mercoledì 7 febbraio 2018

«Quando andai a letto senza cena»





(Carlo Carretto) Sulle orme di Charles de Foucauld Pubblichiamo la prefazione al libro Padre mio mi abbandono a te. Un commento alla preghiera di Charles de Foucauld (Roma, Città Nuova editrice, 2017, pagine 176, euro 13) intitolata Carlo Carretto: un trovatore di Cristo, accompagnata dalla premessa dell’autore alla prima edizione, pubblicata nel 1975 sempre da Città Nuova, nella collana «Meditazioni».
Vorrei che gli amici che prenderanno in mano questo volumetto lo leggessero con serenità e possibilmente senza prevenzioni. Quando scrissi Famiglia piccola Chiesa capitò il putiferio. E dire che si trattava di un libro da educande, come tutti possono constatare ora. Non vorrei capitasse la stessa cosa ora solo perché dico cose che non siamo abituati a sentire. 
Tenete conto che ciò che scrivo in questo libro è vecchio come la Bibbia ed è, su un piano esegetico, di una semplicità da bambini. Può impressionare il parlare in un certo modo della Chiesa, ma ci tengo a dire con chiarezza che quella Chiesa di cui parlo sono io, siete voi, siamo tutti noi cristiani. Dopo il Concilio, quando si dice Chiesa non si intende solo il Vaticano, il vescovo, il parroco come capitava una volta, ma tutto il «Popolo di Dio». E il Popolo di Dio non si offende né si arrabbia se gli si dice che è un popolo di eminenti peccatori e che è l’ora di convertirsi specie quando capita l’Anno Santo. Non siamo più come al tempo della mia adolescenza quando, solo per aver detto in casa che Pio IX avrebbe fatto meglio a non scomunicare Cavour che aveva voluto l’unità d’Italia, mi presi un solenne ceffone da mia madre e finii a letto senza cena. Certi infantilismi dovrebbero già essere scomparsi dai nostri ambienti pii e devoti. E vorrei dire un’altra cosa: smettiamola con le geremiadi: i giovani sono perduti... non abbiamo più vocazioni... più nessuno viene in chiesa... è la fine di tutto... Non serve a nulla lamentarsi così, peggio, serve solo a passare male gli ultimi anni della nostra vita inaciditi come zitelle e avvelenati come vecchi cui l’impotenza dà fastidio. Volete un consiglio? Non diciamo più «tutto sta per crollare» ma diciamo — ed è vero — «tutto è già crollato», e vi accorgerete che è molto più interessante e lieto considerarsi costruttori di un domani nuovo che difensori di un passato ormai vecchio e compromesso. «Lasciate che i morti seppelliscano i loro morti» direbbe Gesù. Ora «tu va’ ad annunciare il Regno». E in fin dei conti non è affatto necessario pensare che è giunta la fine del mondo. Siamo alla fine di un’epoca e il bello è che ne comincia subito un’altra che — ai fini del Vangelo — sarà forse più interessante e feconda. 
Volete perdere un po’ del vostro pessimismo? Cercate di frequentare qualche Assemblea liturgica di una delle tante comunità di preghiera che stanno spuntando come funghi nel gran bosco della Chiesa di oggi. Assisterete a delle esplosioni di gioia e di fede che forse non sono più di casa nelle vecchie cattedrali di un tempo, troppo serie e compassate. Se poi vi capitasse di prender parte a delle liturgie di quelle comunità, nelle quali si canta la Parola di Dio e solo la Parola di Dio, ne uscirete convinti che la Chiesa è estremamente giovane e rinasce continuamente dalle ceneri del suo passato. 
Io dopo trent’anni di Azione cattolica e dieci anni di deserto mi sento davanti a queste comunità orbanti come un bambino che deve imparare ancora molte cose. Guarda un po’ — mi dico — questi ragazzacci di oggi, che sembrano così sprovveduti, hanno saltato a pie’ pari tutta la nostra retorica religiosa e con sensibilità infinitamente più matura mettono la musica solo sulla Parola di Dio. Ai nostri sgangherati Noi vogliam Dio o Mira il tuo popolo rispondono musicando Osea, Geremia, la Genesi, l’Esodo. Abbasso umilmente il capo, li ringrazio con vero affetto di fratello.  
Contro la malattia della paura (Pablo d’Ors) 
Al culmine della sua carriera professionale e pubblica, Carlo Carretto (1910-1988) decise di ritirarsi nel deserto. Disse che non riteneva che Dio avesse bisogno del suo agire o del suo parlare; disse che ciò che Dio voleva da lui era sicuramente la sua compagnia e la sua preghiera. E agì di conseguenza. Questo mi colpisce. La ritengo una scelta coerente e, in un certo senso, provocatoria. Mi fa pensare che potrei essere chiamato anch’io, in qualche modo, a qualcosa di simile. Questo è il massimo che uno scrittore e i suoi libri possano produrre: una messa in discussione della propria vita, un desiderio di cambiare, di essere una persona migliore, più fedele e più libera, più te stesso e di Dio.
Il presente libro, di cui mi è stato chiesto di redigere la prefazione, è stato scritto con il cuore, nessuno ne può dubitare È stato scritto non solo da uno spirito in ricerca, ma da qualcuno che, in un certo senso, ha trovato. Carlo Carretto — che avevo letto quando ero giovane e che ora ho avuto il privilegio di rileggere — scrive in modo colloquiale, come un amico che dice all’altro ciò che pensa. Non c’è nella sua prosa alcuna ricercatezza letteraria, bensì la mera intenzione di trasmettere, il più direttamente e semplicemente possibile, un’eredità e un’esperienza. 
Si tratta di un’opera in prosa, sebbene, nello scrivere con tanti punti e a capo, a prima vista il testo possa far pensare a un poema, come una specie di lunga poesia scritta partendo dal profondo del cuore di un credente e diretta al cuore della Chiesa. A mio avviso, solo uomini e donne di Chiesa potranno capire come si possa parlare — scrivere — con tanta passione della Chiesa. Il resto dei lettori non entrerà in questo libro, non lo sopporterà; lo riterrà estraneo ai propri interessi e alla propria sensibilità.
Per quanto riguarda il contenuto, Carretto — una delle voci religiose più popolari del nostro tempo — deplora la fissità di coloro che guardano con preoccupazione più al passato che al futuro. Nella Chiesa ci sono ovviamente tanti che continuano ad affermare che i giovani di oggi sono perduti, che ormai non ci sono più vocazioni, che pochi frequentano la messa... Per tutti loro Carretto, ormai stanco di questo discorso così pessimista, scrive invitando a guardare al domani («Il domani sarà migliore di oggi» è infatti una delle sue espressioni più emblematiche). 
Dopo trent’anni di militanza nell’Azione cattolica e dopo dieci anni nel deserto (dove scopre che quanto più hai bisogno della fede, meno la senti), la parola di questo scrittore e consacrato ci deve far riflettere, soprattutto per la sua attitudine: «Sono come un bambino che deve imparare», confessa. È bellissimo leggere una frase del genere.
L’impressione dell’autore è che la Chiesa, con cui si identifica e verso la quale professa un amore pressoché infinito, si trovi oggi nell’occhio del ciclone. Le sue risorse per attenersi a Cristo sono illimitate; ma la sua malattia può essere mortale, poiché è gravemente affetta dalla paura. Proprio quando non ci sarebbero ragioni valide per avere paura, alla luce della grande novità del concilio Vaticano II, è proprio ora che la Chiesa, i credenti, hanno, abbiamo, paura. «Se si chiude un seminario non mi viene in mente di dubitare che mi mancherà un prete a darmi l’Eucaristia», scrive Carretto. «Se si vende il Vaticano non tremo pensando che tutto è finito e che Dio è stato vinto dal male». 
Sì, queste pagine sono scritte a mo’ di un lungo esorcismo contro la paura. La voce del profeta Carretto si alza per denunciare chi alimenta il popolo con fiacche devozioni pietose, invece che con la forza della Parola della Scrittura. Questo profeta di questi nuovi tempi ci esorta a tornare a vivere secondo lo stile delle prime comunità cristiane, dove regnavano il servizio, l’impegno, la povertà e la carità.
Logicamente alla base di questo amore per la Chiesa c’è l’amore per il Padre, simile a una lezione di fiducia imparata da Carretto a forza di deserto e solitudine. «Se Dio è mio Padre — scrive — posso stare tranquillo e vivere in pace: sono assicurato per la vita e per la morte, per il tempo e per l’eterno». Perché se Dio è Padre — continua a scrivere — non posso concepire che quello che mi succede sia frutto del caso, bensì di un bellissimo disegno d’amore. Questo Dio Padre, così misericordioso, chiede all’uomo ciò che l’uomo chiede a Lui: «Nell’attesa del Regno, fa’ tu il regno. Nell’attesa di essermi figlio, fa’ tu da padre. Nell’attesa della giustizia e della pace, fa’ tu la giustizia e la pace (...). Vuoi essere perdonato, perdona. Vuoi essere sfamato, sfama. Vuoi essere liberato, libera».
E tutto questo come risulta evidente sin dal titolo del libro, a braccetto di Charles de Foucauld il più grande — e più piccolo — Padre del deserto contemporaneo, del quale Carlo Carretto si sente figlio spirituale. Perché qualsiasi grande uomo che voglia scrivere — per quanto piccolo o persino insignificante sia il suo aspetto — deve confrontarsi con i grandi uomini e i grandi testi. Carretto, dal canto suo, si confronta con Foucauld, sicuramente il più grande testimone di Gesù Cristo a cavallo tra il XIX e XX secolo, proprio per essere il più piccolo. Il Vangelo, in questo senso, è il libro sul quale ogni occidentale che voglia fare i conti con la propria cultura dovrebbe riflettere. Con costanti riferimenti a scene evangeliche, citazioni di lettere di san Paolo e allusioni a brani dell’Antico Testamento, Padre mio mi abbandono a te è permeato della forza dei libri biblici, per così dire. 
Naturalmente questa è una caratteristica che si ritrova in tutti i libri qualificabili come cristiani; ma forse non così chiaramente come in questo, in cui ogni singolo paragrafo trasuda spiritualità biblica. Leggiamo nella prefazione: «Ciò che scrivo in questo libro è vecchio come la Bibbia ed è, su un piano esegetico, di una semplicità da bambini».
Forse Carretto non ha desiderato fare altro, nel corso della sua vita, che rispecchiarsi nel Vangelo di Cristo. Forse ha avuto solo l’intento di rinnovare nella sua epoca la passione di fratel Carlo e di Gesù di Nazareth per l’ultimo posto. Per questo, leggendolo, si capisce quanto evangelicamente grande fu e continua ad essere Foucauld, la cui preghiera dell’abbandono è analizzata dall’autore capitolo per capitolo, estraendo da ogni singola parola implicazioni e conseguenze.
L’aspetto più importante è che questa preghiera, recitata per decenni, ha svelato a Carretto che la sua vita, la sua persona erano molto più povere di quanto immaginasse quando la lesse per la prima volta: «Queste semplici parole — dichiara — sono la proclamazione della più importante profezia che riguarda l’uomo e la risposta a tutti gli interrogativi posti al mistero della vita». A partire da questa preghiera — anche questo va ricordato — è stato scritto l’allegato incluso alla fine del volume, intitolato: Evangelizzazione e impegno politico, dove si illustra il carisma dei Piccoli Fratelli del Vangelo, una vocazione che sottolinea la predilezione per i più bisognosi.
Per concludere e a mo’ di sintesi vorrei dire che questo testo, sulla scia delle Confessioni di sant’Agostino, è stato scritto come un testamento che mette in luce la passione di un uomo per il suo Dio, eco evidente della passione di Dio per l’uomo, per quest’uomo. Con tono lirico, si tratta di un libro scritto a partire da una preghiera (la supplica dell’abbandono), come una preghiera (non sono poche le volte in cui l’autore interpella direttamente il grande Autore) e, comunque, per la preghiera, in quanto il volume richiede spesso al lettore d’essere chiuso per permettergli di elevare il proprio pensiero e la propria orazione a Dio.
È meravigliosa l’alternanza tra il tono intimo — proprio di chi ha compreso che Dio è amore — e quello sociale o profetico, poiché ripetutamente Carretto rimprovera la Chiesa e il mondo, chiedendogli e chiedendosi che cosa sia potuto accadere per farci ritrovare così lontani dalla vita, come mai abbiamo capito talmente poco, che cosa fare a questo punto...
Un libro carico di verità, semplicità, passione e ricerca. Un libro in cui si scorge, quasi in carne, proprio l’anima del suo autore: un trovatore di Cristo.
L'Osservatore Romano