venerdì 30 marzo 2018

Via Crucis al Colosseo presieduta dal Santo Padre Francesco. Preghiera del Santo Padre



Via Crucis al Colosseo presieduta dal Santo Padre Francesco. Preghiera del Santo Padre 
Sala stampa della Santa Sede 
Questa sera, alle ore 21.15, il Santo Padre Francesco ha presieduto al Colosseo il pio esercizio della “Via Crucis”, trasmesso in mondovisione. I testi delle meditazioni e delle preghiere proposte per quest’anno per le stazioni della Via Crucis sono stati preparati da un gruppo di giovani studenti di un liceo classico romano, coordinato dal prof. Andrea Monda. Riportiamo di seguito la preghiera composta dal Santo Padre, che Egli ha recitato al termine della Via Crucis.
Preghiera del Santo Padre
Signore Gesù, il nostro sguardo è rivolto a te, pieno di vergogna, di pentimento e di speranza.
Dinanzi al tuo supremo amore ci pervada la vergogna per averti lasciato solo a soffrire per i nostri peccati:
- la vergogna per essere scappati dinanzi alla prova pur avendoti detto migliaia di volte: “anche se tutti ti lasciano, io non ti lascerò mai”;

- la vergogna di aver scelto Barabba e non te, il potere e non te, l’apparenza e non te, il dio denaro e non te, la mondanità e non l’eternità;
- la vergogna per averti tentato con la bocca e con il cuore, ogni volta che ci siamo trovati davanti a una prova, dicendoti: “se tu sei il messia, salvati e noi crederemo!”;
- la vergogna perché tante persone, e perfino alcuni tuoi ministri, si sono lasciati ingannare dall’ambizione e dalla vana gloria perdendo la loro degnità e il loro primo amore;
- la vergogna perché le nostre generazioni stanno lasciando ai giovani un mondo fratturato dalle divisioni e dalle guerre; un mondo divorato dall’egoismo ove i giovani, i piccoli, i malati, gli anziani sono emarginati;
- Gesù, la vergogna di aver perso la vergogna;

Dinanzi alla tua suprema maestà si accende, nella tenebrosità della nostra disperazione, la scintilla della speranza perché sappiamo che la tua unica misura di amarci è quella di amarci senza misura;
- la speranza perché il tuo messaggio continua a ispirare, ancora oggi, tante persone e popoli a che solo il bene può sconfiggere il male e la cattiveria, solo il perdono può abbattere il rancore e la vendetta, solo l’abbraccio fraterno può disperdere l’ostilità e la paura dell’altro;
- la speranza perché il tuo sacrificio continua, ancora oggi, a emanare il profumo dell’amore divino che accarezza i cuori di tanti giovani che continuano a consacrarti le loro vite divenendo esempi vivi di carità e di gratuità in questo nostro mondo divorato dalla logica del profitto e del facile guadagno;
- la speranza perché tanti missionari e missionarie continuano, ancora oggi, a sfidare l’addormentata coscienza dell’umanità rischiando la vita per servire te nei poveri, negli scartati, negli immigrati, negli invisibili, negli sfruttati, negli affamati e nei carcerati;
- la speranza perché la tua Chiesa, santa e fatta da peccatori, continua, ancora oggi, nonostante tutti i tentativi di screditarla, a essere una luce che illumina, incoraggia, solleva e testimonia il tuo amore illimitato per l’umanità, un modello di altruismo, un’arca di salvezza e una fonte di certezza e di verità;
la speranza perché dalla tua croce, frutto dell’avidità e codardia di tanti dottori della Legge e ipocriti, è scaturita la Risurrezione trasformando le tenebre della tomba nel fulgore dell’alba della Domenica senza tramonto, insegnandoci che il tuo amore è la nostra speranza.

Signore Gesù, dacci sempre la grazia della santa speranza!
Aiutaci,  Figlio dell’uomo, a spogliarci dall’arroganza del ladrone posto alla tua sinistra e dei miopi e dei corrotti, che hanno visto in te un’opportunità da sfruttare, un condannato da criticare, uno sconfitto da deridere, un’altra occasione per addossare sugli altri, e perfino su Dio, le proprie colpe.
Ti chiediamo invece, Figlio di Dio, di immedesimarci col buon ladrone che ti ha guardato con occhi pieni di vergogna, di pentimento e di speranza; che, con gli occhi della fede, ha visto nella tua apparente sconfitta la divina vittoria e così si è inginocchiato dinanzi alla tua misericordia e con onestà ha derubato il paradiso! Amen!

Nelle feste di Pesah e di Pasqua. La centralità della redenzione



di Abraham Skorka 

Le feste di Pesah e di Pasqua, come pure lo shabbat e la domenica, Shavuot e Pentecoste, mostrano parallelismi molto evidenti tra l’ebraismo e il cristianesimo. Le prime due sono però quelle più strettamente connesse, e fu nel 325, al concilio di Nicea, che la loro data di celebrazione venne formalmente separata, anche se alcune frange cristiane (i cosiddetti quartodecimani, il cui nome deriva dal quattordicesimo giorno del mese ebraico di nisan) continuarono a farla coincidere fino al v secolo. Etimologicamente il latino pascha deriva dal greco pascha, che traslittera l’aramaico derivante dall’ebraico Pesah.
L’elemento fondamentale che caratterizza entrambe le celebrazioni è, sia per gli ebrei sia per i cristiani, la redenzione. Il racconto dell’uscita dei figli d’Israele dalla terra d’Egitto, dove erano stati ridotti in schiavitù, deve servire da paradigma, per le generazioni di tutti i tempi, della lotta che ogni individuo e ogni popolo come unità devono sostenere per superare tutte quelle bassezze che schiavizzano lo spirito.
Nell’Esodo (6, 6-8) si racconta con le parole di Dio il progetto di liberazione dei figli d’Israele dall’Egitto. Prima li libererà dall’oppressione degli egiziani, poi li riscatterà dalla schiavitù e infine li redimerà. Allora saranno considerati da Dio come suo popolo, per farli infine giungere alla terra promessa. La redenzione è lo stato in cui lo schiavo non solo supera la sua condizione di vassallaggio fisico, ma acquisisce una coscienza nuova, dove non ci sono pretesti per imporre una condizione di sfruttamento al prossimo né per essere nuovamente schiacciati da qualsiasi tipo di asservimento.
L’uscita dall’Egitto deve essere ricordata, da ogni ebreo, non solo a Pesah, ma tutti i giorni della vita (cfr. Deuteronomio 16, 3) in quanto, oltre a indicare la vicinanza e la preoccupazione di Dio per l’uomo e il suo coinvolgimento nella storia, conserva il messaggio di libertà profonda che l’essere umano deve acquisire per servire pienamente Dio. Essere servi di Dio e non dei propri simili è l’ideale biblico (cfr. Levitico 25). Questo messaggio è stato trasmesso di generazione in generazione, da grandi profeti e maestri che in alcuni casi, come Isaia e Amos, lo ricrearono e approfondirono.
Grazie a Gesù e a tutti coloro che si sono ispirati alla sua predicazione e alla sua opera questo messaggio ha raggiunto molti popoli e nazioni. Al di là dei molteplici aspetti che differenziano l’ebraismo dal cristianesimo, ebrei e cristiani sono uniti dalla fede nel fatto che l’umanità possa essere redenta e dall’invito a prodigarsi per un mondo migliore.
L’analisi delle possibilità e dei modi per superare le pulsioni distruttive insite nella natura umana, elemento fondamentale in ogni processo di redenzione, ha preoccupato due brillanti menti dello scorso secolo, Einstein e Freud. Lo testimonia lo scambio epistolare (Warum Krieg?) che rivela le loro meditazioni su questo problema che affligge l’uomo da quando Caino assassinò suo fratello Abele. Non erano osservanti; uno credeva in un Dio secondo la struttura filosofica di Spinoza, l’altro analizzava l’atteggiamento religioso attraverso il suo schema interpretativo della psiche dell’uomo. La dimensione ebraica di entrambi si manifestava nella loro preoccupazione per la dignità dell’individuo e per il superamento delle miserie che comportano le guerre e le schiavitù. Le loro opinioni sono prevalentemente intellettuali, basate su motivi ben fondati, ma la loro inquietudine per il futuro ha a che vedere con l’impegno di entrambi per quei valori tanto cari all’ebraismo.
A unirci a questi intellettuali sono proprio la fede e la lotta per quei valori, ma a differenziarci è la dimensione dell’amore che la concezione biblica insegna ad aggiungere a quella dell’intelletto. Il Dio della Torah chiede di agire con giustizia e misericordia, ma il passaggio ultimo per avvicinarsi a lui è quello dell’amore. Il rapporto con il prossimo si deve costruire dopo aver imparato l’autostima che ci insegna ad amarci, al fine di amarlo come noi stessi (cfr. Levitico 19, 18). L’eccessivo positivismo, dove l’amore si confonde con il mero piacere invece di considerarlo una delle forze vitali che nobilitano la condizione umana, probabilmente ha provocato i disastri del secolo passato. Pesah e Pasqua indicano il rispetto con cui l’individuo deve trattare se stesso e il prossimo, poiché in ognuno c’è una scintilla del creatore, che sa manifestarsi pienamente attraverso tale sentimento.
Molto tempo è trascorso dall’uscita dall’Egitto e quasi due millenni dalla presenza di Gesù su questa terra, secoli durante i quali guerre, genocidi, crimini e un’infinità di atrocità hanno afflitto l’umanità. La proposta di redenzione formulata all’uomo sembrerebbe aver fallito. È tuttavia giunta fino ai nostri giorni, e questo ci indica che, sebbene non si sia potuta ancora realizzare, la fede e la speranza della sua realizzazione nel futuro sono indispensabili per trovare il senso dell’esistenza e le vie che ci avvicinano al creatore.

L'Osservatore Romano

Giovanni testimone della croce



"Non si tratta dunque di rinunciare alle gioie dell’amore, all’attrazione e all’eros, ma di sapere unire all’eros l’agape, al desiderio dell’altro, la capacità di donarsi all’altro, ricordando quello che san Paolo riferisce come un detto di Gesù: «C’è più gioia nel dare che nel ricevere» (Atti degli apostoli, 20, 35)" 
Celebrazione della Passione. Nel pomeriggio del 30 marzo, venerdì santo, Papa Francesco presiede nella basilica vaticana la celebrazione della Passione del Signore. Dopo la proclamazione del vangelo di Giovanni (18, 1 - 19, 42), il predicatore della Casa Pontificia tiene l’omelia che pubblichiamo integralmente in questa pagina.
(Raniero Cantalamessa) «Venuti da Gesù, vedendo che era già morto, non gli spezzarono le gambe, ma uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua. Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera; egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate (Giovanni, 19, 33-35).

Nessuno potrà mai convincerci che questa solenne attestazione non corrisponda alla verità storica, che chi dice di essere stato lì e di aver visto, in realtà non c’era e non ha visto. Ne va, in questo caso, dell’onestà dell’autore. Sul Calvario, ai piedi della croce, c’era la madre di Gesù e, accanto a lei, “il discepolo che Gesù amava”. Abbiamo un testimone oculare!
Egli “ha visto” non solo quello che accadeva sotto lo sguardo di tutti. Nella luce dello Spirito Santo, dopo la Pasqua, ha visto anche il senso di quello che era accaduto: che in quel momento veniva immolato il vero Agnello di Dio e si compiva il senso della Pasqua antica; che Cristo sulla croce era il nuovo tempio di Dio, dal cui fianco, come aveva predetto il profeta Ezechiele (47, 1 ss.), sgorga l’acqua della vita; che lo spirito che egli emette al momento della morte dà inizio alla nuova creazione, come “lo spirito di Dio”, aleggiando sulle acque, aveva trasformato all’inizio il caos nel cosmo. Giovanni, ha capito il senso delle ultime parole di Gesù: “Tutto è compiuto” (Giovanni, 19, 30).
Ma perché, ci domandiamo, questa illimitata concentrazione di significato sulla croce di Cristo? Perché questa onnipresenza del Crocifisso nelle nostre chiese, sugli altari e in ogni luogo frequentato da cristiani? Qualcuno ha suggerito una chiave di lettura del mistero cristiano, dicendo che Dio si rivela sub contraria specie, sotto il contrario di quello che egli è in realtà: rivela la sua potenza nella debolezza, la sua sapienza nella stoltezza, la sua ricchezza nella povertà…
Questa chiave di lettura non si applica alla croce. Sulla croce Dio si rivela sub propria specie, per quello che egli è, nella sua realtà più intima e più vera. «Dio è agape», scrive Giovanni (1 Giovanni, 4, 10), amore oblativo, e soltanto sulla croce diviene manifesto fin dove si spinge questa infinita capacità di auto-donazione di Dio. «Avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine» (Giovanni, 13, 1); «Dio ha tanto amato il mondo da dare (alla morte!) il Figlio unigenito» (Giovanni, 3, 16); «Mi ha amato e ha consegnato (alla morte!) se stesso per me» (Galati, 2, 20).
Nell’anno in cui la Chiesa celebra un sinodo sui giovani e vuole metterli al centro della propria preoccupazione pastorale, la presenza sul Calvario del discepolo che Gesù amava racchiude uno speciale messaggio. Abbiamo tutti i motivi per credere che Giovanni aderì a Gesù quando era ancora assai giovane. Fu un vero e proprio innamoramento. Tutto il resto passò di colpo in seconda linea. Fu un incontro “personale”, esistenziale. Se al centro del pensiero di Paolo c’è l’operato di Gesù, il suo mistero pasquale di morte e risurrezione, al centro del pensiero di Giovanni c’è l’essere, la persona di Gesù. Di qui tutti quegli “Io sono” dalle risonanze eterne che punteggiano il suo Vangelo: “Io sono la via, la verità e la vita”, “Io sono la luce”, “Io sono la porta”, “Io sono”, e basta.
Giovanni era quasi certamente uno dei due discepoli del Battista che, al comparire sulla scena di Gesù, andarono dietro a lui. Alla loro domanda: “Rabbì, dove abiti?”, Gesù rispose: “Venite e vedete”. «Andarono dunque e quel giorno rimasero con lui; erano circa le quattro del pomeriggio» (Giovanni, 1, 35-39). Quell’ora aveva deciso della sua vita e non l’aveva più dimenticata.
Giustamente ci si sforzerà, in questo anno, di scoprire insieme con loro, che cosa Cristo si aspetta dai giovani, cosa essi possono dare alla Chiesa e alla società. La cosa più importante, però, è un’altra: è far conoscere ai giovani ciò che Gesù ha da dare a essi. Giovanni lo scoprì stando con lui: “gioia piena” e “vita in abbondanza”.
Facciamo in modo che in tutti i discorsi sui giovani e ai giovani risuoni in sottofondo l’accorato invito del Santo Padre nella Evangelii gaudium: «Invito ogni cristiano, in qualsiasi luogo e situazione si trovi, a rinnovare oggi stesso il suo incontro personale con Gesù Cristo o, almeno, a prendere la decisione di lasciarsi incontrare da Lui, di cercarlo ogni giorno senza sosta. Non c’è motivo per cui qualcuno possa pensare che questo invito non è per lui» (nr. 3). Incontrare personalmente Cristo è possibile anche oggi perché egli è risorto; è una persona viva, non un personaggio. Tutto è possibile dopo questo incontro personale; nulla senza di lui cambierà veramente nella vita.
Oltre l’esempio della sua vita, l’evangelista Giovanni ha lasciato anche un messaggio scritto ai giovani. Nella sua prima Lettera leggiamo queste commoventi parole di un anziano ai giovani delle chiese da lui fondate: «Scrivo a voi, giovani, perché siete forti e la parola di Dio rimane in voi e avete vinto il Maligno. Non amate il mondo, né le cose del mondo!» (1 Giovanni, 2, 14-15).
Il mondo che non dobbiamo amare e al quale non dobbiamo conformarci non è, lo sappiamo, il mondo creato e amato da Dio, non sono gli uomini del mondo ai quali, anzi, dobbiamo andare sempre incontro, specialmente ai poveri, agli ultimi. Il “mescolarsi” con questo mondo della sofferenza e dell’emarginazione è, parados salmente, il miglior modo di “separarsi” dal mondo, perché è andare là, da dove il mondo rifugge con tutte le sue forze. È separarsi dal principio stesso che regge il mondo, che è l’egoismo.
No, il mondo da non amare è un altro; è il mondo come esso è diventato sotto il dominio di satana e del peccato, “lo spirito che è nell’aria” lo chiama san Paolo (Efesini, 2, 1-2). Un ruolo decisivo svolge in esso l’opinione pubblica, oggi anche letteralmente spirito “che è nell’aria” perché si diffonde via etere attraverso le infinite possibilità della tecnica. «Si determina uno spirito di grande intensità storica, a cui il singolo difficilmente può sottrarsi. Ci si attiene allo spirito generale, lo si reputa ovvio. Agire o pensare o dire qualcosa contro di esso è considerato cosa insensata o addirittura un’ingiustizia o un delitto. Allora non si osa più porsi di fronte alle cose e alle situazioni e soprattutto alla vita in modo diverso da come esso le presenta» (Heinrich Schlier, Demoni e spiriti maligni nel Nuovo Testamento, in Riflessioni sul Nuovo Testamento, Brescia, Paideia, 1976, pagine 194 ss).
È quello che chiamiamo adattamento allo spirito dei tempi, conformismo. Un grande poeta credente del secolo scorso, Thomas Stearns Eliot, ha scritto tre versi che dicono più di interi libri: «In un mondo di fuggitivi, la persona che prende la direzione opposta sembrerà un disertore» (Family Reunion, part. II, sc. 2: «In a world of fugitives / The person taking the opposite direction / Will apeear to run away»). Cari giovani cristiani, se è permesso a un anziano come Giovanni rivolgersi direttamente a voi, vi esorto: siate di quelli che prendono la direzione opposta! Abbiate il coraggio di andare contro corrente! La direzione opposta, per noi, non è un luogo, è una persona, è Gesù nostro amico e redentore.
Un compito è in particolare affidato a voi: salvare l’amore umano dalla deriva tragica nella quale è finito: l’amore che non è più dono di sé, ma solo possesso — spesso violento e tirannico — dell’altro. Sulla croce Dio si è rivelato come agape, l’amore che si dona. Ma l’agape non è mai disgiunta dall’eros, dall’amore di ricerca, dal desiderio e dalla gioia di essere riamato. Dio non ci fa solo la “carità” di amarci; ci desidera, in tutta la Bibbia si rivela come sposo innamorato e geloso. Anche il suo è un amore “erotico”, nel senso nobile di questo termine. È quello che ha spiegato Benedetto XVI nell’enciclica Deus caritas est: «Eros e agape, — amore ascendente e amore discendente — non si lasciano mai separare completamente l’uno dall’altro […]. La fede biblica non costruisce un mondo parallelo o un mondo contrapposto rispetto a quell’originario fenomeno umano che è l’amore, ma accetta tutto l’uomo intervenendo nella sua ricerca di amore per purificarla, dischiudendogli al contempo nuove dimensioni» (nr. 7-8).
Non si tratta dunque di rinunciare alle gioie dell’amore, all’attrazione e all’eros, ma di sapere unire all’eros l’agape, al desiderio dell’altro, la capacità di donarsi all’altro, ricordando quello che san Paolo riferisce come un detto di Gesù: «C’è più gioia nel dare che nel ricevere» (Atti degli apostoli, 20, 35).
È una capacità che non si inventa in un giorno. È necessario prepararsi a far dono totale di se stessi a un’altra creatura nel matrimonio, o a Dio nella vita consacrata, cominciando a far dono del proprio tempo, del proprio sorriso e della propria giovinezza in famiglia, nella parrocchia, nel volontariato. Ciò che tanti di voi silenziosamente fanno.
Gesù sulla croce non ci ha dato solo l’esempio di un amore di donazione spinto fino all’estremo; ci ha meritato la grazia di poterlo emitare, in piccola parte, nella nostra vita. L’acqua e il sangue sgorgati dal suo costato arrivano a noi oggi nei sacramenti della Chiesa, nella Parola, anche solo guardando con fede il Crocifisso. Un’ultima cosa Giovanni ha visto profeticamente sotto la croce: uomini e donne di ogni tempo e di ogni luogo che volgevano lo sguardo a “colui che è stato trafitto” e piangevano di pentimento e di consolazione (cfr. Giovanni, 19, 37; Zaccaria, 12, 10). A essi ci uniamo anche noi nei gesti liturgici che fra poco seguiranno.

L'Osservatore Romano

giovedì 29 marzo 2018

Maria Addolorata e le donne di tutti i tempi.



Maria Addolorata e le donne di tutti i tempi. Il senso della maternità

(Mario Grech) Quando durante questa settimana il nostro sguardo si ferma su Maria Addolorata, vediamo una donna che soffre perché donna. Maria non sarebbe mai l’Addolorata se non avesse il corpo senza vita di Gesù tra le braccia. La vera ragione per la quale Maria è afflitta dal dolore sta nel fatto che la carne che tiene tra le braccia è anche la sua. C’erano altri — i suoi discepoli e amici — che hanno sofferto quando videro Cristo soffrire, però la sofferenza di Maria è unica perché è la sofferenza di una donna. I suoi dolori sono il prezzo che ha pagato per la maternità. Come dice Victor Hugo: «Non esiste conforto per una madre che soffre. La maternità non conosce limiti e ragionamenti. La madre è sublime perché è tutta istinto».
Questo ricorda Rachele, la moglie di Giacobbe. Non potendo diventare madre, Rachele comincia a sperimentare l’invidia per sua sorella, e volgendosi a Giacobbe gli dice: «Dammi dei figli, se no io muoio!» (Genesi, 30, 1). Lutero, commentando questo brano dice: «Non mi pare che abbia mai letto qualcosa che assomigli a questa storia. Rachele, tanto desiderosa di avere figli, preferisce la morte alla sterilità» (In Genesim Enarrationes). Dio ha esaudito la supplica di Rachele: dopo la nascita di Giuseppe, è rimasta incinta un’altra volta, ma con un prezzo altissimo, tanto che ha scelto di morire per dare la vita al figlio Benoni (Beniamino). Quando interpreta questo fatto, il profeta dice: «Una voce si ode da Rama,  lamento e pianto amaro:  Rachele piange i suoi figli, rifiuta d’essere consolata perché non sono più» (Geremia, 31, 15). Qui Rachele rappresenta tutte le madri che piangono i loro figli, anch’essi in un certo senso morti, non sono più. Anche l’evangelista Matteo riferisce il lamento di Rachele per evocare il dolore delle madri che hanno perso i loro figli quando al tempo in cui nacque Gesù, Erode mandò i soldati a uccidere tutti i figli maschi sotto i due anni di età (Matteo 2, 16-18). Il fatto che in questi tre episodi la Bibbia ci dica che la madre rifiuta di essere consolata, ci aiuta a percepire la profondità del dolore della madre che perde un figlio. Di fronte alla tragedia della perdita di un figlio, non ci sono né gesti né parole che possano consolarla; le nostre parole non potrebbero mai lenire quella ferita, perché il dolore della madre è proporzionato all’amore con il quale si lega ai suoi figli. Tutto ciò lo possiamo applicare alla Madonna. L’evangelista Giovanni non dice niente sullo stato interiore di Maria, e nemmeno ci dice se ella ha pianto quando il corpo di Gesù morto fu posato tra le sue braccia. In un certo senso ha ragione sant’Ambrogio a dire: «Nel vangelo leggo che Maria era lì, però non penso che abbia pianto». Però se ammettessimo che Maria non pianse perché era impassibile, la esalteremmo come gli angeli, e nel contempo la spoglieremmo della sua umanità. Nell’inno Stabat Mater Maria è descritta «in lacrime presso la croce». Come conseguenza della sua maternità, Maria non solo ha pianto per la morte di Gesù, ma è possibile immaginare che, come Rachele, abbia detto: «Rifiuto d’essere consolata perché mio Figlio non è più!».
Per questo non è possibile non ascoltare quelle madri che — come Rachele, come le madri di quanti sono stati trascinati nell’esilio, come le madri dei bambini uccisi da Erode, come Maria Addolorata — oggi soffrono la perdita dei loro figli: le donne che hanno sepolto un figlio ucciso dalla malattia; che non hanno più visto un figlio dopo un incidente stradale; coloro che hanno perso un figlio per via della droga; coloro che hanno perso un bambino per un aborto naturale; coloro che hanno rimosso il bambino dal loro stesso ventre, e oggi non trovano più consolazione; le madri della Siria, che hanno testimoniato la morte dei figli in guerra; la madri africane i cui figli sono annegati nel Mediterraneo mentre cercavano un futuro; quelle che si sono sottoposte a un intervento chirurgico per rimuovere la possibilità della maternità e oggi rimpiangono la loro scelta. 
Maria è la madre di Gesù e come ogni madre mantiene il cordone attaccato a suo figlio, anche se egli fisicamente si separa. Il cordone rimane attaccato anche se il figlio muore. Il legame naturale tra la madre e i suoi figli conferma che la maternità è un dono bellissimo. Una volta che la donna diventa madre, rimane madre per sempre. Come scrive Papa Francesco: «Le madri sono l’antidoto più forte al dilagare dell’individualismo egoistico. […] Sono esse a testimoniare la bellezza della vita.  Senza dubbio, una società senza madri sarebbe una società disumana, perché le madri sanno testimoniare sempre, anche nei momenti peggiori, la tenerezza, la dedizione, la forza morale. Le madri trasmettono spesso anche il senso più profondo della pratica religiosa: nelle prime preghiere, nei primi gesti di devozione che un bambino impara […]. Senza le madri, non solo non ci sarebbero nuovi fedeli, ma la fede perderebbe buona parte del suo calore semplice e profondo. […] Carissime mamme, grazie, grazie per ciò che siete nella famiglia e per ciò che date alla Chiesa e al mondo» (Udienza generale, 7 gennaio 2015). È da apprezzare che la fecondità e la maternità siano valori che stanno a cuore alla maggior parte del nostro popolo; ma quando la cultura antiumanista solleva la testa, questi valori vanno curati e tenuti a cuore ancora di più, particolarmente quando si diffonde l’opinione che la maternità sia un ostacolo per l’affermazione della donna. C’è odore di narcisismo quando si dice che la maternità è un attentato contro il genio femminile. La donna che vuole promuovere la sua dignità, farebbe molto bene a guardarsi dal rischio di rinunciare alla maternità.
La maternità è una vocazione femminile e se si vogliono fare scelte a favore della donna bisogna aiutare la donna a soddisfare questa vocazione. Come dice san Giovanni Paolo II: «La stessa costituzione fisica della donna e il suo organismo contengono in sé la disposizione naturale alla maternità, al concepimento, alla gravidanza e al parto del bambino, in conseguenza dell’unione matrimoniale con l’uomo» (Mulieris dignitatem, 18). Perciò è un desiderio santo che la donna, come Rachele, aneli ad avere figli. La maternità va aiutata nel rispetto dei principi etici e morali. La maternità possiede un valore sociale, ed è importante che la fertilità sia parte della politica sanitaria ed educativa.
La maternità è un’esperienza del tutto personale e non ha prezzo. Il concetto di maternità surrogata è davvero un’offesa grave alla dignità della donna. Con la scusa del desiderio dei figli, oggi si realizza la possibilità dell’utero in affitto. Ciò non è nient’altro che un fenomeno capitalista e una prostituzione riproduttiva. In aggiunta, la maternità non è solamente biologica, ma si esprime in diversi modi come l’adozione e il fostering. «Adottare è l’atto d’amore di donare una famiglia a chi non l’ha. È importante insistere affinché la legislazione possa facilitare le procedure per l’adozione, soprattutto nei casi di figli non desiderati, al fine di prevenire l’aborto o l’abbandono» (Amoris laetitia, 179). 
Un altro aspetto importante, in questo progetto a favore della donna e della vita umana, è fare crescere la cultura della donazione e della generosità. Molte volte, l’egoismo porta l’uomo a essere gretto con la vita. Così le misure sociali a favore dei genitori che fanno nascere nuovi figli non sono un compenso per il fatto che sono diventati madri o padri, ma un’azione di giustizia sociale.
Quando contempliamo Maria Addolorata, in questo momento speciale della sua vocazione materna, ascoltiamo ciò che dice Dio a Rachele: «Trattieni la voce dal pianto, i tuoi occhi dal versare lacrime, perché c’è un compenso per le tue pene. C’è una speranza per la tua discendenza» (Geremia, 31, 16). Il pianto della madre tocca il cuore di Dio e lo spinge a riportare i figli dall’esilio. Il pianto e il dolore di Maria diventano una preghiera di fronte a Gesù Crocifisso, affinché continuiamo ad avere a cuore il dono della maternità, fonte della vita.

L'Osservatore Romano

Santa Messa in Coena Domini. Omelia del Santo Padre Francesco



Santa Messa in Coena Domini. Omelia del Santo Padre Francesco. Casa Circondariale "Regina Coeli" in Roma
vatican.va 

Gesù finisce il suo discorso dicendo: “Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi” (Gv 13,15). Lavare i piedi. I piedi, in quel tempo, erano lavati dagli schiavi: era un compito da schiavo. La gente percorreva la strada, non c’era l’asfalto, non c’erano i sampietrini; in quel tempo c’era la polvere della strada e la gente si sporcava i piedi. E all’entrata della casa c’erano gli schiavi che lavavano i piedi. Era un lavoro da schiavi. Ma era un servizio: un servizio fatto da schiavi. E Gesù volle fare questo servizio, per darci un esempio di come noi dobbiamo servirci gli uni gli altri.
Una volta, quando erano in cammino, due dei discepoli che volevano fare carriera, avevano chiesto a Gesù di occupare dei posti importanti, uno alla sua destra e l’altro alla sinistra (cfr Mc 10,35-45). E Gesù li ha guardati con amore – Gesù guardava sempre con amore – e ha detto: “Voi non sapete ciò che domandate” (v. 38). I capi delle Nazioni – dice Gesù – comandano, si fanno servire, e loro stanno bene (cfr v.42). Pensiamo a quell’epoca dei re, degli imperatori tanto crudeli, che si facevano servire dagli schiavi … Ma fra voi – dice Gesù –  non deve essere lo stesso: chi comanda deve servire. Il capo vostro deve essere il vostro servitore (cfr. v.43). Gesù capovolge l’abitudine storica, culturale di quell’epoca – anche questa di oggi – colui che comanda, per essere un bravo capo, sia dove sia, deve servire. Io penso tante volte – non a questo tempo perché ognuno ancora è vivo e ha l’opportunità di cambiare vita e non possiamo giudicare, ma pensiamo alla storia – se tanti re, imperatori, capi di Stato avessero capito questo insegnamento di Gesù e invece di comandare, di essere crudeli, di uccidere la gente avessero fatto questo, quante guerre non sarebbero state fatte! Il servizio: davvero c’è gente che non facilita questo atteggiamento, gente superba, gente odiosa, gente che forse ci augura del male; ma noi siamo chiamati servirli di più. E anche c’è gente che soffre, che è scartata dalla società, almeno per un periodo, e Gesù va lì a dir loro: Tu sei importante per me. Gesù viene a servirci, e il segnale che Gesù ci serve oggi qui, al carcere di Regina Coeli, è che ha voluto scegliere 12 di voi, come i 12 apostoli, per lavare i piedi. Gesù rischia su ognuno di noi. Sappiate questo: Gesù si chiama Gesù, non si chiama Ponzio Pilato. Gesù non sa lavarsi le mani: soltanto sa rischiare! Guardate questa immagine tanto bella: Gesù chinato tra le spine, rischiando di ferirsi per prendere la pecorella smarrita. 
Oggi io, che sono peccatore come voi, ma rappresentò Gesù, sono ambasciatore di Gesù. Oggi, quando io mi inchino davanti a ognuno di voi, pensate: “Gesù ha rischiato in quest’uomo, un peccatore, per venire da me e dirmi che mi ama”. Questo è il servizio, questo è Gesù: non ci abbandona mai; non si stanca mai di perdonarci. Ci ama tanto. Guardate come rischia, Gesù! 
E così, con questi sentimenti, andiamo avanti con questa cerimonia che è simbolica. Prima di darci il suo corpo e il suo sangue, Gesù rischia per ognuno di noi, e rischia nel servizio perché ci ama tanto.

* * *
Al gesto dello scambio della pace, il Santo Padre ha pronunciato queste parole:
E adesso, tutti noi – sono sicuro che tutti noi – abbiamo la voglia di essere in pace con tutti. Ma nel nostro cuore ci sono tante volte sentimenti contrastanti. È facile essere in pace con coloro a cui vogliamo bene e con quanti ci fanno del bene; ma non è facile essere in pace con quelli che ci hanno fatto torto, che non ci vogliono bene, con i quali siamo in inimicizia. In silenzio, un attimo, ognuno pensi a coloro che ci vogliono bene e a cui noi vogliamo bene, e anche ognuno di noi pensi a coloro che non ci vogliono bene e anche a coloro a cui noi non vogliamo e anche – anzi – a coloro su cui noi vorremmo vendicarci. E chiediamo al Signore, in silenzio, la grazia di dare a tutti, buoni e cattivi, il dono della pace.

Insomma, senza preservativo.



Che cos’è l’apertura alla vita


Nei giorni scorsi si è molto parlato dell’Humanae Vitae e dell’affermazione di Don Chiodi rispetto all’eventuale obbligo, da parte di coppie in particolari situazioni di difficoltà, di fare uso della contraccezione. Avrei voluto scrivere subito qualche considerazione sull’argomento, ma mi sono frenata dopo aver letto la splendida riflessione di Flora Gualdani sul blog di Costanza Miriano: in effetti ha già detto tutto lei, c’è ben poco da aggiungere.
L’unica cosa che posso aggiungere è la mia esperienza: mi sono sposata nel 2003, con un ragazzo meraviglioso ma molto malato. Nei due anni successivi abbiamo avuto due bambine, a diciassette mesi di distanza l’una dall’altra, concepite durante un periodo di relativa “tranquillità” della malattia. Durante la gravidanza della secondogenita, purtroppo, il tumore di mio marito si è ripresentato in maniera tanto sorprendente quanto aggressiva, e lui è morto tre anni dopo. Le bambine avevano quattro anni l’una e due e mezzo l’altra.
Se dovessi dire che cosa è significato, durante il matrimonio con Luigi, l’aver avuto due figlie, non potrei che usare le stesse parole del suo medico: un miracolo. Non era infatti scontato per noi (come non lo è per nessuna coppia, in fondo) diventare genitori. Queste bambine sono state una benedizione inaspettata, in una situazione in cui sarebbe stato quantomeno comprensibile, se non addirittura auspicabile, evitare l’arrivo di un figlio. Forse, potremmo dire che io e Luigi saremmo rientrati in uno di quei casi per cui Don Maurizio Chiodi indicava l’obbligo della contraccezione. E io stessa dopo la nascita della seconda figlia – che è coincisa con l’aggravarsi della malattia – non ho trovato altra strada, inizialmente, che quella della pillola anticoncezionale, per evitare l’arrivo di una terza gravidanza. Non ignoravo, infatti, il Magistero e le sue indicazioni, ma avevo tanta paura e ancor più tanta rabbia verso Dio, che sembrava essere sordo alle mie preghiere. Dopo un paio di mesi, però, d’accordo con Luigi, decisi di imparare a usare i metodi naturali. Non me ne sono mai pentita.
Sette anni fa mi sono risposata e con mio marito Gianni ho avuto altri tre figli, tutti maschi (e io che dieci anni fa lamentavo l’assenza di un uomo in casa… dopo aver conosciuto Gianni sono stata invasa dal testosterone!!). Tre bambini amati e desiderati, e “distanziati” nel loro arrivo attraverso l’uso dei metodi naturali. E’ vero, ammetto che uno dei tre (ma non dirò mai quale, nemmeno sotto tortura) è arrivato un po’ “a rotta di collo”, forse non eravamo del tutto preparati, ma di sicuro non abbiamo mai pensato: questo qui è di troppo. E se non l’abbiamo mai pensato non è perché siamo bravi, buoni o santi, ma perché abbiamo avuto la Grazia, fino ad ora, di non sentirci padroni assoluti delle nostre vite o di quelle dei figli che ci sono stati affidati. E se qualcuno mi chiedesse che cos’è per me, oggi, l’apertura alla vita, risponderei: un dono di Dio. Perché l’apertura alla vita non è qualcosa che ci diamo da soli, è sempre frutto di un rapporto con il Signore, anche un rapporto tiepido e scalcinato come il mio, ma pur sempre un rapporto. E se è vero che i metodi naturali sono sicuramente una ricchezza in se stessi, anche per una coppia che non crede e non va in Chiesa (perché il rispetto del proprio corpo e di quello della persona amata dovrebbe interessare a tutti, anche a chi non ha fede), a maggior ragione sarebbe quantomeno doveroso incoraggiarne la conoscenza, da parte dei nostri pastori, presso le coppie cristiane, piuttosto che parlare di obbligo alla contraccezione.
Oggi ho quarant’anni, cinque figli e l’istinto materno di un tostapane. Non amo i bambini in generale, non mi fermo a toccare le pance delle donne incinte, non vado in brodo di giuggiole se vedo un neonato, ma sono pazza dei miei figli.
Mi commuovo quando vado alle loro recite dell’asilo, quando leggo un loro tema, o la pagella, o quando entro di soppiatto nelle camere e li guardo dormire. Eppure tutti loro mi hanno tolto, a turno in questi anni, ore di sonno, tempo libero, tonicità muscolare e qualche quintalata di autostima (chi ha figlie femmine adolescenti sa di cosa sto parlando). La felicità nell’essere madre di una folta prole, nonostante il mio sconcertante egoismo, mi viene dall’unica certezza che ho e che cerco di vivere all’interno del mio matrimonio: che Dio mi ama. E il suo amore per me è sempre stato pieno, totale.
Insomma, senza preservativo.

Se vogliamo dirci cristiani è ora di leggere la Bibbia



(Bruno Maggioni) Domande e risposte Sembra riecheggiare il celebre saggio di Benedetto Croce Perché non possiamo non dirci “cristiani” il libro di Federico Tartaglia. È ora di leggere la Bibbia (E ti spiego come fare) appena edito dalla milanese Àncora (pagine 476, euro 24,90) in cui si sottolinea che non possiamo dirci cristiani se non leggiamo la Bibbia, «tutta la Bibbia». E mentre il filosofo italiano riconosceva al cristianesimo il merito di aver operato «una rivoluzione dell’anima», don Tartaglia sottolinea della Bibbia il valore per l’identità del cristiano.
L’autore presenta uno per uno i 73 libri canonici della Bibbia cattolica, mostrando con un linguaggio, al contempo semplice e brillante, perché non si può fare a meno di questo libro. Che — come si legge in un passo della prefazione che pubblichiamo in questa pagina — dà voce non solo alla parola di Dio rivolta all’uomo, ma anche alle domande dell’uomo qualunque sulla vita, sulle relazioni interpersonali, sul non senso che molte cose sembrano avere. E anche l’ateo in questo può specchiarsi: la sua risposta può essere diversa, ma avere le stesse domande è «già una grande fraternità».
 Ho passato tutta la vita a studiare e a spiegare la Bibbia, rivolgendomi a chiunque fosse interessato ad ascoltarmi o a leggere i miei articoli e i miei libri.

Una volta la Bibbia non era di moda, anzi per molti bravi cristiani era possibile vivere la propria fede senza sentire il bisogno di leggerla: bastava quella che si sentiva a messa. Poi, per fortuna, le cose sono cambiate e sono nate tante iniziative — libri divulgativi di esegesi, corsi biblici, «scuole della Parola» eccetera — che avevano come obiettivo quello di rendere «popolare» la lettura della Bibbia, da soli o in gruppo.
Però mi sembra di notare che, nonostante tutti gli sforzi, sono ancora troppo poche le persone che decidono di uscire dal guscio dei brani che tutti conoscono (che sono poi una percentuale piccolissima del testo biblico) e affrontare con coraggio una lettura integrale della Bibbia. Che è anche l’unico modo per imparare a capirla davvero, perché — come già dicevano gli antichi maestri di Israele — «la Scrittura si interpreta e si spiega con la Scrittura».
Forse non siamo stati capaci di far capire che leggere la Bibbia non è un esercizio di devozione riservato a pochi (preti, frati e suore più qualche «laico impegnato»), ma è anzitutto una scuola di vita, per tutti. Anzi, oso dire che è la più straordinaria scuola di vita a nostra disposizione, prima ancora che un «deposito di verità», da usare per attaccare chi non la pensa come noi.
Forse di solito la Bibbia viene letta in modo troppo spiritualista: è invece un libro umano, per i nostri problemi veri, non solo religiosi. Non esiste una religione astratta. La Bibbia deve essere presa sul serio, nella sua corposità, senza allegorie, senza spiritualizzazioni, perché il senso letterario è intelligente. Mi ribello a certe letture sempre edificanti, in realtà ci sono racconti biblici che terminano con dubbi e domande. Sono perplesso di fronte a interpretazioni che spiritualizzano come se i suggerimenti della Parola di Dio non fossero per la vita terrena. Letture che sembrano una fuga dal mondo o una sua consolazione. Vorrei una lettura attenta alle domande e alle narrazioni, spesso problematiche, ai paradossi che cambiano la mentalità e il modo di vivere. Il cristiano è del mondo e nel mondo deve vivere, nel suo quotidiano, senza astrazioni e senza troppe pretese di eroismo.
E poi: la Bibbia è un libro che dà voce non soltanto alla Parola di Dio rivolta all’uomo, ma anche alle domande dell’uomo qualunque, dell’uomo che pensa, sulla vita, sulle relazioni fra di noi, sul non senso che molte cose sembrano avere. Anche l’ateo in questo può specchiarsi. Diversa può essere la sua risposta, ma avere le stesse domande è già una grande fraternità.
Quali consigli dare allora a chi vuole accostarsi alla Bibbia per una prima lettura? Il mio primo consiglio, frutto di anni di lavoro, è che bisogna affidarsi a una guida sicura, e questo libro di don Federico Tartaglia è particolarmente adatto, per la sua capacità di mostrare la «posta in gioco» di ogni libro biblico e della Bibbia tutta intera. Poi si può partire da qualche libro che ci sembra più familiare, direi un Vangelo (e già leggerlo tutto d’un fiato è molto diverso dal sentirlo leggere a pezzi, come a messa), passare a una Lettera di Paolo e dopo a qualche libro dell’Antico Testamento che ci faccia comprendere la bellezza anche letteraria della Scrittura, come Giobbe o il Cantico dei Cantici.
Fatto questo, si può affrontare qualsiasi testo. L’importante è capire che siamo davanti a un libro complesso che non si comprende tutto. Ci sono parti che non ho capito io stesso. La Bibbia parla di Dio e dell’uomo, argomenti non semplici. Bisogna avere costanza e pazienza, ma — lo posso garantire — è un libro che vale più di altri, anche culturalmente. I racconti biblici sono pari a quelli della letteratura greca. Durante un corso post-laurea per allievi che venivano da letture classiche mi sono sentito dire: «Abbiamo letto Qoelet, è più straordinario dei Dialoghi di Platone».
In teoria si è capito che senza frequentare con assiduità la Bibbia non possiamo dirci davvero cristiani. Anzi, umani. Ma dobbiamo renderla pane quotidiano per la gente. E mi auguro che questo libro — con il suo accorato invito a leggere la Bibbia, a leggerla tutta, a innamorarsi della Parola di Dio — diventi uno strumento diffuso nelle parrocchie, nei gruppi di catechesi, nelle scuole bibliche, ma sia preso sul serio anche da tutte le persone che semplicemente si sono dette: «Quel librone è da anni sullo scaffale, ora voglio provare a leggerlo...».
Ricordandoci di una cosa importante: Gesù ha detto che «beati», cioè «felici» (ed essere felici non è il vero desiderio del cuore umano?) sono quelli che ascoltano la Parola di Dio... e che la mettono in pratica! Tradurre in pratica non significa però osservare il Vangelo in tutto e per tutto, non ne siamo capaci. Il difetto di molte persone è abbassare il Vangelo al nostro livello di osservanza, per il gusto di dire: io sono un uomo del Vangelo. Meglio dire: sono un peccatore e il Vangelo è quella cosa bella a cui cerco di arrivare.
Con questo spirito, non posso che ripetere quello che don Federico Tartaglia augura al termine di ogni capitolo di questo libro: buona lettura!

L'Osservatore Romano

“È un onore essere chiamato rivoluzionario”




Il Papa: “È un onore essere chiamato rivoluzionario”. Colloquio con papa Francesco. 
La Repubblica 



La creazione, la caduta e la salvezza. L'Europa, l'Africa e il Sudamerica. La modernità e le sue contraddizioni. La religione e i suoi rapporti con i laici. La politica e la morale. Nella settimana santa Bergoglio dialoga a tutto campo con il fondatore di "Repubblica" 
(Eugenio Scalfari) Questa è la settimana  di passione secondo  la storia cristiana, che tocca il suo culmine con l’ultima  cena, il tradimento di Giuda, l’arresto di Gesù, il colloquio con Pilato e poi la crocifissione, la morte e il suono a distesa delle campane in tutte le chiese del mondo dove si festeggia il resurrexit. Così si conclude la storia di tre anni di predicazione del figlio di Maria e di Giuseppe della tribù di David,  che in tre anni ha fondato una religione che in qualche modo continua quella ebraica della Bibbia,   ma con nuovi principi che in quei tre anni hanno gettato il seme di una rivoluzione religiosa, ma  anche sociale e politica nel bene e nel male, nel peccato e nel perdono, nei delitti e nella  misericordia. 
Martedì pomeriggio ho incontrato papa Francesco su suo invito al pianoterra del palazzo di Santa  Marta in Vaticano, dove il Papa vive e riceve gli amici. Ho il privilegio di essergli amico. Ci siamo  incontrati cinque volte: in una di queste ero con tutta la mia famiglia. Le altre quattro abbiamo  parlato di tutto. Un non credente e il Papa, vescovo di Roma sul seggio di Pietro e ispirato  soprattutto dalle lettere di Paolo, che trasformò il cristianesimo in una religione destinata ad essere  la più seguita, insieme a quella musulmana, con la quale Francesco ha cercato e cerca ancora la  fratellanza in nome di un Dio Unico al quale tutte le religioni debbono ispirarsi. 
Ci telefoniamo spesso, il Papa ed io, per scambiarci notizie l’uno dell’altro, ma qualche volta ci  ritroviamo di nuovo insieme e parliamo a lungo. Di religione e di politica.  
Questa, dicevo, è la settimana chiamata della “passione”. Gesù e i suoi dodici apostoli arrivano a Gerusalemme accolti da una folla festante, la stessa che,  dopo l’interrogatorio con Pilato, sarà chiamata a dire chi merita d’essere liberato tra Cristo e  Barabba, che è già nelle galere romane di Gerusalemme. 
Gesù non è ancora stato arrestato e decide di avviarsi verso il giardino chiamato Getsemani seguito  dagli apostoli, li ferma e dice loro di aspettarlo. S’inoltra in quel giardino dove a un certo punto è  completamente solo, si rivolge al Padre e dice: «Se vuoi e puoi, non farmi bere questo calice amaro, ma se non vuoi lo berrò fino in fondo». 
Non ottiene alcuna risposta e comprende che il Padre non lo salverà. Nel frattempo, guidati da  Giuda, arrivano le guardie e i legionari inviati dai sommi sacerdoti che prendono Gesù e lo portano  in tribunale. Di lì, dopo avere ascoltato anche il parere dei massimi sacerdoti di Gerusalemme, la  sentenza della crocifissione è definitiva e si svolge come sappiamo sulla collina del Golgota. Tutto  questo, chiedo a papa Francesco, deriva dalla cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre, dal  loro esilio sulla terra dove da allora viviamo? 
Quindi la creazione non è quella splendidamente dipinta da Michelangelo sul soffitto della Sistina,  ma avviene quando Dio vede che Adamo ed Eva avevano ceduto alle lusinghe di un diavolo  serpente, e hanno infranto l’unico divieto che gli era stato posto. La vera creazione dunque è nella  loro cacciata dal Paradiso terrestre, è quella la creazione? 
Francesco ascolta questa mia domanda e poi mi risponde in modo completamente diverso da quello  che di solito viene raccontato. «La creazione – mi dice – non si compie in questo modo descritto. Il  Creatore, cioè il Dio nell’alto dei cieli, ha creato l’universo intero e soprattutto l’energia che è lo  strumento con il quale il nostro Signore ha creato la terra, le montagne, il mare, le stelle, le galassie  e le nature viventi e perfino le particelle e gli atomi e le diverse specie che la natura divina ha messo in vita. Ciascuna specie dura migliaia o forse miliardi di anni, ma poi scompare. L’energia ha fatto  esplodere l’universo che di tanto in tanto si modifica. Nuove specie sostituiscono quelle che sono  scomparse ed è il Dio creatore che regola questa alternanza». 
Santità, nel nostro precedente incontro lei mi disse che la nostra specie ad un certo punto  scomparirà e Dio sempre dal suo seme creativo creerà altre specie. Lei non mi ha mai parlato  di anime che sono morte nel peccato e vanno all’inferno per scontarlo in eterno. Lei mi ha  parlato invece di anime buone e ammesse alla contemplazione di Dio. Ma le anime cattive?  Dove vengono punite? 
«Non vengono punite, quelle che si pentono ottengono il perdono di Dio e vanno tra le fila delle  anime che lo contemplano, ma quelle che non si pentono e non possono quindi essere perdonate  scompaiono. Non esiste un inferno, esiste la scomparsa delle anime peccatrici».  
Santità, lei, Papa o Vescovo di Roma come preferisce chiamarsi, si occupa anche di politica? 
«Lei intende di politica religiosa?». 
Santità, la politica è politica, si occupa del genere umano. Per un Papa ha sempre un carattere religioso, ma non soltanto. Del resto lei mi ha sempre detto che in una Chiesa che cerca  d’incontrarsi con la modernità – e lei si è assunto questo compito – come il Concilio Vaticano  II ha prescritto, la politica è al tempo stesso religiosa e laica. Lei da quando segue con  attenzione i suoi doveri riconosce la modernità come un traguardo da raggiungere. Da dove  parte questo chiarimento? 
«Storicamente direi che la modernità parte da un punto di vista ateo e culturale da Michel de  Montaigne. Una lettura quasi necessaria. L’inizio dell’Illuminismo è Montaigne. Poi continua fino a Kant attraverso una serie di passaggi che naturalmente non si fermano a lui. Ma il confine della  modernità che io considero non spetta a me indagarlo, comunque è bene conoscerlo. Il  rappresentante della cristianità deve fare attenzione ad altri problemi. Per esempio all’educazione  dei giovani. In certi casi cercano di lavorare e fanno bene, ma lavorare non è sufficiente, il lavoro va incoraggiato, ma insieme ad esso c’è un altro sentimento altrettanto necessario e forse ancora più  importante: il sentimento di amore verso il prossimo, la propria famiglia, la propria città. Insisto  soprattutto sull’amore verso il prossimo. La Chiesa si estende ad una santità civile e cristiana nel  senso più ampio. La religione per me è di grande importanza, ma sono consapevole che il senso  religioso lo si può avere in casa anche senza praticarlo. Oppure si pratica una religione ma soltanto  nei suoi rituali e non con il cuore e con l’anima. Se devo dire dove oggi è più forte la religiosità  indicherei le masse di popoli del Sudamerica, delle pianure dell’America del Nord, l’Oceania e la  fascia dell’Africa da est a ovest. L’Africa è un continente agitato e tormentato, va molto aiutato. È  da lì che sono partite le masse di schiavi con il loro carico di sofferenza». 
E l’Europa, Santità? 
«L’Europa deve rafforzarsi, politicamente e moralmente. Ci sono anche qui molti poveri e molti  immigrati. Abbiamo detto di voler conoscere la modernità pure nelle sue cadute. L’Europa è un  continente che per secoli ha combattuto guerre, rivoluzioni, rivalità e odio, perfino nella Chiesa. Ma è stata anche una terra dove la religiosità raggiunse il suo massimo e proprio per questo io ho  assunto il nome di Francesco: quello è uno dei grandi esempi della Chiesa che va compreso e  imitato». 
Lei, Santità, si ricorderà che io spesso, quando scrivo di lei, la chiamo rivoluzionario. 
«Sì, lo so ed è una parola che mi onora nel senso in cui la dice. Lei, per quanto so, compie gli anni  tra pochi giorni. Le faccio molti auguri e vediamoci di nuovo presto». 
Mi ha accompagnato fino al portone, ci siamo abbracciati davanti a due guardie svizzere irrigidite  sull’attenti e poi lui ha aspettato che la macchina partisse lanciandomi un bacio con le dita al quale  nello stesso modo ho risposto. Tornando a casa mi sono inconsapevolmente venute in mente le frasi  di Salvini, Berlusconi, Renzi e Di Maio e mi ha preso un senso di profonda tristezza. Sabato dovrò  occuparmi di loro, ma la sciolta delle campane mi farà pensare all’uomo Gesù di Nazareth. Un uomo e non più che un uomo. Qualcuno che a lui pensa e gli somiglia c’è nella società dei nostri tempi. La politica purtroppo è ridotta al caso. Rimpiango i tempi di Platone. Se noi fossimo come  lui; ma purtroppo non c’è speranza.
la Repubblica, 29 marzo 2018

Santa Messa del Crisma nella Basilica Vaticana. Omelia di Papa Francesco.



Santa Messa del Crisma nella Basilica Vaticana. Omelia di Papa Francesco: "Il sacerdote vicino, che cammina in mezzo alla sua gente con vicinanza e tenerezza di buon pastore (e, nella sua pastorale, a volte sta davanti, a volte in mezzo e a volte indietro), la gente non solo lo apprezza molto, va oltre: sente per lui qualcosa di speciale, qualcosa che sente soltanto alla presenza di Gesù"
Sala sampa della Santa Sede
[Text: Italiano, Français, English, Español, Português]

Testo dell'allocuzione del Papa - Il segno (...) indica frasi aggiunte dal Santo Padre e pronunciate a braccio.
Alle ore 9.30 di questa mattina, ricorrenza del Giovedì Santo, il Santo Padre Francesco presiede, nella Basilica Vaticana, la Santa Messa Crismale, Liturgia che si celebra in questo giorno in tutte le Chiese Cattedrali. La Messa del Crisma è concelebrata dal Santo Padre con i Cardinali, i Vescovi e i Presbiteri (diocesani e religiosi) presenti a Roma. Nel corso della Celebrazione Eucaristica, i sacerdoti rinnovano le promesse fatte al momento della Sacra ordinazione; quindi ha luogo la benedizione dell’olio degli infermi, dell’olio dei catecumeni e del crisma.
Omelia del Santo Padre
Cari fratelli, sacerdoti della diocesi di Roma e delle altre diocesi del mondo!
Leggendo i testi della liturgia di oggi mi veniva alla mente, con insistenza, il passo del Deuteronomio che dice: «Infatti quale grande nazione ha gli dei così vicini a sé, come il Signore, nostro Dio, è vicino a noi ogni volta che lo invochiamo?» (4,7).
La vicinanza di Dio… la nostra vicinanza apostolica.
Nel testo del profeta Isaia contempliamo l’inviato di Dio già “unto e mandato”, in mezzo al suo popolo, vicino ai poveri, ai malati, ai prigionieri…; e lo Spirito che “è su di Lui”, che lo spinge e lo accompagna lungo il cammino.
Nel Salmo 88 vediamo come la compagnia di Dio, che fin dalla giovinezza ha guidato per mano il re Davide e gli ha prestato il suo braccio, adesso che è anziano prende il nome di fedeltà: la vicinanza mantenuta nel corso del tempo si chiama fedeltà.
L’Apocalisse ci fa avvicinare, fino a rendercelo visibile, all’«Erchomenos», al Signore in persona che sempre «viene», sempre. L’allusione al fatto che lo vedranno «anche quelli che lo trafissero» ci fa sentire che sono sempre visibili le piaghe del Signore risorto, che il Signore ci viene sempre incontro se noi vogliamo “farci prossimi” alla carne di tutti coloro che soffrono, specialmente dei bambini.
Nell’immagine centrale del Vangelo di oggi, contempliamo il Signore attraverso gli occhi dei suoi compaesani che erano «fissi su di Lui» (Lc 4,20). Gesù si alzò per leggere nella sinagoga di Nazaret. Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia. Lo srotolò finché trovò il passo dell’inviato di Dio.
Lesse ad alta voce: «Lo spirito del Signore è su di me […], mi ha consacrato con l’unzione; mi ha mandato…» (61,1). E concluse stabilendo la vicinanza così provocatrice di quelle parole: «Oggi si è compiuta questa scrittura che voi avete ascoltato» (Lc 4,21).
Gesù trova il passo e legge con la competenza degli scribi. Egli avrebbe potuto perfettamente essere uno scriba o un dottore della legge, ma ha voluto essere un “evangelizzatore”, un predicatore di strada, il «Messaggero di buone notizie» per il suo popolo, il predicatore i cui piedi sono belli, come dice Isaia (cfr 52,7). Il predicatore è vicino.
Questa è la grande scelta di Dio: il Signore ha scelto di essere uno che sta vicino al suo popolo. Trent’anni di vita nascosta! Solo dopo comincerà a predicare. E’ la pedagogia dell’incarnazione, dell’inculturazione; non solo nelle culture lontane, anche nella propria parrocchia, nella nuova cultura dei giovani…
La vicinanza è più che il nome di una virtù particolare, è un atteggiamento che coinvolge tutta la persona, il suo modo di stabilire legami, di essere contemporaneamente in sé stessa e attenta all’altro. Quando la gente dice di un sacerdote che “è vicino”, di solito fa risaltare due cose: la prima è che “c’è sempre” (contrario del “non c’è mai”: “Lo so, padre, che Lei è molto occupato” – dicono spesso). E l’altra cosa è che sa trovare una parola per ognuno. “Parla con tutti – dice la gente –: coi grandi, coi piccoli, coi poveri, con quelli che non credono… Preti vicini, che ci sono, che parlano con tutti… Preti di strada.
E uno che ha imparato bene da Gesù a essere predicatore di strada è stato Filippo. Dicono gli Atti che andava di luogo in luogo annunciando la Buona Notizia della Parola predicando in tutte le città, e che queste si riempivano di gioia (cfr 8,4-8). Filippo era uno di quelli che lo Spirito poteva “sequestrare” in qualsiasi momento e farli partire per evangelizzare, andando da un posto all’altro, uno capace anche di battezzare gente di buona fede, come il ministro della regina di Etiopia, e di farlo lì per lì, lungo la strada (cfr At 8,5; 36-40).
La vicinanza, cari fratelli, è la chiave dell’evangelizzatore perché è un atteggiamento-chiave nel Vangelo (il Signore la usa per descrivere il Regno). Noi diamo per acquisito che la prossimità è la chiave della misericordia, perché la misericordia non sarebbe tale se non si ingegnasse sempre, come “buona samaritana”, per eliminare le distanze. Credo però che abbiamo bisogno di acquisire meglio il fatto che la vicinanza è anche la chiave della verità; non solo della misericordia, ma anche la chiave della verità. Si possono eliminare le distanze nella verità? Sì, si può. Infatti la verità non è solo la definizione che permette di nominare le situazioni e le cose tenendole a distanza con concetti e ragionamenti logici. Non è solo questo. La verità è anche fedeltà (emeth), quella che ti permette di nominare le persone col loro nome proprio, come le nomina il Signore, prima di classificarle o di definire “la loro situazione”. E qui, c’è questa abitudine – brutta, no? – della “cultura dell’aggettivo”: questo è così, questo è un tale, questo è un quale … No, questo è figlio di Dio. Poi, avrà le virtù o i difetti, ma la verità fedele della persona e non l’aggettivo fatto sostanza.
Bisogna stare attenti a non cadere nella tentazione di farsi idoli di alcune verità astratte. Sono idoli comodi, a portata di mano, che danno un certo prestigio e potere e sono difficili da riconoscere. Perché la “verità-idolo” si mimetizza, usa le parole evangeliche come un vestito, ma non permette che le si tocchi il cuore. E, ciò che è molto peggio, allontana la gente semplice dalla vicinanza risanatrice della Parola e dei Sacramenti di Gesù.
Su questo punto, rivolgiamoci a Maria, Madre dei sacerdoti. La possiamo invocare come “Madonna della Vicinanza”: «Come una vera madre, cammina con noi, combatte con noi, ed effonde incessantemente la vicinanza dell’amore di Dio» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 286), in modo tale che nessuno si senta escluso. La nostra Madre non solo è vicina per il suo mettersi al servizio con quella «premura» (ibid., 288) che è una forma di vicinanza, ma anche col suo modo di dire le cose. A Cana, la tempestività e il tono con cui dice ai servi: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela» (Gv 2,5), farà sì che quelle parole diventino il modello materno di ogni linguaggio ecclesiale. Ma, per dirle come lei, oltre a chiedere la grazia, bisogna saper stare lì dove si “cucinano” le cose importanti, quelle che contano per ogni cuore, ogni famiglia, ogni cultura. Solo in questa vicinanza – possiamo dire “di cucina” - si può discernere qual è il vino che manca e qual è quello di migliore qualità che il Signore vuole dare.
Vi suggerisco di meditare tre ambiti di vicinanza sacerdotale nei quali queste parole: “Fate tutto quello che Gesù vi dirà” devono risuonare – in mille modi diversi ma con un medesimo tono materno – nel cuore delle persone con cui parliamo: l’ambito dell’accompagnamento spirituale, quello della Confessione e quello della predicazione.
La vicinanza nel dialogo spirituale, la possiamo meditare contemplando l’incontro del Signore con la Samaritana. Il Signore le insegna a riconoscere prima di tutto come adorare, in Spirito e verità; poi, con delicatezza, la aiuta a dare un nome al suo peccato, senza offenderla; e infine il Signore si lascia contagiare dal suo spirito missionario e va con lei a evangelizzare nel suo villaggio. Modello di dialogo spirituale, questo del Signore, che sa far venire alla luce il peccato della Samaritana senza che getti ombra sulla sua preghiera di adoratrice né che ponga ostacoli alla sua vocazione missionaria.
La vicinanza nella Confessione la possiamo meditare contemplando il passo della donna adultera. Lì si vede chiaramente come la vicinanza è decisiva perché le verità di Gesù sempre avvicinano e si dicono (si possono dire sempre) a tu per tu. Guardare l’altro negli occhi – come il Signore quando si alza in piedi dopo essere stato in ginocchio vicino all’adultera che volevano lapidare e le dice: «Neanch’io ti condanno» (Gv 8,11) – non è andare contro la legge. E si può aggiungere: «D’ora in poi non peccare più» (ibid.) non con un tono che appartiene all’ambito giuridico della verità-definizione – il tono di chi deve determinare quali sono i condizionamenti della Misericordia divina – ma con un’espressione che si dice nell’ambito della verità-fedele, che permette al peccatore di guardare avanti e non indietro. Il tono giusto di questo «non peccare più» è quello del confessore che lo dice disposto a ripeterlo settanta volte sette.
Da ultimo, l’ambito della predicazione. Meditiamo su di esso pensando a coloro che sono lontani, e lo facciamo ascoltando la prima predica di Pietro, che si colloca nel contesto dell’avvenimento di Pentecoste. Pietro annuncia che la parola è «per tutti quelli che sono lontani» (At 2,39), e predica in modo tale che il kerygma “trafigge il loro cuore” e li porta a domandare: «Che cosa dobbiamo fare?» (At 2,37). Domanda che, come dicevamo, dobbiamo fare e alla quale dobbiamo rispondere sempre in tono mariano, ecclesiale. L’omelia è la pietra di paragone «per valutare la vicinanza e la capacità di incontro di un Pastore con il suo popolo» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 135). Nell’omelia si vede quanto vicini siamo stati a Dio nella preghiera e quanto vicini siamo alla nostra gente nella sua vita quotidiana.
La buona notizia si attua quando queste due vicinanze si alimentano e si curano a vicenda. Se ti senti lontano da Dio, ma per favore, avvicinati al suo popolo, che ti guarirà dalle ideologie che ti hanno intiepidito il fervore. I piccoli ti insegneranno a guardare Gesù in un modo diverso. Ai loro occhi, la Persona di Gesù è affascinante, il suo buon esempio dà autorità morale, i suoi insegnamenti servono per la vita. E se tu, ti senti lontano dalla gente, avvicinati al Signore, alla sua Parola: nel Vangelo Gesù ti insegnerà il suo modo di guardare la gente, quanto vale ai suoi occhi ognuno di coloro per i quali ha versato il suo sangue sulla croce. Nella vicinanza con Dio, la Parola si farà carne in te e diventerai un prete vicino ad ogni carne. Nella vicinanza con il popolo di Dio, la sua carne dolorosa diventerà parola nel tuo cuore e avrai di che parlare con Dio, diventerai un prete intercessore.
Il sacerdote vicino, che cammina in mezzo alla sua gente con vicinanza e tenerezza di buon pastore (e, nella sua pastorale, a volte sta davanti, a volte in mezzo e a volte indietro), la gente non solo lo apprezza molto, va oltre: sente per lui qualcosa di speciale, qualcosa che sente soltanto alla presenza di Gesù. Perciò non è una cosa in più questo riconoscere la nostra vicinanza. In essa ci giochiamo se Gesù sarà reso presente nella vita dell’umanità, oppure se rimarrà sul piano delle idee, chiuso in caratteri a stampatello, incarnato tutt’al più in qualche buona abitudine che poco alla volta diventa routine.
Cari fratelli sacerdoti, chiediamo a Maria, “Madonna della Vicinanza”, che ci avvicini tra di noi e, al momento di dire alla nostra gente di “fare tutto quello che Gesù dice”, ci unifichi il tono, perché nella diversità delle nostre opinioni si renda presente la sua vicinanza materna, quella che col suo “sì” ci ha avvicinato a Gesù per sempre.
Traduzione in lingua francese
Chers frères, prêtres du diocèse de Rome et des autres diocèses du monde!
En lisant les textes de la liturgie de ce jour il me venait à l’esprit, avec insistance, le passage du Deutéronome qui dit : «Quelle est en effet la grande nation dont les dieux soient aussi proches que le Seigneur notre Dieu est proche de nous chaque fois que nous l’invoquons» (4, 7). La proximité de Dieu… notre proximité apostolique.
Dans le texte du prophète Isaïe nous contemplons l’envoyé de Dieu autrefois “oint et envoyé”, au milieu de son peuple, proche des pauvres, des malades, des prisonniers…; et l’Esprit qui “est sur lui”, qui le pousse et l’accompagne le long du chemin.
Dans le Psaume 88 nous voyons comment la compagnie de Dieu, qui a guidé par la main le roi David dès son enfance et qui lui a prêté son bras, maintenant que celui-ci est âgé prend le nom de fidélité: la proximité qui se conserve au cours du temps s’appelle fidélité.
L’Apocalypse nous rapproche, au point de nous le rendre visible, de l’Erchomenos, le Seigneur en personne qui, toujours, «vient». L’allusion au fait que le verront «aussi ceux qui l’ont crucifié» nous fait sentir que les plaies du Seigneur ressuscité sont toujours visibles, que le Seigneur vient toujours à notre rencontre si nous voulons “nous faire proches” de la chair de tous ceux qui souffrent, spécialement des enfants.
Dans l’image centrale de l’Evangile de ce jour, nous contemplons le Seigneur à travers les yeux de ses compatriotes qui étaient « fixés sur lui» (Lc 4, 20). Jésus se leva pour lire dans la synagogue de Nazareth. Le rouleau du prophète Isaïe lui fut donné. Il le déroula jusqu’à ce qu’il trouve le passage de l’envoyé de Dieu. Il lut à voix haute: «L’Esprit du Seigneur Dieu est sur moi […] il m’a consacré par l’onction. Il m’a envoyé…» (61, 1). Et il conclut en établissant la proximité si provocatrice de ces paroles: «Aujourd’hui s’accomplit ce passage de l’Ecriture que vous venez d’entendre» (Lc 4, 21).
Jésus trouve le passage et lit avec la compétence des scribes. Il aurait pu parfaitement être un scribe ou un docteur de la loi, mais il a voulu être un “évangélisateur”, un prédicateur de rue, le «Messager des Bonnes Nouvelles» pour son peuple, le prédicateur dont les pieds sont beaux, comme le dit Isaïe (cf. 52, 7).
Voilà le grand choix de Dieu : le Seigneur a choisi d’être quelqu’un qui se tient proche de son peuple. Trente ans de vie cachée ! Après seulement, il commencera à prêcher. C’est la pédagogie de l’incarnation, de l’inculturation; pas seulement dans les cultures lointaines, mais aussi dans la paroisse même, dans la nouvelle culture des jeunes…
La proximité est plus que le nom d’une vertu particulière, elle est une attitude qui implique toute la personne, sa manière d’établir des liens, d’être en même temps en soi-même et attentif à l’autre.
Quand les gens disent d’un prêtre qu’il “est proche”, cela fait ressortir en général deux choses : la première, qu’ “il est toujours là” (contrairement au fait qu’ “il ne soit jamais là”. On dit souvent : “je sais, mon père, que vous êtes très occupé”). Et l’autre, qu’il sait trouver une parole pour chacun. Les gens disent : “Il parle avec tout le monde ; avec les grands, avec les petits, avec les pauvres, avec ceux qui ne croient pas…” Des prêtres proches, qui sont présents, qui parlent avec tout le monde… Des prêtres de rue.
Quelqu’un qui a bien appris de Jésus à être un prédicateur de rue, c’est Philippe. Les Actes disent qu’il allait de lieu en lieu en annonçant la Bonne Nouvelle de la Parole en prêchant dans toutes les villes et que celles-ci étaient pleines de joie (cf. 8, 4.5-8). Philippe était un de ceux que l’Esprit pouvait « saisir » à tout moment, le faire partir pour évangéliser en allant d’un endroit à un autre, quelqu’un capable aussi de baptiser les personnes de bonne foi, comme le ministre de la reine d’Ethiopie, et de le faire n’importe où, le long de la route (cf. Ac 8, 5 ; 36-40).
La proximité est la clé de l’évangélisateur car elle est une attitude-clé dans l’Evangile (le Seigneur l’utilise pour décrire le Royaume). Nous considérons pour acquis le fait que la proximité est la clé de la miséricorde, parce que la miséricorde, comme une “bonne Samaritaine”, ne serait pas ce qu’elle est si l’on ne s’efforçait pas toujours de réduire les distances. Mais je crois que nous avons besoin de mieux percevoir le fait que la proximité est aussi la clé de la vérité. Peut-on supprimer les distances dans la vérité ? Oui, on le peut. La vérité n’est pas seulement en effet la définition qui permet de nommer les situations et les choses en les tenant à distance avec des concepts et des raisonnements logiques. Elle n’est pas seulement cela. La vérité est aussi fidélité (emeth), celle qui te permet de désigner les personnes par leur nom propre, comme le Seigneur les nomme, avant de les classifier ou de définir “ leur situation”.
Il faut faire attention à ne pas tomber dans la tentation de se faire des idoles de certaines vérités abstraites. Ce sont des idoles commodes, à portée de main, qui donnent un certain prestige et pouvoir, et qui sont difficiles à reconnaître. Car la “vérité-idole” se déguise, elle utilise les paroles évangéliques comme un vêtement mais elle ne permet pas de toucher le coeur. Et, ce qui est pire, elle éloigne les gens simples de la proximité de la Parole et des Sacrements de Jésus, qui guérit.
Sur ce point, adressons-nous à Marie, Mère des prêtres. Nous pouvons l’invoquer comme “Vierge de la Proximité” : « Comme une vraie mère, elle marche avec nous, lutte avec nous, et répand sans cesse la proximité de l’amour de Dieu » (Exhort. ap. Evangelii gaudium, n. 286), de telle manière que personne ne se sente exclu. Notre Mère est non seulement proche en se mettant au service avec cet « empressement » (ibid., n. 288) qui est une forme de proximité, mais aussi avec sa manière de dire les choses. A Cana, l’à-propos et le ton avec lesquels elle dit aux serviteurs : « Tout ce qu’il vous dira, faites-le » (Jn 2, 5), feront que ces mots deviendront le modèle maternel de tout langage ecclésial. Mais, pour les dire comme elle, en plus de demander la grâce, il faut savoir se trouver là où les choses importantes se « mijotent », celles qui comptent pour tout coeur, pour toute famille, pour toute culture. C’est seulement avec cette proximité que l’on peut discerner quel est le vin qui manque, et quel est celui de meilleure qualité que le Seigneur veut donner.
Je vous suggère de méditer trois domaines de proximité sacerdotale dans lesquels ces paroles : “Tout ce qu’il vous dira, faites-le” doivent résonner – de mille manières différentes mais avec un même ton maternel – dans le coeur des personnes auxquelles nous parlons : le domaine de l’accompagnement spirituel, celui de la Confession et celui de la prédication.
Nous pouvons méditer la proximité dans le dialogue spirituel en contemplant la rencontre du Seigneur avec la Samaritaine. Le Seigneur lui apprend à reconnaître avant tout comment adorer, en Esprit et en vérité. Puis, avec délicatesse, il l’aide à donner un nom à son péché ; enfin il la gagne de son esprit missionnaire et va avec elle évangéliser dans son village. Modèle de dialogue spirituel que celui du Seigneur qui sait mettre au jour le péché de la Samaritaine sans faire de l’ombre à sa prière d’adoratrice ni mettre d’obstacles à sa vocation missionnaire.
Nous pouvons méditer la proximité dans la Confession en contemplant le passage de la femme adultère. On voit là clairement comment la proximité est décisive, car les vérités de Jésus s’approchent toujours et se disent (on peut dire, toujours) seul à seul. Regarder l’autre dans les yeux – comme le Seigneur quand il se met debout après avoir été à genoux près de la femme adultère qu’ils voulaient lapider et quand il lui dit : « Moi non plus je ne te condamne pas » (Jn 8, 11) – ce n’est pas aller contre la loi. Et l’on peut ajouter : « désormais ne pèche plus » (ibid.) non pas avec un ton qui appartient au domaine juridique de la vérité-définition – le ton de celui qui doit décider quelles sont les conditions de la Miséricorde divine – mais avec une expression que l’on emploie dans le domaine de la vérité-fidélité, qui permet au pécheur de regarder en avant et non en arrière.
Le ton juste de ce « ne pèche plus » est celui du confesseur qui le dit en étant prêt à le répéter soixante-dix fois sept fois.
Enfin, le domaine de la prédication. Méditons là-dessus en pensant à ceux qui sont loin, et faisons-le en écoutant la première prédication de Pierre, qui se situe dans le contexte de l’événement de la Pentecôte. Pierre annonce que la parole est «pour tous ceux qui sont loin» (Ac 2, 39) et prêche de telle sorte que le kérygme “transperce leurs coeurs” et les conduit à demander « Que devons-nous faire?» (Ac 2, 37). Une question, comme nous le disions, que nous devons poser et à laquelle nous devons toujours répondre sur un ton marial, ecclésial. L’homélie est la pierre de touche « pour évaluer la proximité et la capacité de rencontre d’un pasteur avec son peuple» (Exhort. ap. Evangelii gaudium, n. 135). Dans l’homélie on voit combien nous avons été proches de Dieu dans la prière, et combien nous sommes proches de nos gens dans leur vie quotidienne.
La bonne nouvelle se réalise quand ces deux proximités se nourrissent et s’entretiennent mutuellement. Si tu te sens loin de Dieu, approche-toi de son peuple qui te guérira des idéologies qui ont refroidi ta ferveur. Les petits t’apprendront à regarder Jésus de manière différente. A leurs yeux, la personne de Jésus est attachante, son bon exemple donne de l’autorité morale, ses enseignements sont utiles pour la vie. Si tu te sens loin des gens, rapproche-toi du Seigneur, de sa Parole : dans l’Evangile, Jésus t’apprendra sa manière de regarder les gens, quelle valeur a, à ses yeux, chacun de ceux pour qui il a versé son sang sur la croix. Dans la proximité avec Dieu, la Parole se fera chair en toi et tu deviendras un prêtre proche de toute chair. Dans la proximité avec le peuple de Dieu, sa chair douloureuse deviendra parole dans ton coeur et tu auras de quoi parler avec Dieu, tu deviendras un prêtre intercesseur.
Le prêtre qui est proche, qui marche au milieu de ses gens avec la proximité et la tendresse du bon pasteur (et, dans sa pastorale, parfois devant, parfois au milieu et parfois derrière), les gens non seulement l’apprécient beaucoup, mais plus encore : ils sentent pour lui quelque chose de spécial, quelque chose qui se sent seulement en présence de Jésus. Par conséquent, cette reconnaissance de notre proximité n’est pas seulement une chose en plus. En elle se joue le fait que Jésus sera rendu présent dans la vie de l’humanité, ou bien qu’il restera au plan des idées, enfermé en lettres d’imprimerie, incarné tout au plus dans quelque bonne habitude qui peu à peu deviendra routine.
Demandons à Marie, “Vierge de la Proximité”, de se faire proche de nous et d’unifier notre ton au moment où nous disons à notre peuple de “faire tout ce que Jésus dit”, afin que dans la diversité de nos opinions soit rendue présente sa proximité maternelle qui, par son “oui” nous a pour toujours rapprochés de Jésus.
Traduzione in lingua ingleseDear brother priests of the Diocese of Rome and other dioceses throughout the world!
When I was reading the texts of today’s liturgy, I kept thinking of the passage from Deuteronomy: “For what great nation is there that has a god so near to it as the Lord our God is to us, whenever we call upon him?” (4:7). The closeness of God... our apostolic closeness.
In the reading from the prophet Isaiah, we contemplate the Servant, “anointed and sent” among his people, close to the poor, the sick, the prisoners… and the Spirit who is “upon him”, who strengthens and accompanies him on his journey.
In Psalm 88, we see how the closeness of God, who led King David by the hand when he was young, and sustained him as he grew old, takes on the name of fidelity: closeness maintained over time is called fidelity.
The Book of Revelation brings us close to the Lord who “comes” – Erchómenos – in person. The words “every eye will see him, even those who pierced him” makes us realize that the wounds of the Risen Lord are always visible. The Lord always comes to us, if we choose to draw near, as “neighbours”, to the flesh of all those who suffer, especially children.
At the heart of today’s Gospel, we see the Lord through the eyes of his own people, which were “fixed on him” (Lk 4:20). Jesus stood up to read in his synagogue in Nazareth. He was given the scroll of the prophet Isaiah. He unrolled it until he found, near the end, the passage about the Servant. He read it aloud: “The Spirit of the Lord is upon me, because he has anointed and sent me...” (Is 61:1). And he concluded by challenging his hearers to recognize the closeness contained in those words: “Today this Scripture has been fulfilled in your hearing” (Lk 4:21).
Jesus finds the passage and reads it with the proficiency of a scribe. He could have been a scribe or a doctor of the law, but he wanted to be an “evangelizer”, a street preacher, the “bearer of joyful news” for his people, the preacher whose feet are beautiful, as Isaiah says.
This is God’s great choice: the Lord chose to be close to his people. Thirty years of hidden life! Only then did he began his preaching. Here we see the pedagogy of the Incarnation, a pedagogy of inculturation, not only in foreign cultures but also in our own parishes, in the new culture of young people…
Closeness is more than the name of a specific virtue; it is an attitude that engages the whole person, our way of relating, our way of being attentive both to ourselves and to others... When people say of a priest, “he is close to us”, they usually mean two things. The first is that “he is always there” (as opposed to never being there: in that case, they always begin by saying, “Father, I know you are very busy...”). The other is that he has a word for everyone. “He talks to everybody”, they say, with adults and children alike, with the poor, with those who do not believe... Priests who are “close”, available, priests who are there for people, who talk to everyone... street priests.
One of those who learned from Jesus how to be a street preacher was Philip. In the Acts of the Apostles we read that he went about evangelizing in all the cities and that they were filled with joy (cf. 8:4.5-8). Philip was one of those whom the Spirit could “seize” at any moment and make him go out to evangelize, moving from place to place, someone capable of even baptizing people of good faith, like the court official of the Queen of the Ethiopians, and doing it right there at the roadside (cf. Acts 8:5.36-40).
Closeness is crucial for an evangelizer because it is a key attitude in the Gospel (the Lord uses it to describe his Kingdom). We can be certain that closeness is the key to mercy, for mercy would not be mercy unless, like a Good Samaritan, it finds ways to shorten distances. But I also think we need to realize even more that closeness is also the key to truth. Can distances really be shortened where truth is concerned? Yes, they can. Because truth is not only the definition of situations and things from a certain distance, by abstract and logical reasoning. It is more than that. Truth is also fidelity (émeth). It makes you name people with their real name, as the Lord names them, before categorizing them or defining “their situation”.
We must be careful not to fall into the temptation of making idols of certain abstract truths. They can be comfortable idols, always within easy reach; they offer a certain prestige and power and are difficult to discern. Because the “truth-idol” imitates, it dresses itself up in the words of the Gospel, but does not let those words touch the heart. Much worse, it distances ordinary people from the healing closeness of the word and of the sacraments of Jesus.
Here, let us turn to Mary, Mother of priests. We can call upon her as “Our Lady of Closeness”. “As a true mother, she walks at our side, she shares our struggles and she constantly surrounds us with God’s love”, in such a way that no one feels left out (Evangelii Gaudium, 286). Our Mother is not only close when she sets out “with haste” to serve, which is one means of closeness, but also by her way of expressing herself (ibid., 288). At the right moment in Cana, the tone with which she says to the servants, “Do whatever he tells you”, will make those words the maternal model of all ecclesial language. But to say those words as she does, we must not only ask her for the grace to do so, but also to be present wherever the important things are “concocted”: the important things of each heart, each family, each culture. Only through this kind of closeness can we discern that wine that is missing, and what is the best wine that the Lord wants to provide.
I suggest that you meditate on three areas of priestly closeness where the words, “Do everything Jesus tells you”, need to be heard – in a thousand different ways but with the same
motherly tone – in the hearts of all those with whom we speak. Those words are “spiritual accompaniment”, “confession” and “preaching”.
Closeness in spiritual conversation. Let us reflect on this by considering the encounter of the Lord with the Samaritan woman. The Lord teaches her to discern first how to worship, in spirit and in truth. Then, he gently helps her to acknowledge her sin. Finally, he infects her with his missionary spirit and goes with her to evangelize her village. The Lord gives us a model of spiritual conversation; he knows how to bring the sin of the Samaritan woman to light without its overshadowing her prayer of adoration or casting doubt on her missionary vocation.
Closeness in confession. Let us reflect on this by considering the passage of the woman caught in adultery. It is clear that here closeness is everything, because the truths of Jesus always approach and can be spoken face to face. Looking the other in the eye, like the Lord, who, after kneeling next to the adulteress about to be stoned, stood up and said to her, “Nor do I condemn you” (Jn 8:11). This is not to go against the law. We too can add, “Go and sin no more”, not with the legalistic tone of truth as definition – the tone of those who feel that that they have to determine the parameters of divine mercy. On the contrary, those words need to be spoken with the tone of truth as fidelity, to enable the sinner to look ahead and not behind. The right tone of the words “sin no more” is seen in the confessor who speaks them and is willing to repeat them seventy times seven.
Finally, closeness in preaching. Let us reflect on this by thinking of those who are far away, and listening to Peter’s first sermon, which is part of the Pentecost event. Peter declares that the word is “for all that are far off” (Acts 2:39), and he preaches in such a way that they were “cut to the heart” by the kerygma, which led them to ask: “What shall we do?” (Acts 2:37). A question, as we said, we must always raise and answer in a Marian and ecclesial tone. The homily is the touchstone “for judging a pastor’s closeness and ability to communicate to his people” (Evangelii Gaudium, 135). In the homily, we can see how close we have been to God in prayer and how close we are to our people in their daily lives.
The good news becomes present when these two forms of closeness nourish and support one another. If you feel far from God, draw nearer to your people, who will heal you from the ideologies that cool your fervour. The little ones will teach you to look at Jesus in a different way. For in their eyes, the person of Jesus is attractive, his good example has moral authority, his teachings are helpful for the way we live our lives. If you feel far from people, approach the Lord and his word: in the Gospel, Jesus will teach you his way of looking at people, and how precious in his eyes is every individual for whom he shed his blood on the Cross. In closeness to God, the Word will become flesh in you and you will become a priest close to all flesh. Through your closeness to the people of God, their suffering flesh will speak to your heart and you will be moved to speak to God. You will once again become an intercessory priest.
A priest who is close to his people walks among them with the closeness and tenderness of a good shepherd; in shepherding them, he goes at times before them, at times remains in their midst and at other times walks behind them. Not only do people greatly appreciate such a priest; even more, they feel that there is something special about him: something they only feel in the presence of Jesus. That is why discerning our closeness to them is not simply one more thing to do. In it, we either make Jesus present in the life of humanity or let him remain on the level of ideas, letters on a page, incarnate at most in some good habit gradually becoming routine.
Let us ask Mary, “Our Lady of Closeness” to bring us closer to one another, and, when we need to tell our people to “do everything Jesus tells them”, to speak with one tone of voice, so that in the diversity of our opinions, her maternal closeness may become present. For she is the one who, by her “yes”, has brought us close to Jesus forever.
Traduzione in lingua spagnola
Queridos hermanos, sacerdotes de la diócesis de Roma y de las demás diócesis del mundo:
Leyendo los textos de la liturgia de hoy me venía a la mente, de manera insistente, el pasaje del Deuteronomio que dice: «Porque ¿dónde hay una nación tan grande que tenga unos dioses tan cercanos como el Señor, nuestro Dios, siempre que lo invocamos?» (4,7). La cercanía de Dios... nuestra cercanía apostólica.
En el texto del profeta Isaías contemplamos al enviado de Dios ya «ungido y enviado», en medio de su pueblo, cercano a los pobres, a los enfermos, a los prisioneros... y al Espíritu que «está sobre él», que lo impulsa y lo acompaña por el camino.
En el Salmo 88 vemos cómo la compañía de Dios, que ha conducido al rey David de la mano desde que era joven y que le prestó su brazo, ahora que es anciano, toma el nombre de fidelidad: la cercanía mantenida a lo largo del tiempo se llama fidelidad.
El Apocalipsis nos acerca, hasta que podemos verlo, al «Erjómenos», al Señor que siempre «está viniendo» en Persona. La alusión a que «lo verán los que lo traspasaron» nos hace sentir que siempre están a la vista las llagas del Señor resucitado, siempre está viniendo a nosotros el Señor si nos queremos «hacer próximos» en la carne de todos los que sufren, especialmente de los niños.
En la imagen central del Evangelio de hoy, contemplamos al Señor a través de los ojos de sus paisanos que estaban «fijos en él» (Lc 4,20). Jesús se alzó para leer en su sinagoga de Nazaret.
Le fue dado el rollo del profeta Isaías. Lo desenrolló hasta que encontró el pasaje del enviado de Dios. Leyó en voz alta: «El Espíritu del Señor está sobre mí, me ha ungido y enviado...» (61,1). Y terminó estableciendo la cercanía tan provocadora de esas palabras: «Hoy se ha cumplido esta Escritura que acabáis de oír» (Lc 4,21).
Jesús encuentra el pasaje y lee con la competencia de los escribas. Él habría podido perfectamente ser un escriba o un doctor de la ley, pero quiso ser un «evangelizador», un predicador callejero, el «portador de alegres noticias» para su pueblo, el predicador cuyos pies son hermosos, como dice Isaías (cf. 52,7).
Esta es la gran opción de Dios: el Señor eligió ser alguien cercano a su pueblo. ¡Treinta años de vida oculta! Después comenzará a predicar. Es la pedagogía de la encarnación, de la inculturación; no solo en las culturas lejanas, también en la propia parroquia, en la nueva cultura de los jóvenes...
La cercanía es más que el nombre de una virtud particular, es una actitud que involucra a la persona entera, a su modo de vincularse, de estar a la vez en sí mismo y atento al otro. Cuando la gente dice de un sacerdote que «es cercano» suele resaltar dos cosas: la primera es que «siempre está» (contra el que «nunca está»: «Ya sé, padre, que usted está muy ocupado», suelen decir). Y otra es que sabe encontrar una palabra para cada uno. «Habla con todos», dice la gente: con los grandes, los chicos, los pobres, con los que no creen... Curas cercanos, que están, que hablan con todos... Curas callejeros.
Uno que aprendió bien de Jesús a ser predicador callejero fue Felipe. Dicen los Hechos que recorría anunciando la Buena Nueva de la Palabra predicando en todas las ciudades y que estas se llenaban de alegría (cf. 8,4.5-8). Felipe era uno de esos a quienes el Espíritu podía «arrebatar» en cualquier momento y hacerlo salir a evangelizar, yendo de un lado para otro, uno capaz hasta de bautizar gente de buena fe, como el ministro de la reina de Etiopía, y hacerlo ahí mismo, en la calle (cf. Hch 8,5; 36-40).
La cercanía es la clave del evangelizador porque es una actitud clave en el Evangelio (el Señor la usa para describir el Reino). Nosotros tenemos incorporado que la proximidad es la clave de la misericordia, porque la misericordia no sería tal si no se las ingeniara siempre, como «buena samaritana», para acortar distancias. Pero creo que nos falta incorporar más el hecho de que la cercanía es también la clave de la verdad. ¿Se pueden acortar distancias en la verdad? Sí se puede. Porque la verdad no es solo la definición que hace nombrar las situaciones y las cosas a distancia de concepto y de razonamiento lógico. No es solo eso. La verdad es también fidelidad (emeth), esa que te hace nombrar a las personas con su nombre propio, como las nombra el Señor, antes de ponerles una categoría o definir «su situación».
Hay que estar atentos a no caer en la tentación de hacer ídolos con algunas verdades abstractas. Son ídolos cómodos que están a mano, que dan cierto prestigio y poder y son difíciles de discernir. Porque la «verdad-ídolo» se mimetiza, usa las palabras evangélicas como un vestido, pero no deja que le toquen el corazón. Y, lo que es mucho peor, aleja a la gente simple de la cercanía sanadora de la Palabra y de los sacramentos de Jesús.
En este punto, acudimos a María, Madre de los sacerdotes. La podemos invocar como «Nuestra Señora de la Cercanía»: «Como una verdadera madre, ella camina con nosotros, lucha con nosotros, y derrama incesantemente la cercanía del amor de Dios» (Exhort. ap. Evangelii gaudium, 286), de modo tal que nadie se sienta excluido. Nuestra Madre no solo es cercana por ir a servir con esa «prontitud» (ibíd., 288) que es un modo de cercanía, sino también por su manera de decir las cosas. En Caná, el momento oportuno y el tono suyo con el cual dice a los servidores «Hagan todo lo que él les diga» (Jn 2,5), hará que esas palabras sean el molde materno de todo lenguaje eclesial. Pero para decirlas como ella, además de pedirle la gracia, hay que saber estar allí donde «se cocinan» las cosas importantes, las de cada corazón, las de cada familia, las de cada cultura. Solo en esta cercanía uno puede discernir cuál es el vino que falta y cuál es el de mejor calidad que quiere dar el Señor.
Les sugiero meditar tres ámbitos de cercanía sacerdotal en los que estas palabras: «Hagan todo lo que Jesús les diga» deben resonar ―de mil modos distintos pero con un mismo tono
materno― en el corazón de las personas con las que hablamos: el ámbito del acompañamiento espiritual, el de la confesión y el de la predicación.
La cercanía en la conversación espiritual, la podemos meditar contemplando el encuentro del Señor con la Samaritana. El Señor le enseña a discernir primero cómo adorar, en Espíritu y en verdad; luego, con delicadeza, la ayuda a poner nombre a su pecado y, por fin, se deja contagiar por su espíritu misionero y va con ella a evangelizar a su pueblo. Modelo de conversación espiritual es el del Señor, que sabe hacer salir a la luz el pecado de la Samaritana sin que proyecte su sombra sobre su oración de adoradora ni ponga obstáculos a su vocación misionera.
La cercanía en la confesión la podemos meditar contemplando el pasaje de la mujer adúltera. Allí se ve claro cómo la cercanía lo es todo porque las verdades de Jesús siempre acercan y se dicen (se pueden decir siempre) cara a cara. Mirando al otro a los ojos ―como el Señor cuando se puso de pie después de haber estado de rodillas junto a la adúltera que querían apedrear, y puede decir: «Yo tampoco te condeno» (Jn 8,11), no es ir contra la ley. Y se puede agregar «En adelante no peques más» (ibíd.), no con un tono que pertenece al ámbito jurídico de la verdad-definición ―el tono de quien siente que tiene que determinar cuáles son los condicionamientos de la Misericordia divina― sino que es una frase que se dice en el ámbito de la verdad-fiel, que le permite al pecador mirar hacia adelante y no hacia atrás. El tono justo de este «no peques más» es el del confesor que lo dice dispuesto a repetirlo setenta veces siete.
Por último, el ámbito de la predicación. Meditamos en él pensando en los que están lejos, y lo hacemos escuchando la primera prédica de Pedro, que debe incluirse dentro del acontecimiento de Pentecostés. Pedro anuncia que la palabra es «para los que están lejos» (Hch 2,39), y predica de modo tal que el kerigma les «traspasó el corazón» y les hizo preguntar: «¿Qué tenemos que hacer?» (Hch 2,37). Pregunta que, como decíamos, debemos hacer y responder siempre en tono mariano, eclesial. La homilía es la piedra de toque «para evaluar la cercanía y la capacidad de encuentro de un Pastor con su pueblo» (Exhort. ap. Evangelii gaudium, 135). En la homilía se ve qué cerca hemos estado de Dios en la oración y qué cerca estamos de nuestro pueblo en su vida cotidiana.
La buena noticia se da cuando estas dos cercanías se alimentan y se curan mutuamente. Si te sientes lejos de Dios, acércate a su pueblo, que te sanará de las ideologías que te entibiaron el fervor. Los pequeños te enseñarán a mirar de otra manera a Jesús. Para sus ojos, la Persona de Jesús es fascinante, su buen ejemplo da autoridad moral, sus enseñanzas sirven para la vida. Si te sientes lejos de la gente, acércate al Señor, a su Palabra: en el Evangelio, Jesús te enseñará su modo de mirar a la gente, qué valioso es a sus ojos cada uno de aquellos por los que derramó su sangre en la Cruz. En la cercanía con Dios, la Palabra se hará carne en ti y te volverás un cura cercano a toda carne. En la cercanía con el pueblo de Dios, su carne dolorosa se volverá palabra en tu corazón y tendrás de qué hablar con Dios, te volverás un cura intercesor.
Al sacerdote cercano, ese que camina en medio de su pueblo con cercanía y ternura de buen pastor (y unas veces va adelante, otras en medio y otras veces va atrás, pastoreando), no es que la gente solamente lo aprecie mucho; va más allá: siente por él una cosa especial, algo que solo siente en presencia de Jesús. Por eso, no es una cosa más esto de «discernir nuestra cercanía». En ella nos jugamos «hacer presente a Jesús en la vida de la humanidad» o dejar que se quede en el plano de las ideas, encerrado en letras de molde, encarnado a lo sumo en alguna buena costumbre que se va convirtiendo en rutina.
Le pedimos a María, «Nuestra Señora de la Cercanía», que «nos acerque» entre nosotros y, a la hora de decirle a nuestro pueblo que «haga todo lo que Jesús le diga», nos unifique el tono, para que en la diversidad de nuestras opiniones, se haga presente su cercanía materna, esa que con su «sí» nos acercó a Jesús para siempre.
Traduzione in lingua portoghese
Amados irmãos, sacerdotes da diocese de Roma e doutras dioceses do mundo!
Ao ler os textos da liturgia de hoje, vinha-me com insistência à mente a passagem do Deuteronómio que diz: «Que grande nação haverá que tenha um deus tão próximo de si como está próximo de nós o Senhor, nosso Deus, sempre que o invocamos?» (4, 7). A proximidade de Deus... a nossa proximidade apostólica.
No texto do profeta Isaías, contemplamos o Servo de Deus já «ungido e enviado», presente no meio do seu povo, próximo dos pobres, dos doentes, dos presos... e o Espírito que «está sobre Ele», que O impele e acompanha ao longo do caminho.
No Salmo 88, vemos como a companhia de Deus – que conduziu pela mão o rei David desde a sua juventude e lhe emprestou o seu braço até agora que é idoso – toma o nome de fidelidade: a proximidade mantida ao longo do tempo chama-se fidelidade.
O Apocalipse aproxima-nos – até no-Lo fazer ver – do Erchomenos, do Senhor que «vem», sem cessar, em Pessoa. A alusão ao facto de que «O verão até mesmo os que O trespassaram» faz-nos sentir que as chagas do Senhor ressuscitado permanecem visíveis, que o Senhor vem sempre ao nosso encontro, se quisermos «fazer-nos próximo» da carne de todos aqueles que sofrem, especialmente das crianças.
Na imagem central do Evangelho de hoje, contemplamos o Senhor através dos olhos dos seus compatriotas, que estavam «fixos n’Ele» (Lc 4, 20). Jesus levantou-Se para ler na sinagoga de Nazaré. Foi-Lhe entregue o rolo do profeta Isaías. Desenrolou-o até encontrar a passagem do enviado de Deus. Leu em voz alta: «O Espírito do Senhor está sobre Mim, (…) Me ungiu e enviou...» (61, 1). E concluiu afirmando a proximidade tão provocadora daquelas palavras: «Cumpriu-se hoje esta passagem da Escritura, que acabais de ouvir».
Jesus encontra a passagem e lê com a competência dos escribas. Poderia perfeitamente ter sido um escriba ou um doutor da lei, mas quis ser um «evangelizador», um pregador de estrada, o «Mensageiro de boas novas» para o seu povo, o pregador cujos pés são formosos, como diz Isaías (cf. 52, 7).
Esta é a grande opção de Deus: o Senhor escolheu ser Alguém que está próximo do seu povo. Trinta anos de vida oculta! Só depois começará a pregar. É a pedagogia da encarnação, da inculturação; não só nas culturas distantes, mas também na própria paróquia, na nova cultura dos jovens...
A proximidade é mais do que o nome duma virtude particular, é uma atitude que envolve a pessoa inteira, o seu modo de estabelecer laços, de estar contemporaneamente em si mesma e atenta ao outro. Quando as pessoas afirmam, dum sacerdote, que «está perto» da gente, habitualmente fazem ressaltar duas coisas: a primeira é que «está sempre» (ao contrário do que «nunca está»; deste costumam dizer: «Já sei, padre, que está muito ocupado!»). E a outra é que sabe ter uma palavra para cada um. «Fala com todos – dizem as pessoas –, com os grandes, com os pequenos, com os pobres, com aqueles que não creem... Padres próximos, que estão, que falam com todos…, padres de estrada.
Um que aprendeu bem, de Jesus, a ser pregador de estrada foi Filipe. Narram os Atos dos Apóstolos que ia de terra em terra, anunciando a Boa-Nova da Palavra, pregando em todas as cidades e que estas ficavam inundadas de alegria. Filipe era um daqueles que o Espírito podia «arrebatar» em qualquer momento e fazê-lo sair para evangelizar, deslocando-se dum lugar para outro, alguém capaz de batizar pessoas de boa fé, como o ministro da rainha da Etiópia, e fazê-lo ali mesmo, na estrada (cf. At 8, 5-8.26-40).
A proximidade é a chave do evangelizador, porque é uma atitude-chave no Evangelho (o Senhor usa-a para descrever o Reino). Já temos por adquirido que a proximidade é a chave da misericórdia, pois não seria misericórdia senão fizesse sempre de tudo, como boa samaritana, para eliminar as distâncias. Mas penso que precisamos de assumir melhor o facto de que a proximidade é também a chave da verdade. Podem-se eliminar as distâncias na verdade? Certamente. Com efeito,
a verdade não é só a definição que permite nomear situações e coisas mantendo-as à distância com conceitos e raciocínios lógicos. Não é só isso. A verdade é também fidelidade (emeth), aquela que te consente de designar as pessoas pelo seu próprio nome, como o Senhor as designa, antes de as classificar ou definir «a sua situação».
Devemos estar atentos para não cair na tentação de fazer ídolos com algumas verdades abstratas. São ídolos cómodos, ao alcance da mão, que dão um certo prestígio e poder e são difíceis de reconhecer. Porque a «verdade-ídolo» se mimetiza, usa as palavras evangélicas como um vestido, mas não deixa que lhe toquem o coração. E, pior ainda, afasta as pessoas simples da proximidade sanadora da Palavra e dos Sacramentos de Jesus.
Chegados aqui, voltemo-nos para Maria, Mãe dos sacerdotes. Podemos invocá-La como «Nossa Senhora da Proximidade»: «como uma verdadeira mãe, caminha connosco, luta connosco e aproxima-nos incessantemente do amor de Deus» (Exort. ap. Evangelii gaudium, 286), infunde sem cessar a proximidade do amor de Deus, de tal maneira que ninguém se sinta excluído. A nossa Mãe está próxima não só por partir com «prontidão» (Ibid., 288) para servir, que é uma forma de proximidade, mas também pela sua maneira de dizer as coisas. Em Caná, a tempestividade e o tom com que Ela diz aos serventes «fazei o que Ele vos disser» (Jo 2, 5) farão com que estas palavras se tornem o modelo materno de toda a linguagem eclesial. Mas, para as dizer como Ela devemos, além de pedir a graça, saber estar onde «se cozinham» as coisas importantes, aquelas que contam para cada coração, cada família, cada cultura. Só com esta proximidade será possível discernir qual é o vinho que falta e qual é o de melhor qualidade que o Senhor quer dar.
Sugiro, para meditação, três âmbitos de proximidade sacerdotal nos quais estas palavras «fazei o que Ele vos disser» devem ressoar – de mil modos diferentes, mas com o mesmo tom materno – no coração das pessoas com quem falamos: o âmbito do acompanhamento espiritual, o da Confissão e o da pregação.
A proximidade no diálogo espiritual, podemos meditá-la contemplando o encontro do Senhor com a Samaritana (cf. Jo 4, 5-41). O Senhor começa por lhe ensinar a reconhecer como adorar, em Espírito e em verdade; depois, com delicadeza, ajuda-a a dar um nome ao seu pecado; e, por fim, deixa-Se contagiar pelo seu espírito missionário e vai, com ela, evangelizar a sua povoação. Modelo de diálogo espiritual é este do Senhor, que sabe trazer à luz o pecado da Samaritana sem ensombrar a sua oração de adoração nem pôr obstáculos à sua vocação missionária.
A proximidade na Confissão, podemos meditá-la contemplando a passagem da mulher adúltera (cf. Jo 8, 3-11). Lá se vê claramente como a proximidade é decisiva, porque as verdades de Jesus sempre aproximam e se dizem (podem-se dizer sempre) face a face. Fixar o outro nos olhos – como o Senhor, quando Se levanta depois de ter estado de joelhos junto da adúltera que queriam lapidar, e lhe diz «também Eu não te condeno» (8, 11) – não é ir contra a lei. E pode-se acrescentar «de agora em diante não tornes a pecar», não com um tom que pertence à esfera jurídica da verdade-definição (o tom de quem deve determinar quais são as condições da Misericórdia divina), mas com uma frase dita na área da verdade-fiel que permita ao pecador olhar em frente e não para trás. O tom justo deste «não tornes a pecar» é o do confessor que o diz disposto a repeti-lo setenta vezes sete.
Por último, o âmbito da pregação. Meditemos nele pensando nas pessoas que estão afastadas e façamo-lo escutando a primeira pregação de Pedro, que teve lugar no contexto do Pentecostes (At 2, 14-36.38-40). Pedro anuncia que a palavra é «para todos os que estão longe» (2, 39), e prega de tal maneira que o querigma «os emocionou até ao fundo dos corações» e os fez perguntar: «Que havemos de fazer?» (2, 37). Uma pergunta que, como dizíamos, devemos pôr e responder sempre em tom mariano, eclesial. A homilia é a pedra de toque «para avaliar a proximidade e a capacidade de encontro de um Pastor com o seu povo» (Exort. ap. Evangelii gaudium, 135). Na homilia, vê-se quão próximo temos estado de Deus na oração e quão próximo estamos do nosso povo na sua vida diária.
A boa notícia concretiza-se quando estas duas proximidades se alimentam e ajudam mutuamente. Se te sentes longe de Deus, aproxima-te do seu povo, que te curará das ideologias que te entorpeceram o fervor. As pessoas simples ensinar-te-ão a ver Jesus doutra maneira. Aos seus olhos, a Pessoa de Jesus é fascinante, o seu bom exemplo dá autoridade moral, os seus
ensinamentos servem para a vida. Se te sentes longe das pessoas, aproxima-te do Senhor, da sua Palavra: no Evangelho, Jesus ensinar-te-á o seu modo de ver as pessoas, quanto vale aos seus olhos cada um daqueles por quem derramou o seu sangue na cruz. Na proximidade com Deus, a Palavra far-se-á carne em ti e tornar-te-ás um padre próximo de toda a carne. Na proximidade com o povo de Deus, a sua carne dolorosa tornar-se-á palavra no teu coração e terás de que falar com Deus, tornar-te-ás um padre intercessor.
O sacerdote vizinho, que caminha no meio do seu povo com proximidade e ternura de bom pastor (e, na sua pastoral, umas vezes vai à frente, outras vezes no meio e outras vezes ainda atrás), as pessoas não só o veem com muito apreço; mas vão mais além: sentem por ele qualquer coisa de especial, algo que só sente na presença de Jesus. Por isso, reconhecer a nossa proximidade não é apenas…mais uma coisa. Com efeito nisso se decide se queremos fazer Jesus presente na vida da humanidade ou se, pelo contrário, O deixamos no plano das ideias, encerrado em belas letras, quando muito encarnado nalgum bom hábito que pouco a pouco se torna rotina.
Peçamos a Maria, «Nossa Senhora da Proximidade», que nos aproxime entre nós e, na hora de dizer ao nosso povo «fazei o que Ele vos disser», nos unifique o tom, para que, na diversidade das nossas opiniões, se torne presente a sua proximidade materna, aquela que com o seu «sim» nos aproximou de Jesus para sempre.