mercoledì 7 marzo 2018

In terra straniera




(Manuel Nin) Nella tradizione liturgica bizantina lungo il periodo quaresimale molti tropari cantano la parabola del figliol prodigo. La parabola al quindicesimo capitolo del vangelo di Luca è letta nella seconda domenica prequaresimale, quasi a indicare che la stessa quaresima è un cammino di ritorno al Padre, di ritorno a Dio. All’inizio della quaresima poi la liturgia contemplerà l’espulsione di Adamo dal paradiso, e tutto il periodo dei quaranta giorni sarà visto come un ritorno al paradiso perduto. La parabola del figliol prodigo allora con il cammino dall’allontanamento al ritorno indica questo filo conduttore del percorso quaresimale e della stessa vita cristiana dal peccato alla grazia del perdono, dal paradiso da dove l’uomo è stato espulso al paradiso a cui il Signore stesso ci riporta nella notte di Pasqua.
Uno dei testi dell’ufficiatura mattutina bizantina di questo periodo liturgico è un poema dedicato appunto alla parabola del figliol prodigo. È opera di Giuseppe l’Innografo (812-886), originario della Sicilia, diventato monaco a Tessalonica e autore di diversi testi entrati nella liturgia bizantina. Esiliato in Crimea durante lo scisma di Fozio, una volta rientrato si mise al servizio della scuola poetica del monastero di Studion a Costantinopoli, dove morì.
Tre aspetti percorrono insistentemente e ripetutamente tutto il poema: il ritorno al padre e quindi il ritorno a Dio; poi lo straniarsi del figlio prodigo, come sinonimo dell’allontanamento da Dio a causa del peccato; infine il ritorno a Dio visto non soltanto come pentimento e riconciliazione ma anche come risurrezione e nuova creazione, passaggio dalla morte alla vita nel solco della stessa narrazione della parabola evangelica: «Perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato» (Luca 15, 24).
Ritorno al padre, ritorno a Dio. I tropari del poema riprendono questo aspetto, quasi un ritornello che segna tutto il testo: «Accoglimi al mio ritorno, o Padre, come uno dei tuoi mercenari, o salvatore, come un tempo il figliol prodigo che tornava a te». Il testo inoltre sottolinea come in questo incontro tra il figlio e il padre, è costui che corre incontro, costui che accoglie: «O Padre pietoso e misericordioso, accoglimi come il figliol prodigo, o mio salvatore, e non respingermi ora che con ardore ritorno, ma corrimi incontro ed abbracciami. Vienimi incontro, accoglimi e salvami, perché tu sei il pastore di quanti con fede in te si rifugiano. Ecco, Dio che vuole che tutti siano salvati, ti apre le braccia». Il padre che accoglie il figlio prodigo è dunque anche il buon pastore che accoglie, prende tra le sue braccia la pecora smarrita.
Un secondo aspetto che troviamo nel testo è il fuggire, andare in terra straniera. Lo straniarsi, farsi straniero, che nella tradizione monastica primitiva ha anche un senso positivo visto come lasciare, abbandonare tutto, diventare uno che non ha vincoli né legami se non con colui che lo sostiene, il Signore stesso; nel nostro poema invece lo straniarsi del figlio prodigo è visto come un allontanarsi da Dio stesso: «Allontanando il mio pensiero da ogni azione santa, me ne sono andato in una regione lontana, diventando schiavo di cittadini stranieri, ma ora a te grido: Accoglimi al mio ritorno, o Padre, come uno dei tuoi mercenari, o salvatore».
Un terzo aspetto messo in luce nel poema è quello del ritorno a Dio come risurrezione e nuova creazione, come un ritrovare la bellezza della creazione primigenia: «Nella tua pietà, accoglimi, o salvatore, mentre accorro con fede, come un tempo il figliol prodigo, e concedimi la liberazione dai miei mali, o Cristo: rendimi degno di recuperare con purezza la bellezza primigenia, celebrando, o salvatore, la tua ineffabile compassione».
Diverse volte il testo adopera l’immagine del rivestire la bellezza con cui il Signore crea l’uomo: «Compassionevole Signore, Padre di ogni pietà, accogli come figlio colui che ritorna da vie di malvagità, dandomi la bellezza con le vesti dell’impassibilità. Padre, adornami con sacre vesti, e rendimi partecipe dei tuoi beni. Fa’ splendere per me, che giaccio nella tenebra della perdizione, un raggio di pentimento, Signore, e rendimi splendente con le vesti di azioni virtuose, perché io sia degno del talamo spirituale, annoverato tra i figli del regno».
Troviamo ancora sottolineato il parallelo tra Cristo fattosi povero nella sua incarnazione, povero come Adamo, e il figlio prodigo impoveritosi nel suo farsi straniero: «Il Cristo da te, o Madre di Dio, ha assunto la carne, rivestendo la povertà di Adamo: prega di arricchire dei doni divini, o tutta immacolata, colui che a te inneggia con fede, ora che sono divenuto povero di ogni bene, come un tempo il figliol prodigo». Alcuni tropari mettono Cristo stesso come colui che accoglie il figlio prodigo pentito: «Contro te solo ho peccato, te solo, buono per natura, te, Verbo, ho provocato a sdegno: tu che solo sei ricco di ogni compassione, di nuovo accoglimi pentito: perché tu solo, o compassionevole, sei buono e ricco di misericordia. Cristo sovrano, ora vengo a te nel pentimento».
Troviamo quindi nel poema anche il ruolo di Maria come colei che intercede presso il Figlio il quale accoglie chi a lui ritorna tra le sue braccia, braccia aperte nella croce: «Immacolata madre dell’Emmanuele, imploralo, o pura, come madre sua, perché, come il figliol prodigo, accolga anche me, che mi sono allontanato dalla via di Dio affinché io mi presenti puro a colui che è nato, o pura, nel tuo grembo beato, o sposa di Dio».
L’amore e il perdono compassionevole di Dio che si è manifestato nell’incarnazione del Verbo, spingono l’uomo al pentimento e al ritorno tra le braccia del Padre: «Tu che non vuoi che nessun uomo si perda, fammi tornare, o Verbo, perché ho deviato dal retto sentiero e come il figliol prodigo sono caduto nel peccato: così io magnificherò il tuo amore per gli uomini».
L'Osservatore Romano