma solo nella grazia della fede».


Il "tale" chiama buono Gesù, ma nel fondo non lo riconosce come Dio, il solo buono, non gli dà credito, non si abbandona al potere della sua parola. Le ricchezze, segno del proprio io che la fa da padrone, gli impediscono di ascoltare, credere, e seguire Gesù nel cammino verso la Pasqua. E' la nostra realtà. Preghiamo, andiamo a messa, facciamo opere di carità, ci sforziamo cercando come fare per essere felici, ma siamo tremendamente gelosi di noi stessi, delle nostre ricchezze. Qualcuno ci ha nascosto la verità che sostiene e colma la nostra esistenza: il demonio ci sta ingannando con arte, proprio occultandoci l'incipit del Decalogo, l'amore di Dio nel quale siamo stati creati! Gesù vuole accompagnare il giovane ricco e ciascuno di noi alle fonti e alle radici della nostra storia, laddove si annida l'inganno, per svelarci di nuovo la verità: "Una sola cosa ti manca...", la sola cosa buona, necessaria, fondamentale che aveva scelto Maria mettendosi ai suoi piedi in ascolto della sua ParolaAbbiamo tutto e ci manca l'unica cosa davvero importante! E' uno shock, è lo tsunami che accompagna l'irrompere della verità. Quel giovane, come ciascuno di noi, sbatte violentemente contro se stesso, e si scopre usurpatore, insediatosi nel posto riservato a Dio. E' figlio di Adamo, la sua vita sgorga dalla menzogna primordiale: si sta corrompendo nel peggiore dei modi, perchè irretita nell'illusione di voler compiere la volontà di Dio mentre il cuore è inceppato sui desideri della propria carne. L'esito non può che essere la tristezza, la stessa che sperimentiamo anche quando abbiamo realizzato qualcosa di importante; dopo un breve entusiasmo, al seccarsi delle lacrime commosse, ci resta l'amaro dell'insoddisfazione, ci "manca qualcosa" per essere felici davvero, perchè quella gioia si stabilisca nel nostro intimo senza evaporare irrimediabilmente. Ci manca "una sola cosa"....  


Ci manca vendere tutti i nostri beni per entrare, già oggi, nel Cielo, e pregustare, in questa terra, le primizie della vita eterna: vendere tutto per avere un tesoro in Cielo; liberi da se stessi perchè Cristo sia il centro della nostra vita; lasciare il posto che abbiamo usurpato schiacciando l'esistenza sul triste e infecondo orizzonte terreno, perchè vi si insedi Colui che ci ha amati e introdotti nel Cielo, il nostro destino autentico, luce che illumina ogni istante attirandolo nell'orizzonte infinito dell'amore, di una vita donata sino all'ultimo spicciolo, senza risparmiare nulla. Gesù dice quello che hai, perchè può camminare dietro a Lui solo chi è tutto suo, chi non si ritaglia spazi di autonomia nelle scelte. Seguire Gesù è lasciarsi liberare sino in fondo dal suo amore che fa possibile l'impossibile, cioè far nascere la vita divina in una carne corruttibile. Questo Vangelo ci denuncia schiavi ma ci annuncia la liberazione: "Se vuoi essere perfetto...Traduci in opere queste parole e seguendo nudo la nuda Croce salirai con più prontezza la scala di Giacobbe" (S. Girolamo, Lettera a Paolina).


Non possiamo, è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che oggi, così come siamo, decidiamo di lasciare tutto e abbandonarci al suo amore per seguirlo. Ma scoprire oggi la tristezza dell'impossibilità, la frustrazione dei nostri limiti disegnati dall'egoismo, è il principio di una vita nuova, la porta stretta che conduce alla libertà. Non possiamo, forse neanche lo desideriamo davvero, ma non importa! Lui è oggi davanti a noi, e ci guarda fissandoci con amore infinito! Lui vuole compiere in noi quanto ci annuncia: Ci ha detto la verità, non abbiamo scampo, ma proprio per questo possiamo abbandonarci a Lui: Gesù non cerca i sani, i perfetti, gli illusi; Lui è venuto per te e per me esattamente come siamo oggi, tristi perchè avvinti alle nostre ricchezze che ci si corrompono tra le mani, incapaci di liberarci dal nostro io, dai nostri progetti, anche da quelli che crediamo ci debbano condurre alla felicità e alla vita eterna; Lui ci ama così, ora! Lui freme di compassione, ci fissa sino al fondo del nostro cuore malato e paralizzato per entrarvi e compiere l'impossibile. La Buona Notizia di oggi è che proprio la nostra totale debolezza è il nostro autentico trofeo, la porta dischiusa sulla Vita che non muore, la pienezza cui aneliamo. Lui è il cammino al Padre e al Cielo, Lui oggi può strapparci all'Egitto e condurci, sulle sue spalle, al riposo del suo amore, compiendo in noi e con noi, sino al più piccolo iota della Legge, liberandoci da ogni ricchezza avvelenata.Guardiamolo, fissiamolo e lasciamoci rapire dal suo amore, è questa l'unica cosa che ci manca, per sperimentare la gioia della fede invece della tristezza dell'idolatria: "La forza con cui la verità si fa strada deve essere la gioia in cui essa si manifesta. Essa - la gioia della fede - porta direttamente al centro della natura umana, che attende questa gioia con tutte le fibre dell'anima" (J. Ratzinger, La festa della fede).

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Il commento che segue è di Enzo Bianchi
Introduzione
Sono particolarmente contento del tema che mi è stato affidato, non solo perché mi richiede di essere eco del vangelo dell’incontro tra Gesù e il giovane ricco, ma perché mi ha costretto a ricercare e a pensare sullo sguardo di Gesù, sul vedere di Gesù. Meravigliato dalla scarsità di contributi su questo tema, ho voluto dedicare alcuni giorni per leggere meglio questo testo evangelico, e ora oso offrirvi quel che ho trovato.
1. Vedere, guardare
Vedere, essere visto, è un’operazione importante nella nostra vita umana. Accanto all’ascolto, il vedere è decisivo nel nostro venire al mondo. Dopo pochi giorni dalla nascita, noi apriamo gli occhi e vediamo… e così entriamo in relazione con gli altri, con le cose. È soprattutto il vedere che provoca la conoscenza e quindi il riconoscimento; è attraverso il vedere che accendiamo la relazione ed entriamo in relazione. Vedere è un’operazione che, essendo in atto quando noi non siamo preda del sonno, può rispondere solo a riflessi; ma se è un’operazione di cui si è consapevoli, se è un’operazione a cui ci esercitiamo, se è “educata”, diventa per noi il primo modo di comunicazione con l’altro.
Guardare è una cosa, vedere un’altra, e fissare lo sguardo sta nel registro del vedere, non del guardare. Per questo occorre “saper vedere”, e non si è mai finito di imparare quest’arte da cui dipende la comunicazione, la comunione, e quindi il sapore della vita. Di conseguenza, “essere visti” è l’esperienza decisiva dell’alterità: “Altro è per principio colui che mi guarda” (Jean-Paul Sartre). Se fossimo semplicemente guardati, e non visti, saremmo in una situazione disumana: abbiamo bisogno che qualcuno ci veda, che fissi lo sguardo su di noi, perché questo dice che qualcuno si accorge di noi, che possiamo ricevere uno sguardo da qualcuno. Essere visti è il primo modo di sentire la fiducia riposta dagli altri in noi. In ogni relazione che fa parte della nostra vita, noi non dimentichiamo mai quando “abbiamo visto”, quando “siamo stati visti”… È significativo che nel Bhagavadgita, poema sacro dell’induismo, stia scritto: “La salvezza sta nello sguardo”.
Per ciascuno di noi resta dunque possibile decidere il nostro sguardo, con cui scegliamo di sentire, di toccare l’altro: nel nostro sguardo c’è l’inizio di un tattilità, sicché noi possiamo avere uno sguardo che accarezza o uno sguardo che uccide, uno sguardo che scalda o uno sguardo che uccide, uno sguardo mite o uno sguardo che cattura e seduce, uno sguardo che desta fiducia o uno sguardo che incute timore, spavento. Ognuno di noi con lo sguardo raggiunge l’altro, già gli parla e già lo tocca.
2. Il guardare, il vedere di Gesù
Nei racconti riguardanti Gesù, si dice che egli ha ascoltato, ha parlato, ha visto… E ogni evangelista nel narrare azioni e parole di Gesù mette in evidenza in particolari occasioni, e in un suo modo proprio, il vedere, il guardare di Gesù. Tuttavia va riconosciuto che il vangelo secondo Marco dedica una particolare attenzione al vedere di Gesù, ai suoi modi diversi di guardare, a tal punto che è stato definito “il vangelo degli sguardi”. Non è un caso che solo il vangelo secondo Marco contenga il seguente rimprovero di Gesù ai discepoli: “Avete occhi e non vedete, avete orecchi e non udite?” (Mc 8,18).
In questo vangelo per ben 27 volte si attesta il vedere di Gesù, nelle sue varie sfumature: vedere, fissare lo sguardo, guardare attorno, osservare. Il primo sguardo di Gesù è verso i cieli, che vede aperti nel momento della sua immersione nel Giordano (cf. Mc 1,10). Ma poi è soprattutto uno sguardo per gli uomini:
sguardo che chiama alla sequela (cf. Mc 1,16.19);
sguardo che sa vedere la fede in chi gli porta un paralitico su una barella (cf. Mc 2,5) o tocca di nascosto il suo mantello (cf. Mc 5,31-32);
sguardo che vede con compassione una folla come pecore senza pastore (cf. Mc 6,34) o vede i suoi discepoli esauriti per il remare nella tempesta (cf. Mc 6,48).
Non va infine sottovalutata l’annotazione di Marco riguardo a Gesù che, entrato trionfalmente a Gerusalemme, “verso sera, dopo aver guardato ogni cosa attorno, uscì con i Dodici verso Betania” (Mc 11,11). Quello di Gesù è anche un guardare attorno, uno sguardo che egli fa circolare, come se volesse cercare con gli occhi, leggendo il cuore dei suoi interlocutori o indicando in loro i destinatari delle sue parole (cf. Mc 3,5.34; 5,32; 10,23).
3. L’incontro con il giovane ricco e gli sguardi di Gesù su di lui e sui discepoli
Il brano dell’incontro tra Gesù e il giovane ricco è particolarmente eloquente sul vedere di Gesù. Cerchiamo dunque di commentarlo accuratamente, facendo seguire a esso anche qualche annotazione sugli sguardi rivolti da Gesù ai discepoli che lo attorniano.
  1. Prima scena: “Gesù, fissato lo sguardo su di lui, lo amò” (Mc 10,17-22)
Un tale di cui Marco non specifica l’identità, in modo che ognuno di noi possa riconoscersi in lui, corre e si inginocchia davanti a Gesù che è in cammino, per interrogarlo, per porgli domande (cf. Mc 10,17). Appare così una persona che cerca con passione, infatti corre, e cerca qualcuno, un maestro, perché lo aiuti nella sua ricerca – diremmo oggi – di senso: “Che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?” (ibid.). È uno che, per lo meno, ha venerazione per i “maestri”, gli “in-segnanti”, quelli che fanno segno, che sanno indicare la via, e forse ha sentito parlare di Gesù. Per questo si inginocchia davanti a lui e lo chiama: “Didáskale agathé”, “Maestro buono” (ibid.), dunque maestro capace di amore, e così gli confessa un grande riconoscimento.
Gesù però non gli risponde subito, anzi gli pone una contro-domanda, chiedendogli consapevolezza delle parole da lui dette e rimandandolo a se stesso: “Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo” (Mc 10,18). C’è una motivazione che ispira costui a definire Gesù “buono”? Perché in verità tutti gli uomini sono cattivi (cf. Mt 7,11Lc 11,13). Basta conoscere i comandamenti per rendersi conto di quanto ogni uomo, ogni donna sia mancante; soprattutto ascoltando i comandamenti della seconda tavola della Legge, riguardanti il rapporto tra ciascuno di noi e gli altri (cf. Es 20,12-16Dt 5,16-20), è facile discernere la presenza della malvagità nell’uomo. Gesù dunque ricorda al suo interlocutore questi comandi, di cui cinque negativi e uno positivo (cf. Mc 10,19). Ecco il terreno su cui interrogarsi per orientarsi verso il bene, per conoscere la strada su cui si cammina, per trovare l’eredità della vita eterna, il Regno di Dio, la vita per sempre con lui. Nel vangelo secondo Matteo non si dirà forse che ognuno sarà giudicato sul suo rapporto con gli altri (cf. Mt 25,31-46)? E l’Apostolo Paolo non ricorderà forse i comandamenti, in una perfetta corrispondenza con le parole rivolte da Gesù a questo tale (cf. Rm 13,8-9)?
Quest’uomo che interroga Gesù deve interrogare se stesso, deve comprendere che la bontà che Dio vuole è la bontà verso gli altri, e che il male che Dio non vuole è il male che facciamo agli altri. Ogni comando di Dio è dato perché l’uomo si umanizzi, diventi più buono, tenda all’amore, pienezza di tutta la Legge (cf. Rm 13,9-10Gal 5,14). Ma di fronte a queste parole di Gesù, quest’uomo pieno di zelo, forse “giovane” – come lo definisce Matteo (Mt 19,20) –, afferma con una certa ingenuità: “Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza” (Mc 10,20). Ha tentato di osservarle – diciamo noi – e l’ha fatto con zelo, con convinzione, con spirito di obbedienza. Gesù, che conosce ogni uomo (cf. Gv 2,24-25), sa che in verità questo giovane non ha osservato pienamente la Legge, ma, accogliendo quella sua convinzione generosa, entra in una relazione più profonda con lui.
A questo punto Marco – e solo lui – scrive: “Allora Gesù, fissato lo sguardo su di lui, lo amò”, “ho de Iesoûs emblépsas autô egápesen autòn” (Mc 10,21). Attraverso il guardare, il fissare lo sguardo, Gesù vuole comunicare in modo più profondo con quel giovane, vuole che egli “si senta visto” (esperienza per ognuno di noi straordinaria e decisiva, quando avviene veramente!), si senta conosciuto nel suo cuore, si senta accolto. Di fatto Gesù mostra al giovane di essere come lui lo ha chiamato, “buono”, capace di amore, di essere come il Signore che “guarda il cuore”, che discerne in profondità, non come l’uomo che guarda l’esteriorità (cf. 1Sam 16,7). Gesù guarda quell’uomo, vede che c’è fuoco sotto la cenere, soffia su quella cenere perché appaia la brace e arda il cuore, arda di amore, in modo che il suo amore incontri l’amore preveniente e gratuito donatogli da Gesù stesso. Sì, in questo modo di vedere che non è possessivo, che non abusa, ma è benevolo, pieno di affetto e gratuito, Gesù di fatto lo ama. Quel giovane si è sentito guardato e amato dal Signore: ecco il culmine del nostro brano evangelico! Per lui il volto di Gesù è diventato il volto di uno che offre attenzione e amore, sicché questi non vanno meritati, vanno solo accolti con stupore, perché sono la grazia. Quello sguardo di Gesù è stato come una carezza, come un bacio sulla bocca… bacio che il maestro dava al discepolo al tempo di Gesù: sulla bocca, come nel caso di Giuda (cf. Mc 14,45 e par.), o sul capo, come è testimoniato di altri rabbi. Potremmo leggere questo sguardo come fa Beda il Venerabile commentando lo sguardo di Gesù sul pubblicano Matteo (cf. Mt 9,9: “Vidit ergo Iesus publicanum, et quia miserando atque eligendo vidit, ait illi: Sequere me”. “Gesù vide il pubblicano, lo vide facendogli misericordia, e lo chiamò dicendogli: ‘Seguimi!’” (Omelie 21, CCL 122,150).
Siamo dunque al punto più profondo dell’incontro, della relazione tra Gesù e il giovane, dove è possibile dire quello che sarebbe indicibile senza aver raggiunto quell’intensità di comunicazione data dal vedere-essere visto, dall’amare-essere amato. E così ora Gesù può dirgli la verità più profonda: “Una cosa sola ti manca” (Mc 10,21). Se tu avessi tutto, allora il Signore sarebbe il tuo Pastore, ma ti manca una cosa sola per non mancare di nulla – “Il Signore è il mio Pastore, non manco di nulla” (Sal 23,1) –, perché il Signore è buono, e amore, e se si ha l’amore, si ha tutto!
Gesù non gli dice: “Sì, tutto va bene, ma se vuoi fare qualcosa di più, allora va’ e vendi i tuoi beni…”, ma gli dice: “Ti manca una cosa, lasciare tutto e seguire me” (cf. Mc 10,21). Ecco dove Gesù ha portato il giovane con il suo sguardo e il suo amarlo: a riconoscere che gli manca qualcosa, una sola, ma che dunque non può essere soddisfatto di se stesso. Egli deve ormai rispondere a quello sguardo, deve sentire che lo sguardo e l’amore di Gesù lo spingono a cambiare vita, a prendere un nuovo orientamento, a mutare i rapporti che ha con gli altri e con le cose, per poter seguire Gesù e aderire a lui. Seguire Gesù senza riserve, senza avere garanzie o vie di fuga, comporterà per tutti una decisione da cui non si può tornare indietro: se si hanno beni, si vendono e si danno ai poveri; se si ha una famiglia e la si abbandona; se si ha una professione e la si lascia, allora si può seguire Gesù senza nostalgie e senza indecisioni per scelte ancora da fare.
Ma a queste parole egli si fa triste e si tira indietro (cf. Mc 10,22). Non crede a quello sguardo, non crede a quell’amore di Gesù, e quindi non sa rispondere a Gesù. Nella sua ricerca di senso questo giovane pieno di zelo e di ardente desiderio è giunto alla possibilità di scegliere: non scegliere cosa fare, ma scegliere di essere e scegliere come trovare pienezza nella propria indigenza. Ma di fronte a quell’offerta di Gesù, offerta di rischiare l’amore, si rabbuia, cambia volto, si incupisce, e con la tristezza che lo domina se ne va di nuovo per la sua strada, lontano da Gesù, il maestro, rabbi, in-segnante, che aveva cercato per ricevere dei segni-segnali nella sua vita. Esce di scena “lupoúmenos, rattristato perché aveva molte ricchezze (pollá)” (Mc 10,22), troppe per essere libero di seguire Gesù. Tra il mettere la fede-fiducia in Gesù, rischiando la vita, e l’avere fiducia nelle ricchezze che possiede (o che forse lo possiedono!), preferisce questa seconda situazione, a cui è abituato… Scopriamo così che questo giovane in realtà osservava formalmente la Legge, ma non ne comprendeva né lo spirito né il télos. Nel cosiddetto Vangelo degli Ebrei si testimonia l’aggiunta di questo significativo inciso tra il v. 22 e il v. 23:
Allora il ricco si mise a grattarsi la testa e fu triste. E il Signore gli disse: “Come puoi dire: ho osservato la Legge e i Profeti? È scritto nella Legge: ‘Tu amerai il tuo prossimo come te stesso’ (Lv 19,17), ed ecco che un gran numero dei tuoi fratelli figli di Abramo sono vestiti di cenci e muoiono di fame mentre la tua casa è piena di beni in abbondanza e assolutamente nulla esce da essa per loro. E voltatosi verso Simone seduto accanto a lui disse: ‘Simone, figlio di Giona, è più facile per un cammello passare per la cruna di un ago che per un ricco entrare nel Regno dei cieli!’” (Origene, Commento al vangelo secondo Matteo 15,14).
Sì, quello sguardo di Gesù (emblépsas) ha raggiunto il giovane ricco, ma non è riuscito a liberarlo dalla prigione dell’avere per collocarlo nella libertà dell’essere.
  1. Seconda scena: “Gesù, volgendo lo sguardo attorno… Gesù, guardandoli in faccia…” (Mc 10,23-27)
Allora “Gesù, volgendo lo sguardo attorno, disse ai suoi discepoli: ‘Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio!’” (Mc 10,23). Ecco un altro modo di guardare da parte di Gesù: volge lo sguardo attorno (periblepsámenos). Guarda tutti i discepoli e le folle che lo ascoltano per dire loro una parola forte. Con lo sguardo percorre in modo circolare l’uditorio, come per rivolgersi a ciascuno dei presenti, e mette in guardia denunciando una difficoltà radicale della quale Gesù stesso sembra stupirsi: come sarà difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio. Ciò che è appena avvenuto, e si è concluso con l’andata via del giovane ricco, ne è una conferma.
Davvero la ricchezza è qualcosa che cattura la fiducia, la fede dell’uomo, è ciò che più facilmente si fa idolo e rende l’uomo idolatra (“l’avarizia è idolatria”: Col 3,5). Per questo Gesù ha chiamato la ricchezza “Mammona” (Mt 6,24Lc 16,13), utilizzando la parola aramaica mamon che ha nella sua radice proprio il verbo della fede, dell’“aderire con fiducia” (aman): perché sapeva che l’uomo fa affidamento su di essa più facilmente che su tutto il resto, più che sui vincoli di sangue, di vicinanza. Di fronte a ogni sorta di bisogno o di male la ricchezza appare come un possibile antidoto, come una via per contrastare il male o uscire dalla sofferenza. Diciamo la verità: in che cosa crede la gente? Nel denaro, e per questo giustamente Walter Benjamin in un suo scritto del 1921 osservava che “nell’accumulo di denaro, nel perseguire il profitto si deve vedere una forma di religione”. Non è un caso che più si aumentano i beni posseduti, meno si fa fiducia agli altri e all’Altro, Dio. I beni, il denaro o le cose determinano la mente e il cuore di chi li possiede, plasmano un modo di pensare e di sentirsi al mondo. Il benessere in cui uno vive, il potere di cui uno dispone, la vanità dell’ostentazione di ciò che si ha, rendono ciascuno di noi diverso, spingono a confidare, a mettere fiducia nei beni, fino a pensare che in queste condizioni è più facile salvarsi. Ecco l’inganno: salvarsi, e dunque non attendere più la salvezza da Dio!
I discepoli sono sconcertati da queste parole di Gesù sulla difficoltà dei ricchi a entrare nel Regno, ma Gesù, chiamandoli con dolcezza “figli” (téknaMc 10,24), ribadisce ciò che ha detto ricorrendo a un’immagine paradossale, quella del cammello che passa per la cruna di una ago. Ebbene, è più facile che avvenga questo (cf. Mc 10,25). L’animale più grande può forse passare per lo spazio più stretto? Ma questo è più facile rispetto all’entrare di un ricco nel Regno di Dio! Lo sbigottimento dei discepoli si fa ancora più grande, ed essi gli chiedono: “Ma allora chi può essere salvato? (Mc 10,26). Chi potrà entrare nel Regno?”. Gesù legge sul volto dei discepoli quello sgomento, quell’aporia: se è così, allora per gli uomini c’è possibilità di vita eterna?
Segue allora il terzo sguardo di Gesù, espresso con lo stesso verbo (e la stessa forma verbale, il participio) usato per il giovane ricco: emblépsas (Mc 10,27). Questa volta fissa lo sguardo sui discepoli soltanto, quasi per dire: “Mi rivolgo a voi, dunque non dovete temere”. Ed ecco la sua parola: “Impossibile agli uomini, ma non a Dio! Perché tutto è possibile a Dio” (ibid.). Gli uomini non possono dare la salvezza, anche se la cercano. L’uomo da sé non può dare senso, non può trovare ciò che fa salva la vita. Resta sempre con “qualcosa che gli manca”, come il giovane ricco; resta sempre inadeguato a raggiungere la pienezza e la beatitudine; resta un mendicante che ha bisogno di essere guardato e amato, ma guardato nel cuore, non come vedono gli uomini, e amato per sempre, senza meritare l’amore. Solo Dio è capace di questo, solo il Signore…
Riecheggiano allora le parole di uno dei tre messaggeri alle querce di Mamre, di fronte all’incredulità di Sara nella promessa di un figlio: “C’è forse qualche cosa d’impossibile per il Signore?” (Gen 18,14). Per il discepolo occorre seguire Gesù che prega dicendo: “Abba! Padre! Tutto è possibile a te” (Mc 14,36), occorre credere che tutto è possibile a Dio!
Conclusione
Questo brano evangelico ha attraversato i secoli ed è giunto fino a noi come racconto di vocazione di un giovane: una vocazione abortita, una vocazione mancata, con l’esito di una grande tristezza. Questo dice la forza della nostra pagina per ognuno che si fa discepolo, che incontra nella sua vita il Signore.
Ma io credo che questo testo riguardi non solo la vocazione di ciascuno di noi, bensì il nostro quotidiano, nel quale sempre cerchiamo il volto di Gesù che ci precede, lo sguardo di Gesù che ci discerne e ci parla. Gesù mi guarda, guarda ciascuno di noi, fissa lo sguardo sul nostro volto e guardandoci ci ama. Noi crediamo a questo sguardo? Siamo attenti a leggere questo sguardo nella sua gratuità, nel suo non voler sedurre, nel suo offrirci amore senza imporlo? Siamo disposti ad accogliere questa precedenza con cui il Signore ci ama e ci discerne, anche se noi non ci giudichiamo degni?
Queste sono domande serie implicate nella nostra preghiera, nella nostra assiduità con il Signore: la qualità della nostra relazione con il Signore si gioca qui… Qui, in questo incrocio di sguardi, quello del Signore e il mio, assumo o non assumo la capacità di vedere il Signore che mi guarda attraverso gli occhi del povero, il volto del sofferente, lo sguardo bisognoso dell’ultimo. È sempre questione di saper “vedere” e sapere cosa significhi “l’essere visti”.

Enzo Bianchi
Priore di Bose