giovedì 26 aprile 2018
«Frutti»
«Frutti» è il titolo del terzo seminario internazionale pensato per elaborare «una teologia intrinsecamente femminile» che si tiene dal 27 al 29 aprile a Roma nella sede della Pontificia università Urbaniana grazie all’impulso di Lucinda M. Vardey. Rispondendo all’invito più volte ripetuto da Papa Francesco di elaborare «una profonda teologia delle donne», l’iniziativa si è articolata in tre convegni, tenutisi tutti in coincidenza del 29 aprile, festa di santa Caterina. Dopo «Lacrime» (2016) e «Cuore» (2017), l’incontro di quest’anno prevede interventi di Caterina
(Anne-Marie Pelletier) Attraverso il lavoro condotto in questi tre anni nel quadro dei nostri incontri, è stato proprio il contributo delle donne al nostro mondo contemporaneo l’oggetto delle nostre indagini sulla singolarità dell’esperienza femminile in materia sia antropologica sia spirituale.
Il tema della fecondità affrontato quest’anno dovrebbe offrirci l’occasione di progredire ulteriormente nel nostro cammino. Il termine implica subito una connotazione femminile, rinviando in particolare al rapporto che le donne intrattengono con la vita, attraverso il loro corpo che ne accoglie un altro e lo fa crescere nella maternità. Al tempo stesso, questa realtà suscita un proliferare di fantasie che si estende attraverso i millenni fino al tempo presente. Le realtà della gestazione, processo fino a poco tempo fa misterioso, che si dispiega nell’intimità del corpo femminile, sembra attirare e affascinare in maniera immemorabile lo sguardo maschile. Ne sono prova le statue di donne incinte, quelle Veneri dalle forme oltraggiose che si moltiplicarono sia nel paleolitico che nel neolitico, testimoniando una fissazione dell’immaginario sulla sessualità femminile, che rimanda in modo provocatorio, in epoca moderna, al celebre quadro di Courbet, dal titolo L’origine del mondo, interamente occupato dalla raffigurazione di un sesso femminile. Il che attesta un interesse transculturale, fatto di attrazione e di paure arcaiche dinanzi al mistero della vita nella sua origine, che sembra essere un segreto di donne e che tiene gli uomini a distanza. I rapporti tra erotismo e sacralità hanno certamente a che fare con tutto ciò. Ma s’intuisce anche quella che può essere la diffidenza della tradizione biblica rispetto a questo immaginario che reca così facilmente il sigillo del paganesimo che circonda Israele. Il mio obiettivo sarà proprio di apprezzare il modo in cui la Bibbia affronta la generazione materna e, più in generale, la fecondità. Una volta mostrato come essa si affranca dagli ammalianti sortilegi del sacro, si vedrà come restituisce alla fecondità una dimensione d’interiorità ignorata dal paganesimo. Si vedrà, in particolare, come consente di riconoscere un certo ritmo dell’agire fecondo al femminile che, in modo sorprendente, si ritrova a caratterizzare il discorso biblico su Dio e sul suo modo di presenza e d’intervento nella storia. Si dovrebbe così poter valutare l’importanza e il prezzo di questa esperienza femminile della fecondità in un mondo trascinato oggi nelle esaltazioni di un’accelerazione generalizzata.
Cominciamo con una costatazione: la sola evocazione a livello dei due Testamenti di una fecondità genesica, collegata a un vitalismo naturalista, s’iscrive, trasversalmente e in modo molto polemico, nella menzione dell’Artemide degli efesini nel capitolo 19 del libro degli Atti degli apostoli. Si ricorderà che quest’ultima è raffigurata sotto forma di una dea dal cui petto proliferano pesanti grappoli di seni. Ispirata forse dalle dee-madri dell’Anatolia, questa raffigurazione strana, tipica di un immaginario pagano affascinato e incontrollato, è all’origine della sommossa che suscita, nell’ambiente degli orafi e dei commercianti che gravitano attorno al tempio di Efeso, la predicazione di Paolo che minaccia il loro commercio. Così questa raffigurazione di una femminilità identificata con un’esuberanza sessuale non può che rispuntare, implicitamente, all’interno del corpo biblico. Si esprime qui una chiara condivisione tra Israele e i paganesimi circostanti.
Non che il mondo biblico si distaccasse dalle culture umane, identificando così costantemente le donne con la loro funzione di genitrici e di madri. Siamo in realtà in un universo patriarcale che deputa le donne anzitutto alla procreazione e dove la sterilità costituisce un disonore che destina all’ignominia. Così la condizione delle donne, qui come altrove, associa l’esercizio della maternità, appannaggio femminile, a un’identità ontologicamente inferiore, che si traduce in una condizione subalterna. È d’altra parte proprio lo schema che si ritrova nelle parole della prima lettera a Timoteo, testo alquanto misogino, che imputa la colpa originale alla donna prima di concludere che «essa potrà essere salvata partorendo figli» (2, 15).
Ciò premesso, la Bibbia resta fondamentalmente sobria in merito alla generazione e al parto. Questa realtà è forse troppo banale agli occhi degli autori biblici per essere oggetto di sviluppi particolari? Ma non è certo che non ve ne siano. Di fatto non si può non constatare che essa è evocata con la stessa sorprendente neutralità che contraddistingue la menzione della morte. Al «si addormentò con i padri» per indicare la fine di una vita, sembrano fare eco le laconiche menzioni delle unioni da cui nascono le generazioni d’Israele: quell’uomo “conobbe” quella donna, che partorì. Come se l’espressione osservasse una stessa ascesi per evocare l’inizio e la fine della vita, questi due momenti tanto propizi agli straripamenti dell’immaginario. In ogni caso, la sobrietà del testo riguardo alla prima consegna ricevuta dall’umanità in Genesi 1, 28 («siate fecondi, moltiplicatevi»), ha come effetto quello di favorire il dispiegarsi di una dimensione d’interiorità, sulla quale vorrei soffermarmi.
Questa nota d’interiorità caratterizza proprio uno dei rari commenti biblici sulla gestazione e il parto. Non è irrilevante che sia stato messo sulla bocca di una donna. Mi riferisco alle parole della madre dei sette fratelli, nel secondo libro dei Maccabei. Esortando i suoi figli a non rinnegarsi trasgredendo la legge, invoca la potenza di Dio capace di ridare loro la vita al di là della morte, ricordando il modo in cui hanno preso forma nella sua carne: «Non so come siate apparsi nel mio seno; non io vi ho dato lo spirito e la vita, né io ho dato forma alle membra di ciascuno di voi» (7, 22). Così il mistero della vita trasmessa e ricevuta non è espresso qui dalla fantasia maschile, ma suggerito discretamente, come un enigma che si sottrae alla donna stessa e che questa può nominare rinviando al segreto della vita di Dio. Così è anche la dimensione che la maternità assume attraverso il racconto patriarcale che ricorda le matriarche sterili che hanno ricevuto da Dio la capacità di partorire, dando così consistenza e futuro alla promessa. L’esperienza del “nulla è impossibile a Dio”, che si vive in questi parti miracolosi della storia d’Israele, entra singolarmente in risonanza con l’esperienza della maternità esplorata con grande intensità da Carla Canullo nel suo libro Essere madre (2009). Esperienza della «vita sorpresa» che si rinnova nell’emozione assoluta che produce la venuta dell’altro portato nell’intimità della carne. Presenza inedita, sconosciuta, donata e affidata con il suo carico di oneri, derivanti da un’alterità che sconvolge la carne e la vita che l’accolgono.
Un’altra indicazione è data nel Salmo 139. Parole di un uomo, questa volta, che ricorda la sua stessa vita come un mistero nascosto in Dio, ancor prima della sua nascita: «Sei tu che hai formato le mie reni, che mi hai intessuto nel seno di mia madre… Le mie ossa non ti erano nascoste, quando fui formato in segreto e intessuto nelle profondità della terra. I tuoi occhi videro la massa informe del mio corpo» (13-16). La stessa allusione a una tessitura di vita si ritrova sulla bocca di Giobbe che si rivolge a Dio come colui che l’ha «rivestito di pelle e di carne» (10, 11). L’espressione va tenuta presente in quanto contiene un prezioso suggerimento. Tessere, in effetti, è un’attività silenziosa, un gesto laborioso, fedelmente ed efficacemente ripetitivo, che si compie nel tempo. E che manifesta la fecondità della pazienza del tempo, quando appare nella sua compiutezza il disegno di un tessuto o la solidità di una tela. Lo stesso vale per l’umano generato dal lavoro nascosto, invisibile ma attivamente fecondo, che si opera nel ventre materno.
Il racconto della Visitazione in Luca s’iscrive in modo singolare nel registro di questa vita nascosta che cresce e da cui si origina la storia delle generazioni e del mondo intero. Il dipinto di Pontormo che accompagna il nostro convegno ne è testimonianza. Due donne s’incontrano, entrambe portatrici, ognuna a suo modo, della “vita sorpresa” di cui Dio ha l’iniziativa nella loro carne. C’è molto silenzio in questa scena densa di riconoscenza che ha una naturalezza e una grazia di pericoresi. Due volti di donna figurano in secondo piano, una giovane e una anziana, come se insieme ricoprissero tutto lo spettro della vita al femminile. Il segreto scambiato tra Maria ed Elisabetta non è forse prima di tutto un segreto di donne, al quale tuttavia accede il bambino — la cui esistenza si sta tessendo — che Dio ha donato alla vecchiaia di Zaccaria e di Elisabetta e che sussulta in seno alla madre alla presenza di Maria? La gioia di quel sussulto, che solo la carne materna percepisce, è una risonanza silenziosa e decisiva dell’opera divina che sta prendendo forma nel corpo di Maria. E tutto ciò avviene al ritmo congiunto della vita di due donne e del calendario della storia divina che s’iscrive in quei giorni: durante il sesto mese di Elisabetta, precisa il testo, Maria riceve la visita dell’angelo di Dio; dopo aver accompagnato gli ultimi tre mesi di gravidanza della parente, Maria giunge lei stessa al giorno della nascita di Gesù. Nessuna urgenza, se non quella di affrettare l’ora della salvezza, può stravolgere le scadenze della maternità.
«Occorrono nove mesi per fare un uomo e un solo giorno per ucciderlo», Si sarebbe tentati di riconoscere in questa frase di La condizione umana di Malraux il suggerimento di due temporalità. Una è quella degli eventi nel presente immediato, dove la decisione è posta nell’istante e dove l’atto s’iscrive in un mondo di azione senza indugio. Temporalità che è in affinità con la mascolinità, e che comporta la terribile efficacia, secondo Malraux, di poter tagliare il filo di una vita, nell’istante di un gesto omicida. Al contrario, la temporalità femminile costruisce nella pazienza del tempo, edifica la vita e la storia al ritmo lento di una crescita interiore. È esemplarmente quella dell’attesa che caratterizza la tessitura della gestazione.
È però ben lungi dall’essere solamente l’esperienza di un tempo che cesserebbe con la nascita. Poiché è allora, sottolinea Claudia Canullo, che l’attesa si rivela come modalità della vita intera, e non solo di uno dei suoi momenti. Pazientemente, si tratta ora di lasciare esistere l’altro nel tempo, dove diviene se stesso giorno dopo giorno, affermandosi nella sua diversità. In realtà, questo ritmo lento della pazienza e dell’attesa qualifica la vita e permea i gesti delle donne. Si ritrova come inciso nell’essere-donna, persino al di là dell’esperienza carnale della maternità. Per istinto, le donne sanno che la vita ha come condizione il consenso all’attesa, che la fecondità vuole la pazienza che permette la maturazione, la fiducia che ha valore al di là dei limiti dell’istante presente. Ci si ricorderà così di come, nella storia degli inizi dell’Europa cristiana — mentre alcuni sovrani battezzavano in tutta fretta eserciti e intere popolazioni — furono delle donne a ricordare la necessità di rispettare le scadenze di una vera evangelizzazione. Parimenti, le donne sanno durare in una perseveranza che non cede mai, persino quando l’irreparabile è stato commesso. Tutto ciò è stato ricordato proprio qui, lo scorso anno, rievocando la resistenza femminile in America latina. C’è un modo femminile di confrontarsi con il tempo, di farne un alleato per riparare, consolare, ricostruire e contrapporre la fedeltà della memoria — memoria combattente se necessario — al disonore o alla perdita.
È evidente, la fede e la vita spirituale sono intrinsecamente coinvolte in un ritmo singolare che implica la pazienza del tempo, la resistenza della speranza e il consenso a una storia profonda che non coincide con il ritmo del tempo immediato, quello della visibilità mondana degli eventi. Ebbene, si deve ammettere che tra queste due temporalità il divario è oggi aumentato in modo inedito. Il sociologo Hartmunt Rosa, in effetti, fa dell’accelerazione una delle caratteristiche principali della tarda modernità in cui viviamo. Molto più decisiva, sostiene, dell’espansione sfrenata dei processi di razionalizzazione e d‘individualizzazione. Nel suo famoso libro Accelerazione e alienazione. Per una teoria critica del tempo nella tarda modernità elenca le modalità di questa accelerazione, che rimodella le relazioni sociali, permea la vita economica e culturale, modifica profondamente il rapporto soggettivo con se stessi nelle società contemporanee. Così viviamo sempre più in un mondo d’identità instabili, in un tempo dominato dalle scadenze, dall’instaurazione di una inter-comunicazione istantanea, dove l’uomo è sradicato e trascinato alla cieca in un futuro immaginario. Questa logica ha innegabilmente una connotazione più maschile che femminile. Il che significa anche che l’esperienza delle donne potrebbe e dovrebbe essere più che mai antidoto vitale a un mondo di visibilità senza ombra, di fuga in un’accelerazione generalizzata, diventando sempre più straniero al ritmo profondo della vita spirituale. Hartmunt Rosa si dichiara pessimista nella sua ricerca di pratiche di decelerazione che possano salvarci dalle esaltazioni suicide della cultura contemporanea. Forse sarebbe meno disincantato se si ricordasse che la parte femminile della nostra umanità custodisce, per sé e per tutti, questo segreto vitale di un tempo diverso da quello che le nostre tecniche strumentalizzano.
«Occorrono nove mesi per fare un uomo», il che è vero ancora oggi. Questa banalità antropologica — che resiste in un’epoca di discutibili manipolazioni della procreazione o della pratica delle madri surrogate — resta un baluardo a protezione della nostra umanità. Questa esperienza propria della vita delle donne è direttamente coinvolta nella lotta contro le tentazioni disumanizzanti che assillano le nostre società.
L'Osservatore Romano
Una domanda per vivere.
Riflessione sulla trasmissione dell’eredità cristiana
(Pablo D'Ors) Oggi nessuno può mettere in dubbio che il Cristianesimo in occidente sia in declino. Non si tratta solo di ammettere che le chiese sono sempre meno frequentate perché c’è quasi un senso di sospetto nei confronti delle istituzioni. Non è solo una reazione ai molti abusi ecclesiastici e statali che l’uomo di oggi — noi — sia diventato allergico a qualunque tipo di istituzione. La cosa va molto oltre. Teorici riconosciuti hanno dichiarato l’ambiguità delle religioni, causa di innumerevoli disordini e ingiustizie: ideologie fanatiche, manipolazioni della coscienza, guerre di religione...
Lo scetticismo generalizzato, perciò, non influisce solo su ciò che è ecclesiale, ma anche su ciò che è religioso e di fatto considerato superato e irrazionale. Ciò spiega perché i cristiani di oggi vivano con imbarazzo in un’Europa che non nasconde un certo rifiuto al cristianesimo, a volte quasi un disprezzo. Tutti sappiamo bene che tutto ciò si traduce in una indifferenza generalizzata, e un’esclusione dei cristiani dalla vita pubblica, ironia serpeggiante, fino a diventare umiliazione esplicita. C’è tuttavia, sfortunatamente, qualcosa di più. Questa critica sistematica, sistematicamente diffusa dai mezzi di comunicazione sociale, ha fatto sì che il sospetto di fronte a ciò che è religioso gravi non solo sui riti, i miti e le parole della fede cristiana, ma anche sui suoi pilastri fondamentali: lo stesso Gesù Cristo generalmente non è più visto come il figlio di Dio, ma solo come un gran maestro, perciò allo stesso livello di altri maestri di altre tradizioni. La questione allora è che cosa stiamo facendo noi e che cosa siamo disposti a fare.
Siamo eredi di un patrimonio spirituale di primissimo ordine ed è estremamente importante, per dovere di fronte alla cultura e per fedeltà al nostro passato, non solo conservarlo come una reliquia, ma anche rinnovarlo perché possa continuare a portare vita. Rinnovare significa rivisitare, naturalmente, capire bene quello che si è fatto, però anche riconsiderare e cercare nuove formule che, rispettando la tradizione, non solo la mantengano, ma permettano di raggiungere livelli più alti per rispondere alle necessità spirituali delle persone. Questo è l’obiettivo del patrimonio spirituale che, se non alimenta la nostra interiorità, anche se buono non ha vita. È certo tuttavia che questo passato cristiano sembra troppo pesante e fastidioso per le nostre spalle, e perciò ce ne stiamo distaccando. Stiamo rinunciando alla nostra eredità, non possiamo negarlo. E l’uomo che rinuncia al suo passato, può sapere dove sta oggi e dove si dirige per il futuro?
Qualcuno, chissà noi stessi, più che rifiutare l’eredità — attitudine tipica dei ribelli — selezioniamo ciò che ci interessa, lasciando da parte, quasi sempre per pigrizia o per incomprensione, ciò che ci sembra inattuabile oggi. Questo atteggiamento sincretico, che non riesce a fecondare una sapiente tradizione con un’altra, ma che si limita ad una capricciosa contrapposizione, ha generato quello che i sociologi hanno denominato “Spiritualità alla carta”, che definisce la maggior parte dei cosiddetti “cercatori spirituali”. Questa scelta, come non potrebbe essere altrimenti, non è solo egocentrica, in quanto mette al centro l’individuo, ma egoista perché, ponendo la centralità nell’individuo, non si preoccupa realmente dell’altro. Una meditazione che non sia dettata dalla compassione non è meditazione cristiana, né buddista o di qualunque altra religione. Alterare il significato di “spiritualità” riducendola a puro benessere fisico e psichico è molto frequente oggi. L’obiettivo finale della spiritualità non è semplicemente la pace interiore, ma piuttosto l’amore verso gli altri. E questo deve essere sempre molto chiaro per generare, tra di noi, non una specie di aristocrazia dello spirito, ma piuttosto un maggior senso di umanità.
Tutto ciò che è cristiano oggi è considerato in occidente, dobbiamo ammetterlo, insignificante e quasi disprezzabile. Qualcosa da lasciare definitivamente indietro, un controsenso in una società evoluta come la nostra, un paradosso rispetto al pensiero tecnico e altamente civilizzato. Mostrarsi orgogliosi di essere cristiani o, senza arrivare a questo punto, testimoniare tranquillamente la propria convinzione religiosa, si considera oggi “politicamente non corretto”, quasi una provocazione. Questo “humus” si è esteso in tal modo che si può dire, senza esagerare, che oggi in Europa regna un’ignoranza assoluta su tutto ciò che si riferisce al patrimonio biblico, teologico, liturgico e spirituale che offre il cristianesimo. Questa ignoranza con gli anni guadagna terreno.
La principale responsabile di questa deplorevole situazione è — secondo me — la stessa Chiesa che durante secoli ha lottato più per la sua sussistenza come istituzione che per il regno di Dio. La chiesa cattolica è la prima responsabile, anche se — naturalmente — non l’unica, di aver ceduto, per dirlo in termini di Papa Francesco, all’autoreferenzialità, cioè per avere guardato al proprio interno invece di guardare al mondo. Questo è il principale peccato, questo è ciò che come chiesa dobbiamo redimere. E per questo, che lo sappiamo o no, siamo venuti a questo ritiro: per cominciare un modesto ma necessario rinnovamento religioso ed ecclesiale. Secondo il mio punto di vista, noi, Gli Amici del Deserto, siamo coloro, assieme ad altri, che sono chiamati a realizzare questo compito.
Rispondere oggi per rendere possibile una vita interiore non sarà possibile se prima non ascoltiamo e rispondiamo a una domanda. Quando, dopo la resurrezione, Gesù Cristo appare ai suoi discepoli alla riva del lago Tiberiade, e pone a Simon Pietro per tre volte questa domanda che formula anche oggi a noi: «Pietro, figlio di Giovanni, mi ami?» (Giovanni 21, 15-17). Alle sue risposte affermative, Gesù risponde sempre con le stesse parole «pasci le mie pecore», cioè prenditi cura delle persone che ti stanno vicine. L’amore per il Signore si realizza nel prendersi cura dei propri simili.
Pietro è l’uomo che ha rinnegato Gesù e si è purificato con le sue lagrime, questo lo sappiamo. Però Pietro non è semplicemente un uomo focoso e spaccone, ma qualcuno che ha vissuto l’esperienza della propria debolezza. Perciò, umile e più se stesso che mai, ora è capace di rispondere: Signore tu che sai tutto, sai che ti amo. È una risposta che viene dal cuore, non dal cervello né dalle viscere. È una risposta che guarda all’orizzonte più nobile — l’amore — però con la coscienza dei propri limiti e della debolezza della carne.
Tutte le dichiarazioni d’amore scaturiscono da un insuccesso amoroso. Il nostro sì alla meditazione cristiana, la nostra accettazione di questa immensa eredità spirituale sarà affidabile perché sappiamo che non si può costruire sopra le nostre capacità o i nostri meriti — come hanno tentato le generazioni che ci hanno preceduto — ma solo su di Lui. E quindi, fissando il nostro sguardo su di Lui, e non su di noi, questa è la vocazione al deserto alla quale siamo stati convocati. Questo è il punto: solo meditando possiamo arrivare a sperimentare lo sguardo trasformatore di Gesù, quello sguardo che fa di noi uomini e donne nuovi. Solo così, meditando, si realizza il grande miracolo: Dio dialoga con Dio, in silenzio, nello scenario dell’anima umana. Il sogno di essere un uomo che ha in sé Dio sta per compiersi. Siamo pronti per svegliarci. Perciò sederci a meditare giorno dopo giorno, con incrollabile fedeltà e con umiltà messa alla prova, è il segno incontestabile che vogliamo ascoltare questa domanda: Pietro, figlio di Giovanni, mi ami? La vita che conduciamo, solo quello, sarà la nostra risposta.
L'Osservatore Romano
mercoledì 25 aprile 2018
L'Udienza generale di Papa Francesco. Il battesimo è il sacramento della fede.
Appello del Santo Padre per la pace nella Penisola Coreana
Sala stampa della Santa Sede
***
L'Udienza generale di Papa Francesco. Il battesimo è il sacramento della fede. Non è una formula magica. E' un dono
Sala stampa della Santa Sede
Al termine della lettura della Catechesi in italiano, il Papa ha rivolto il seguente appello:
Appello del Santo Padre
Venerdì prossimo, 27 aprile, a Panmunjeom si terrà un Summit Inter-Coreano, al quale prenderanno parte i Leader delle due Coree, il Signor Moon Jae-in e il Signor Kim Jong Un. Tale incontro sarà un’occasione propizia per avviare un dialogo trasparente e un percorso concreto di riconciliazione e di ritrovata fraternità, al fine di garantire la pace nella Penisola Coreana e nel mondo intero.
Al Popolo Coreano, che desidera ardentemente la pace, assicuro la mia personale preghiera e la vicinanza di tutta la Chiesa. La Santa Sede accompagna, sostiene e incoraggia ogni iniziativa utile e sincera per costruire un futuro migliore, all’insegna dell’incontro e dell’amicizia tra i popoli. A coloro che hanno responsabilità politiche dirette, chiedo di avere il coraggio della speranza facendosi “artigiani” di pace, mentre li esorto a proseguire con fiducia il cammino intrapreso per il bene di tutti.
(Alla fine dell'appello Papa Francesco invita tutti i fedeli a pregare insieme il Padre Nostro)
Appello del Santo Padre
Venerdì prossimo, 27 aprile, a Panmunjeom si terrà un Summit Inter-Coreano, al quale prenderanno parte i Leader delle due Coree, il Signor Moon Jae-in e il Signor Kim Jong Un. Tale incontro sarà un’occasione propizia per avviare un dialogo trasparente e un percorso concreto di riconciliazione e di ritrovata fraternità, al fine di garantire la pace nella Penisola Coreana e nel mondo intero.
Al Popolo Coreano, che desidera ardentemente la pace, assicuro la mia personale preghiera e la vicinanza di tutta la Chiesa. La Santa Sede accompagna, sostiene e incoraggia ogni iniziativa utile e sincera per costruire un futuro migliore, all’insegna dell’incontro e dell’amicizia tra i popoli. A coloro che hanno responsabilità politiche dirette, chiedo di avere il coraggio della speranza facendosi “artigiani” di pace, mentre li esorto a proseguire con fiducia il cammino intrapreso per il bene di tutti.
(Alla fine dell'appello Papa Francesco invita tutti i fedeli a pregare insieme il Padre Nostro)
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L'Udienza generale di Papa Francesco. Il battesimo è il sacramento della fede. Non è una formula magica. E' un dono
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Continuiamo la nostra riflessione sul Battesimo, sempre alla luce della Parola di Dio.
E’ il Vangelo a illuminare i candidati e a suscitare l’adesione di fede: «Il Battesimo è in modo tutto particolare “il sacramento della fede”, poiché segna l’ingresso sacramentale nella vita di fede» (Catechismo della Chiesa Cattolica, 1236). E la fede è la consegna di sé stessi al Signore Gesù, riconosciuto come «sorgente di acqua […] per la vita eterna» (Gv 4,14), «luce del mondo» (Gv 9,5), «vita e risurrezione» (Gv 11,25), come insegna l’itinerario percorso, ancora oggi, dai catecumeni ormai prossimi a ricevere l’iniziazione cristiana.
Educati dall’ascolto di Gesù, dal suo insegnamento e dalle sue opere, i catecumeni rivivono l’esperienza della donna samaritana assetata di acqua viva, del cieco nato che apre gli occhi alla luce, di Lazzaro che esce dal sepolcro. Il Vangelo porta in sé la forza di trasformare chi lo accoglie con fede, strappandolo dal dominio del maligno affinché impari a servire il Signore con gioia e novità di vita.
Al fonte battesimale non si va mai da soli, ma accompagnati dalla preghiera di tutta la Chiesa, come ricordano le litanie dei Santi che precedono l’orazione di esorcismo e l’unzione prebattesimale con l’olio dei catecumeni. Sono gesti che, fin dall’antichità, assicurano quanti si apprestano a rinascere come figli di Dio che la preghiera della Chiesa li assiste nella lotta contro il male, li accompagna sulla via del bene, li aiuta a sottrarsi al potere del peccato per passare nel regno della grazia divina. Per questo, il cammino dei catecumeni adulti è segnato da ripetuti esorcismi pronunciati dal sacerdote (cfr CCC, 1237), ossia da preghiere che invocano la liberazione da tutto ciò che separa da Cristo e impedisce l’intima unione con Lui. Anche per i bambini si chiede a Dio di liberarli dal peccato originale e consacrarli dimora dello Spirito Santo (cfr Rito del Battesimo dei bambini, n. 56). Come attestano i Vangeli, Gesù stesso ha combattuto e scacciato i demoni per manifestare l’avvento del regno di Dio (cfr Mt 12,28): la sua vittoria sul potere del maligno lascia libero spazio alla signoria di Dio che rallegra e riconcilia con la vita.
Il Battesimo non è una formula magica, ma un dono dello Spirito Santo che abilita chi lo riceve «a lottare contro lo spirito del male», credendo che «Dio ha mandato nel mondo il suo Figlio per distruggere il potere di satana e trasferire l’uomo dalle tenebre nel suo regno di luce infinita» (cfr Rito del Battesimo dei bambini, n. 56). Sappiamo per esperienza che la vita cristiana è sempre soggetta alla tentazione di separarsi da Dio, dal suo volere, dalla comunione con lui, per ricadere nei lacci delle seduzioni mondane.
Oltre alla preghiera, vi è poi l’unzione sul petto con l’olio dei catecumeni, i quali «ne ricevono vigore per rinunziare al diavolo e al peccato, prima di appressarsi al fonte e rinascervi a vita nuova» (Benedizione degli oli, Premesse, n. 3). Per la proprietà dell’olio di penetrare nei tessuti del corpo portandovi beneficio, gli antichi lottatori usavano cospargersi di olio per tonificare i muscoli e per sfuggire più facilmente alla presa dell’avversario. Alla luce di questo simbolismo, i cristiani dei primi secoli hanno adottato l’uso di ungere il corpo dei candidati al Battesimo con l’olio benedetto dal Vescovo[1], al fine di significare, mediante questo «segno di salvezza», che la potenza di Cristo Salvatore fortifica per lottare contro il male e vincerlo (cfr Rito del Battesimo dei bambini, n. 105).
E’ faticoso combattere contro il male, sfuggire ai suoi inganni, riprendere forza dopo una lotta sfiancante, ma dobbiamo sapere che tutta la vita cristiana è un combattimento. Dobbiamo però anche sapere che non siamo soli, che la Madre Chiesa prega affinché i suoi figli, rigenerati nel Battesimo, non soccombano alle insidie del maligno ma le vincano per la potenza della Pasqua di Cristo. Fortificati dal Signore Risorto, che ha sconfitto il principe di questo mondo (cfr Gv 12,31), anche noi possiamo ripetere con la fede di san Paolo: «Tutto posso in colui che mi dà la forza» (Fil 4,13).
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[1] Ecco la preghiera di benedizione, espressiva del significato di quest’olio: «O Dio, sostegno e difesa del tuo popolo, benedici quest’olio nel quale hai voluto donarci un segno della tua forza divina; concedi energia e vigore ai catecumeni che ne riceveranno l’unzione, perché illuminati dalla tua sapienza, comprendano più profondamente il Vangelo di Cristo; sostenuti dalla tua potenza, assumano con generosità gli impegni della vita cristiana; fatti degni dell’adozione a figli, gustino la gioia di rinascere e vivere nella tua Chiesa»: Benedizione degli oli, n. 21.
martedì 24 aprile 2018
Ritorno al Kerygma!
Lo Spirito del Signore fu su Gesù di Nazareth soprattutto perchè predicasse il lieto annunzio che il Regno di Dio era arrivato. Oggi lo Spirito Santo è sulla Chiesa ( e su coloro che la Chiesa manda ad evangelizzare), per lo stesso scopo: perchè proclami il lieto annunzio che Gesù, crocifisso e risorto, è il Signore. E' questa la vera "spada dello Spirito", e questa spada ci serve ancora, anzi oggi più che mai: essa soltanto infatti può trapassare la spessa coltre di incredulità che è scesa sul mondo e sul cuore stesso di molti cristiani. Attenzione però: se uno usa la spada o il coltello o qualsiasi altra lama, di piatto anzichè di taglio o di punta, essa non ferisce nessuno; così è della predicazione della Chiesa: se diciamo mille cose, tra cui anche "Gesù è il Signore", quest'ultima cosa non "trafigge il cuore", come si legge che avvenne quando Pietro proclamò, dopo la Pentecoste: "Voi avete ucciso Gesù di Nazareth; Dio lo ha risuscitato. Pentitevi!" (At. 2, 37).
E' stato scritto: "All'inizio era il Kerygma" (Dibelius): questa frase vuol dire che la Chiesa è nata dal Kerygma. Se è vero che la nostra situazione odierna è tornata ad essere più vicina a quella della Chiesa delle origini (quando il cristianesimo agiva in un mondo pagano ad esso estraneo e ostile), che non alla situazione post-costantiniana, l'appello che ci viene dall'esperienza della Chiesa primitiva è di tornare a ripristinare il Kerygma apostolico che servì ad annunciare la fede al mondo pagano e intorno a cui si formò la prima comunità, distinguendolo da ogni altra cosa, perfino dalla catechesi. Bisogna che questo annuncio fondamentale sia proposto nitidamente NON solo ai catecumeni, ma a tutti, dal momento che la maggioranza dei credenti di oggi non è passata attraverso il catecumenato. La proclamazione di Gesù come Signore dovrebbe trovare il suo posto d'onore in tutti i momenti forti della vita cristiana: nel battesimo degli adulti, nel culto eucaristico, nel rinnovamento delle promesse battesimali, nelle conversioni individuali, all'inizio di scuole di catechesi, di gruppi biblici e di preghiera, in occasione di esercizi spirituali o di missioni al popolo, nella celebrazione dei funerali... Sembra che Dio stia suscitando di nuovo fame e sete di questo annuncio, che costituisce la più radicale alternativa ai falsi idoli e alla falsa sapienza del mondo. In ogni città Cristo dice agli annunciatori del Vangelo ciò che disse a Paolo quando giunse a Corinto: Non aver paura, ma continua a parlare e non tacere... perchè io ho un popolo numeroso in questa città (At. 18, 9s): un popolo numeroso, ma ancora nascosto che aspetta anch'esso di uscire dal grande utero dell'ignoranza e trasalire alla luce della Verità!
La domanda più seria però è questa: quanti sono pronti a proclamare questo annuncio "!nello Spirito Santo", cioè da veri credenti, correndo il rischio, se occorre, dell'inferiorità culturale di fronte ai difensori della pura ragione e di fronte a coloro che hanno come obiettivo principale quello di rispondere alle attese del mondo; quanti cioè sono pronti a ripetere con Paolo: "La mia parola e il mio messaggio non si basano su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello dello Spirito e della sua potenza" (1Cor. 2, 4). Nessuno può dire: Gesù è il Signore!, se non sotto l'azione dello Spirito Santo, cioè se non è lui stesso in stato di confessione. Se lo dice non "sotto l'azione dello Spirito Santo", ma anzi nel peccato o nella miscredenza o nell' abitudine, resta un dire umano che non contagia nessuno; il contagio avviene in presenza di uno che ha la malattia, non di uno che parla della malattia! Ho toccato io stesso con mano la forza per così dire autogena che si sprigiona dall' annuncio del Kerygma: ho visto accendersi sguardi, drizzarsi orecchi e come un brivido correre tra chi ascoltava, segno di una potenza misteriosa racchiusa in quella Parola e resa operante dallo Spirito Santo.
Come all'inizio della Chiesa, anche oggi, ciò che può scuotere il mondo dal torpore dell'incredulità e convertirlo al Vangelo non sono le apologie, i trattati teologici o le discussioni interminabili; è l'annuncio semplice, ma forte della fortezza stessa di Dio, che "Gesù è il Signore!".
LO SPIRITO CREATORE E LA MISERICORDIA DIVINA
P. Raniero Cantalamessa, ofmcap.
LO SPIRITO CREATORE E LA MISERICORDIA DIVINA
Novara, Cattedrale 4 Marzo 2016
Guardando con attenzione la locandina con il programma degli eventi quaresimali della vostra diocesi, mi è sembrato di capire che il tema di fondo è quello scritto a lettere cubitali nel frontespizio: “Veni creator Spiritus”. Una riflessione dunque sullo Spirito Santo creatore; ma una riflessione che si svolge nell’anno della misericordia e che non vuole prescindere da questo contesto. Questo, penso, vuol significare l’immagine del ritorno del figliol prodigo di Marc Chagall riprodotta nella stessa locandina. Mi sforzerò di rispondere a questa duplice attesa svolgendo con voi una riflessione prima sullo Spirito Santo come creatore e poi sulla sua relazione con la misericordia. Con ciò spero di rispondere, indirettamente, anche al titolo specifico dato a questo incontro: “Va’ e ripara la mia Chiesa”.
1. L’esperienza dello Spirito come creatore Il testo da cui partire per una riflessione sullo Spirito creatore è Genesi 1, 1-3: “In principio Dio creò il cielo e la terra. La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l'abisso e lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque. Dio disse: Sia la luce! E la luce fu”. A proposito di questo testo, Sant’Ambrogio fa questa osservazione illuminante: “Quando lo Spirito cominciò ad aleggiare su di esso, il creato non aveva ancora alcuna bellezza. Invece, quando la creazione ricevette l’operazione dello Spirito, ottenne tutto questo splendore di bellezza che la fece rifulgere come ‘mondo’ ”1 . In altre parole, il creato era vuoto, tenebra, caos, finché lo Spirito di Dio non cominciò ad aleggiare su di esso. È solo grazie a lui che tutto prende forma e la confusione cede il posto all’armonia e all’ordine: la luce è distinta dalle tenebre, l’acqua dalla terra ferma, e così via. L’azione creatrice dello Spirito è all’origine dunque della perfezione del creato; egli non è tanto colui che fa passare il mondo dal nulla all’essere, quanto colui che lo fa passare dall’essere informe all’essere formato e perfetto. In altre parole, lo Spirito Santo è colui che fa passare il creato, dal caos, al cosmo, che fa di esso qualcosa di bello, di ordinato, pulito: un “mondo” appunto, secondo il significato originario di questa parola e della parola greca cosmo. Questo non vuol dire che Dio Padre aveva creato un mondo caotico che aveva bisogno di essere corretto, perché, spiegava già san Basilio nel IV secolo, era proprio questa la volontà del Padre e cioè creare il mondo per mezzo del Figlio e portarlo alla perfezione mediante lo Spirito Santo2 . Ora la conseguenza pratica di tutto ciò. Noi sappiamo che l’azione creatrice di Dio non è limitata all’istante iniziale, come si pensava nella visione deista o meccanicista dell’universo. Dio non “è stato” una volta, ma sempre “è” creatore. E non solo nel senso debole che “conserva” l’essere e che governa con la sua Provvidenza il mondo, ma anche nel senso forte che sostiene, comunica continuamente essere ed energia, spinge, anima e rinnova la creazione. “Creare è fare continuamente nuovo”3 . Che significa tutto ciò applicato allo Spirito Santo? Significa che egli è sempre colui che fa passare dal caos al cosmo, cioè: dal disordine all’ordine, dalla confusione all’armonia, dalla deformità alla bellezza, dalla vetustà alla novità. Non, s’intende, meccanicamente e di colpo, ma nel senso che è all’opera e guida a un fine preciso la sua stessa evoluzione del cosmo. “La creazione –scrive san Paolo - è stata sottoposta alla caducità - non per sua volontà, ma per volontà di colui che l'ha sottoposta - nella speranza che anche la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo infatti che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi” (Rom 8, 20-22).
La scelta del titolo di creatore permette così di dare oggi un fondamento, non solo strategico e morale, ma squisitamente teologico e spirituale, al problema dell’ecologia e della salvaguardia del creato che papa Francesco ha proposto all’attenzione del mondo con la sua enciclica “Laudato si”. Il creato, ci dice, è l’opera dello Spirito creatore; deturparlo, è offendere e contristare il suo autore. Il salmo che canta gli splendori della creazione (del mare, dei monti, delle sorgenti) e che assegna a ogni creatura il suo posto e il suo spazio, è anche quello che attribuisce tutto questo allo Spirito Santo, con le parole: “Se togli loro il tuo spirito, muoiono, e ritornano alla loro polvere. Mandi il tuo Spirito, sono creati, e rinnovi la faccia della terra” (Sal 104, 29 s.). Quello che avviene nel macrocosmo, avviene anche nel microcosmo che è ogni singolo uomo. Applichiamo infatti tutto questo al “piccolo mondo” che è il nostro stesso cuore. “Le tenebre - si legge in Genesi- ricoprivano l’abisso” (Gen 1,2). Ma anche il cuore dell’uomo, dice la Scrittura, è un “baratro e un abisso” (cf. Sal 64, 7). C’è un caos esteriore e un caos interiore. Il nostro caos è quello del buio che c’è in noi; dei desideri, progetti, propositi, rimpianti contrastanti e in lotta tra di loro. Un autore spirituale del medio evo descriveva in questi termini il suo stato spirituale (e si tratta di un monaco certosino che viveva nella più alta contemplazione!): “Mi accorgo, Signore, che la terra del mio spirito è ancora inconsistente e vuota, che le tenebre ricoprono la superficie dell’abisso...Essa è infatti nella confusione come in una specie di caos spaventoso e oscuro, ignorando sia il suo fine che la sua origine e il modo della sua natura... Così è la mia anima, Dio mio, così è la mia anima. Una terra deserta e vuota, invisibile e informe, e le tenebre sono sulla superficie dell’abisso...Ma l’abisso del mio
Lo Spirito di Dio, che era in azione sopra e dentro il caos primordiale, è ancora operante nel mondo. Intonando il Veni creator, noi diciamo: “Vieni, Spirito Santo, aleggia e soffia anche sul mio caos, rischiara le mie tenebre (cf. Sal 18, 29), fa anche di me davvero un microcosmo, un piccolo mondo, una cosa bella, armoniosa, pura: una nuova creazione”. Noi portiamo in noi stessi un vestigio del caos primordiale: il nostro inconscio. Quello che la psicanalisi moderna ha espresso come passaggio dall’inconscio alla coscienza, dall’”Es” al “Super io”, è un aspetto di questa creazione che deve continuare a compiersi in noi, del passaggio dall’informe al formato. Lo Spirito Santo vuole aleggiare anche sul caos del nostro inconscio in cui si agitano forze oscure, impulsi contrastanti, in cui si annidano angosce e nevrosi, ma anche possibilità inesplorate. “Lo Spirito scruta ogni cosa...” (1 Cor 2, 10). A chi ha problemi con il proprio inconscio (e chi non ne ha?) non si può dare migliore consiglio che quello di coltivare una particolare devozione allo Spirito Santo e di invocarlo spesso nella sua qualità di creatore. Egli è il migliore psicanalista e psichiatra del mondo. La devozione allo Spirito Santo non induce necessariamente a far meno degli aiuti umani in tale campo, ma certamente li completa e li sorpassa. Prima di passare alla seconda parte, cantiamo la prima strofa del Veni creator, ora che abbiamo intravisto la sua ricchezza e profondità di significato.
2. Lo Spirito Santo e la misericordia Dopo aver riflettuto sullo Spirito Santo e la creazione, passiamo ora, come promesso, a riflettere sul rapporto tra lo Spirito Santo e la misericordia divina. Lo Spirito Santo appare inseparabilmente unito al tema della misericordia fin dall’inizio del ministero pubblico di Gesú. Tornato nella sua patria, a Nazareth, dopo il battesimo nel Giordano, Gesù applicò solennemente a se stesso le parole di Isaia 61,1-2: “Lo Spirito del Signore è sopra di me, perciò mi ha unto per evangelizzare i poveri; mi ha mandato per annunciare la liberazione ai prigionieri e il ricupero della vista ai ciechi; per rimettere in libertà gli oppressi, per proclamare l'anno di grazia del Signore” (Lc 4,18-19). Era grazie all’unzione dello Spirito Santo che Gesù predicava la buona novella, guariva i malati, consolava gli afflitti, e compiva tutte le sue opere di misericordia. “Lo Spirito Santo, scrive san Basilio, fu il compagno inseparabile di Gesù in tutte le sue opere” 5 . Lo Spirito Santo, che nella Trinità è l’amore personificato, è anche la misericordia di Dio personificata; è il “contenuto” stesso della misericordia divina. Senza lo Spirito Santo, misericordia sarebbe una parola vuota. Il nome di Paraclito lo indica chiaramente. Gesù annunciando la sua venuta, dice: “Il Padre vi darà un altro Consolatore che sarà con voi per sempre” (Gv 14, 16): “un altro”, s’intende, dopo avervi dato me. Lo Spirito Santo è dunque colui attraverso il quale Gesù continua, da risorto, la sua opera di “passare beneficando e risanando tutti” (At 10, 38). Le parole: “Egli (il Paraclito) prenderà del mio e ve lo annunzierà” (Gv 16, 14) si applicano anche alla misericordia: lo Spirito Santo aprirà ai credenti di tutti i tempi i tesori della misericordia di Gesù. Farà che la misericordia di Gesù non sia soltanto ricordata, ma anche sperimentata.
Il Paraclito è all’opera, anzitutto, nel sacramento della misericordia che è la confessione. “Lui stesso è la remissione di tutti i peccati”, dice una preghiera della Chiesa 6 . Per questo, prima di conferire l’assoluzione al penitente, il confessore pronuncia le parole: “Dio, Padre di misericordia, che ha riconciliato a sé il mondo nella morte e risurrezione del suo Figlio, e ha effuso lo Spirito Santo per la remissione dei peccati, ti conceda, mediante il ministero della Chiesa, il perdono e la pace”. Un’opera essenziale dello Spirito Santo nei confronti della misericordia è anche quella di cambiare, nel cuore degli uomini, l’immagine che essi hanno di Dio, in seguito al peccato. Una delle cause, forse la principale, dell’alienazione dell’uomo moderno dalla religione e dalla fede, dicevo sopra, è l’immagine distorta che esso ha di Dio. Questa è anche la causa di un cristianesimo spento, senza slancio e senza gioia, vissuto più come dovere che come dono, per costrizione, anziché per attrazione.
Qual è infatti l’immagine “predefinita” di Dio nell’inconscio umano collettivo, che opera automaticamente (nel linguaggio dei computer, si direbbe come default)? Basta, per scoprirlo, porsi questa domanda: “Quali idee, quali parole, quali sentimenti sorgono spontaneamente in te, prima di ogni riflessione, quando, nella recita del Padre nostro, arrivi alle parole: “sia fatta la tua volontà”? In genere, chi lo dice china interiormente la testa rassegnato, come preparandosi al peggio. Inconsciamente, si collega la volontà di Dio a tutto ciò che è spiacevole, doloroso, a ciò che, in un modo o nell’altro, può essere visto come mutilante la libertà e lo sviluppo individuali. È un po’ come se Dio fosse il nemico di ogni festa, gioia, piacere. Non si pensa che la volontà di Dio è chiamata nel Nuovo Testamento eudokia (Ef 1,9; Lc 2, 14), cioè volontà buona, benevolenza, per cui dire “sia fatta la tua volontà” è come dire: “si compia in me, o Padre, il tuo disegno d’amore”. Così Maria disse il suo “fiat” e così lo disse Gesú. Dio è visto in genere come l’Essere supremo, l’Onnipotente, il Signore del tempo e della storia, cioè come un’entità che si impone all'individuo dall'esterno; nessun particolare della vita umana gli sfugge. La trasgressione della Legge, cioè la disobbedienza alla volontà divina, introduce inesorabilmente un disordine nell’ordinamento voluto da Dio da tutta l’eternità. Di conseguenza, l’infinita sua giustizia esige una riparazione: bisognerà dare a Dio qualcosa, al fine di ristabilire, nella creazione, l’ordine perturbato. Questa riparazione sarà costituita da una privazione, un sacrificio. Non potendo però mai avere la certezza che la “soddisfazione” sia adeguata, nasce l’angoscia di trovarsi di fronte alla morte e al giudizio. Dio è un padrone che esige di essere pagato fino in fondo! Certo, non si è mai ignorata la misericordia di Dio! Ma ad essa si è affidata soltanto l’incombenza di moderare gli irrinunciabili rigori della giustizia. Era un correttivo, un’eccezione, non la regola. Anzi, nella pratica, si sono fatti dipendere spesso l’amore e il perdono di Dio dall’amore e dal perdono che si dona agli altri: se perdoni chi ti reca l’offesa, Dio potrà, a sua volta, perdonarti. È venuto fuori con Dio un rapporto di mercanteggiamento. Non si dice che bisogna accumulare meriti per guadagnare il Paradiso? E non si attribuisce grande rilevanza agli sforzi da fare, alle messe da far celebrare, alle candele da accendere, alle novene da fare? Tutto questo, avendo permesso a tanta gente in passato di dimostrare a Dio il proprio amore, non può essere gettato alle ortiche, va rispettato. Dio fa sbocciare i suoi fiori in ogni clima e i suoi santi in ogni stagione. Non si può negare però che c’è il rischio di cadere in una religione utilitaria, del “do ut des”. Alla base di tutto c’è il presupposto che il rapporto con Dio dipenda dall’uomo. L’uomo pretende inconsciamente di “pagare a Dio il suo prezzo” (Sal 48,8), non vuole essere debitore, ma creditore di Dio. Da dove viene questa idea deformata di Dio? Lasciamo da parte i motivi contingenti e individuali dovuti a un cattivo rapporto con il proprio padre terreno che pure incidono, in alcuni casi, sul rapporto con Dio Padre. Il motivo fondamentale che spiega quella terribile immagine “predefinita” di Dio appare chiaramente da quanto si è detto: è la legge. Finché l’uomo vive nel regime di peccato, sotto la legge, Dio gli appare un padrone severo, uno che si oppone al soddisfacimento dei suoi desideri terreni con quei perentori: “Tu devi.., tu non devi” che sono i comandamenti: non devi desiderare la roba d’altri, la donna d’altri...In questo stato l’uomo carnale accumula nel fondo del cuore un sordo rancore contro Dio, lo vede come un avversario della sua felicità e se, dipendesse da lui, sarebbe ben felice che non esistesse 7.
La prima cosa che fa lo Spirito Santo, venendo in noi, è quella di mostrarci un diverso volto di Dio. Ce lo fa scoprire come alleato, amico, come colui che, per noi, “non ha risparmiato il proprio Figlio” (Rom 8, 32); insomma, come Padre tenerissimo che ci ha dato la legge per proteggere, non per soffocare, la nostra libertà. Sboccia allora il sentimento filiale che si traduce spontaneamente nel grido: Abbà, Padre! Come dire: “Io non ti conoscevo, o ti conoscevo solo per sentito dire; ora ti conosco, so chi sei, so che mi vuoi bene davvero, che mi sei favorevole”. Il figlio ha preso il posto dello schiavo, l’amore quello del timore. È così che avviene, sul piano soggettivo ed esistenziale, la “rinascita dallo Spirito” (cf. Gv 3, 5.8). Sarebbe un frutto magnifico dell’anno della misericordia se esso servisse a restituirci la vera immagine di Dio Padre che Gesù è venuto sulla terra a rivelarci. Lo Spirito Santo non ci parla solo della misericordia di Dio verso di noi, ma apre tutto un campo di azione alla misericordia degli uni verso gli altri. Uno dei suoi titoli con cui esso viene promesso da Cristo è il titolo di Paraclito. Paraclito è una parola greca che tradotta nelle nostre lingue vuol dire due cose sempre unite: difensore e consolatore. Questo titolo contiene tutto un programma; è una parenesi, cioè una esortazione. Bisogna, in altre parole, diventare noi stessi dei paracliti! Se è vero che il cristiano deve essere un alter Christus, un altro Cristo, è altrettanto vero che deve essere un “altro Paraclito”. Mediante lo Spirito Santo, è stato effuso nei nostri cuori l’amore di Dio (cf. Rom 5,5); cioè, sia l’amore con cui siamo amati da Dio, sia l’amore con cui siamo resi capaci di amare, a nostra volta, Dio e il prossimo. Applicata alla misericordia -che è la forma che l’amore prende davanti alla sofferenza e al peccato della persona amata-, quella parola dell’Apostolo viene a dirci una cosa importantissima: che il Paraclito non solo ci consola, ma ci spinge a consolare e ci rende capaci di consolare e di essere misericordiosi. San Paolo scrive: “Sia benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione, il quale ci consola in ogni nostra tribolazione perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in qualsiasi genere di afflizione con la consolazione con cui siamo consolati noi stessi da Dio” (2 Cor 1, 2-4). La parola greca da cui deriva il nome Paraclito (parakaleo) ritorna ben cinque volte, ora come verbo ora come sostantivo, in questo testo. Esso contiene l’essenziale per una teologia della consolazione. La consolazione viene da Dio che è il “Padre di ogni consolazione”. Viene su chi è nell’afflizione. Ma non si arresta in lui; il suo scopo ultimo è raggiunto quando chi ha sperimentato la consolazione se ne serve, a sua volta, per consolare altri. Ma consolare come? Qui sta l’importante. Con la consolazione stessa con cui lui è stato consolato da Dio; con una consolazione divina, non umana. Non contentandosi di ripetere sterili parole di circostanza che lasciano il terreno che trovano (“coraggio, non avvilirti; vedrai che tutto si risolverà per il meglio”!), ma trasmettendo l’autentica “consolazione che viene dalle Scritture”, capace di “tener viva la speranza” (cf. Rom 15,4). Così si spiegano i miracoli che una semplice parola o un gesto, posti in clima di preghiera, sono capaci di operare accanto al capezzale di un ammalato. È Dio che sta consolando attraverso di te. In un certo senso, lo Spirito Santo ha bisogno di noi, per essere Paraclito. Egli vuole consolare, difendere, esortare; ma non ha bocca, mani, occhi per “dare corpo” alla sua consolazione. O meglio, ha le nostre mani, i nostri occhi, la nostra bocca. Come l’anima agisce, si muove, sorride, attraverso le membra del nostro corpo, così lo Spirito Santo fa con le membra del “suo” corpo che è la Chiesa e che siamo noi. “Consolatevi a vicenda”, raccomandava san Paolo ai primi cristiani (1 Ts 5,11) e tradotto alla lettera il verbo vuole dire “fatevi paracliti” gli uni degli altri. Se la consolazione e la misericordia che riceviamo dallo Spirito non passa da noi ad altri, se vogliamo trattenerla egoisticamente solo per noi, essa ben presto si corrompe. (I due mari della Palestina).
3. Solo la misericordia può salvare il mondo Sono ben note e spesso ripetute le parole che Dostoevskij pone in bocca a uno dei personaggi a lui più cari, l’Idiota: “Il mondo sarà salvato dalla bellezza”. Ma, a quella affermazione, egli fa seguire subito una domanda: “Quale bellezza salverà il mondo?” 8 . È chiaro, anche per lui, che non ogni bellezza salverà il mondo; c’è una bellezza che può salvare il mondo e una bellezza che può perderlo. Di qui la sua conclusione: “Al mondo esiste un solo essere assolutamente bello, il Cristo, ma l’apparizione di questo essere infinitamente bello è di certo un infinito miracolo”9 . La bellezza di Gesú è la sua misericordia ed è essa che salverà il mondo. “La misericordia, scrive, san Giacomo, avrà la meglio nel giudizio” (Gc 2, 13). Egli parla probabilmente della misericordia praticata dall’uomo, ma la frase è vera a maggior ragione se applicata alla misericordia di Dio. Sarà essa che, alla fine, avrà la meglio su tutte le ingiustizie e le mancanze umane di misericordia. Ma non è solo in questo senso escatologico che la misericordia salverà il mondo. Essa è l’unica cosa che può salvare il mondo presente, sconvolto da tante lotte. Qual è la legge ferrea che regola di fatto i rapporti tra le persone e le nazioni? È ancora quella del taglione: “Occhio per occhio, dente per dente”. Gesú è venuto a spezzare questa catena. Alla regola: “Quello che gli altri fanno a te, tu fallo a loro”, ha sostituito la regola: “Quello che Dio ha fatto a te, tu fallo agli altri”. Gesú, sulla croce, “ha distrutto in se stesso l’inimicizia” (Ef 2, 16): ha distrutto l’inimicizia, non il nemico; l’ha distrutta in se stesso, non negli altri. Ha insegnato che anche noi dobbiamo distruggere l’inimicizia, non il nemico.
È ora di renderci conto che l’opposto della misericordia non è la giustizia, ma è la vendetta. Gesú non ha opposto la misericordia alla giustizia, ma alla legge del taglione: “occhio per occhio, dente per dente”. Dio, perdonando i peccati, non rinuncia alla giustizia, rinuncia alla vendetta, cioè a volere la morte del peccatore. Gesú sulla croce non ha chiesto al Padre di vendicare la sua causa; gli ha chiesto di perdonare i suoi crocifissori. L’appello che dobbiamo lanciare al mondo è: demitizzare la vendetta! La vendetta è diventata un mito pervasivo che contagia tutto e tutti, a cominciare dai bambini. La maggioranza dei film, delle storie portate sullo schermo e dei giochi elettronici esaltano la vendetta, spacciandola per “vittoria del bene” o “trionfo dell’eroe buono”. Metà, se non più, della sofferenza che c’è nel mondo (quando non si tratta di mali naturali) dipende dal desiderio di vendetta. La misericordia che salva il mondo, salva anche la cosa più preziosa e più fragile che c’è in questo momento nel mondo, il matrimonio e la famiglia. Avviene nel matrimonio qualcosa di simile a quello che, abbiamo visto, è avvenuto nei rapporti tra Dio e l’umanità, che la Bibbia descrive infatti con l’immagine di uno sposalizio. All’inizio di tutto, dicevamo, c’è l’amore, non la misericordia; questa interviene soltanto dopo la creazione e la ribellione umana. Così avviene nel matrimonio.
All’inizio non c’è, tra marito e moglie, la misericordia; c’è l’amore e un amore spesso travolgente. Ma poi, dopo anni, o mesi di vita insieme, emergono i limiti reciproci, i problemi, di salute o di finanze, interviene la routine…Quello che può salvare un matrimonio dallo scivolare in una china senza risalita è la misericordia, intesa nel senso biblico che abbiamo visto, e cioè non solo come perdono delle offese, ma anche come compassione e tenerezza. All’eros si aggiunte l’agape, all’amore erotico, l’amore di dedizione e di sofferenza, senza, tuttavia che vada perduto l’eros che dovrebbe perdurare sempre tra gli sposi. Il matrimonio risente oggi della mentalità corrente dell’“usa e getta”. Se un apparecchio o uno strumento subisce qualche danno o una piccola ammaccatura, non si pensa a ripararlo (sono scomparsi ormai quelli che facevano questi mestieri), ma si pensa subito a sostituirlo. Si vuole la cosa nuova di zecca. Applicata al matrimonio, questa mentalità risulta del tutto errata e micidiale. Il matrimonio non è come un vaso di porcellana che si può solo sciupare con il passare del tempo, mai migliorare, e una volta che ha avuto un piccolo screzio, anche se incollato, perde metà del suo pregio. Il matrimonio appartiene all’ambito della vita e ne segue la legge. Come si mantiene e si sviluppa la vita? Forse mantenendola staticamente sotto una campana di vetro, al riparo da urti, cambiamenti e agenti atmosferici? La vita è fatta di continue perdite che l’organismo impara a riparare quotidianamente, di attacchi di agenti e virus di ogni tipo che l’organismo intelligentemente prevede e sconfigge, facendo entrare in azione i propri anticorpi. Almeno finché esso è sano. Il matrimonio dovrebbe essere come il vino che, invecchiando, migliora, non peggiora. Solo la misericordia reciproca è capace di operare questo miracolo. Che cosa suggerire ai coniugi che vorrebbero almeno tentare questa strada? Una cosa semplicissima: riscoprire un’arte dimenticata in cui eccellevano le nostre nonne e mamme: il rammendo! Alla mentalità dell’“usa e getta” bisogna sostituire quella dell’“usa e rammenda”. Non c’è bisogno di spiegare cosa significa rammendare gli strappi nella vita di coppia. San Paolo dava ottimi consigli a questo riguardo: “Non tramonti il sole sopra la vostra ira e non date occasioni al diavolo”, “sopportatevi a vicenda, perdonandovi se qualcuno abbia di che lamentarsi dell’altro”, “ portate i pesi gli uni degli altri” (cfr. Ef 4, 26-27; Col 3, 13; Gal 6, 2). Non bisogna permettere che il nemico inserisca un cuneo tra sé e l’altro. La cosa importante da capire è che in questo processo di strappi e di ricuciture, di crisi e di superamenti, il matrimonio, non si sciupa, ma cresce, si affina, migliora. Appunto, come la vita. Il segreto è saper ricominciare sempre da capo. Come la vita ricomincia ogni mattina e ad ogni istante. Sapere che nonostante tutto, proprio tutto, è possibile, volendolo insieme tutti e due, ripartire da capo, azzerare il passato, cominciare una storia nuova. Gesù fece il suo primo miracolo, a Cana di Galilea, per salvare la felicità dei due sposi. Cambiò l’acqua in vino, e tutti alla fine si trovarono d’accordo nel dire che il vino servito per ultimo era stato il migliore. Credo che Gesù sia pronto anche oggi, se lo si invita alle proprie nozze, a operare questo miracolo e far sì che il vino ultimo – l’amore e l’unità degli anni della maturità e della vecchiaia – sia migliore di quello della prima ora. Gesú continua a operare il miracolo di Cana attraverso lo Spirito Santo. È lui il vino nuovo che egli offre agli sposi cristiani. L’atto costitutivo del matrimonio è il donarsi reciproco, il fare dono del proprio corpo (cioè, nel linguaggio biblico, di tutta la persona) al coniuge. Ora noi sappiamo che lo Spirito Santo è per sua natura il dono, o meglio il donarsi reciproco del Padre e del Figlio nella Trinità. Egli è il dono fatto persona. Dove arriva lui, rinasce la capacità di farsi dono, rinasce e si rigenera l’amore coniugale. Egli non è presente solo al momento di contrarre le nozze, ma in ogni istante e in ogni gesto di donazione reciproca, compreso il più intimo di essi. Terminiamo recitando la parte finale della preghiera di papa Francesco per il giubileo della misericordia. In essa viene messo in luce proprio quello che ha costituito il tema della nostra catechesi e cioè il rapporto tra lo Spirito Santo e la misericordia:
Manda, Signore, il tuo Spirito e consacraci tutti con la sua unzione perché il Giubileo della Misericordia sia un anno di grazia del Signore e la tua Chiesa, con rinnovato entusiasmo, possa portare ai poveri il lieto messaggio, proclamare ai prigionieri e agli oppressi la libertà e ai ciechi restituire la vista. Lo chiediamo per intercessione di Maria, Madre della Misericordia, a te che vivi e regni con il Padre e lo Spirito Santo per tutti i secoli dei secoli. Amen.
***
1 S. Ambrogio, Sullo Spirito Santo, II, 32.
2 S. Basilio, Sullo Spirito Santo, XVI, 38 (PG 32, 136).
3 Lutero, Risoluzioni sulle indulgenze (WA, I, p.563).
4 Guigo II, Meditazione V (SCh 163, pp. 148-150).
5 S. Basilio, Sullo Spirito Santo, XVI, 39 (PG 32, 140)
6 Messale Romano, Martedì dopo la Pentecoste.
7 Cf. Lutero, Sermone di Pentecoste (WA, 12, p. 568 s.).
8 F. Dostoevskij, L’Idiota, parte III, cap.5., Ed. Garzanti Milano 1983, pp. 478-479.
9 Lettera alla nipote Sonja Ivànova, in L’Idiota, ed. cit. p. XII.
Kiko Argüello: El tibio no quiere ir a predicar...
http://www.alfayomega.es/
En un encuentro en la Basílica de San Pablo Extramuros, en Roma, con motivo del encuentro 50ª aniversario del Camino, las 25 comunidades que el Papa Francisco enviará en misión el 5 de mayo recibieron destino en las periferias
El Camino Neocatecumenal celebró el domingo 22 de abril un encuentro en la Basílica de San Pablo Extramuros en el que recibieron destino las 25 comunidades que serán enviadas en misión por el Papa Francisco el próximo sábado 5 de mayo en la celebración del 50ª aniversario del Camino en Roma.
El encuentro fue conducido por el equipo responsable internacional del Camino, Kiko Argüello, María Ascensión Romero y el P. Mario Pezzi.
Al mismo asistieron las comunidades que ya han terminado el Camino y han renovado solemnemente las promesas bautismales y las parroquias que solicitaron la ayuda de estas comunidades y su disposición a acogerlas.
Durante la celebración, Argüello recordó que «el Camino se termina evangelizando, yendo a los alejados de las periferias».
El iniciador del Camino también advirtió del problema de instalarse y perder el celo por evangelizar: «Cuando uno se instala se entra en una especie de enfermedad: la tibieza».
«El tibio ha perdido el celo, no quiere ir a predicar por las calles, sino que prefiere quedarse en casa viendo la televisión. También es horrible perder el celo para los presbiterios, catequistas, obispos… Pero cuando somos enviados a un puesto, en nombre de la Iglesia, este peligro cesa porque no estamos viviendo nuestra vida, sino que vivimos la vida de Otro (Cristo) que nos ha enviado allí y esto protege las raíces de nuestra fe e impide acomodarse, instalarse».
En la celebración se proclamó el Evangelio de San Juan 17, 18-26 y Argüello anunció el Kerigma.
Audiencia con el Papa Francisco
El pasado 19 de abril, el Papa Francisco recibió al equipo internacional responsable del Camino Neocatecumenal en el Vaticano.
El objetivo principal de la reunión fue hablar del 50ª aniversario del Camino que se conmemorará con un gran encuentro presidido por el Papa en Tor Vergata el próximo 5 de mayo.
Un gran encuentro por el 50ª aniversario
El Camino Neocatecumenal celebrará un gran encuentro internacional en Roma con motivo del 50 aniversario de su llegada a Roma, el próximo sábado 5 de mayo en Tor Vergata.
En él participarán unas 150 mil personas de todo el mundo y de los 5 continentes, y estarán representadas las 135 naciones en las que está implantado el Camino, además de cardenales, obispos y otras personalidades.
Durante el evento, el Papa Francisco hará el envío de 34 nuevas missio ad gentes que, a petición de otros tantos obispos, evangelizarán en zonas secularizadas o con poca presencia de la Iglesia, en ciudades de todo el mundo.
Francisco enviará a estas 25 comunidades de las parroquias de Roma –que han concluido esta iniciación cristiana– y se han ofrecido disponibles para ser enviadas a parroquias de la periferia donde su ayuda ha sido solicitada para llamar a los alejados de la fe.
lunedì 23 aprile 2018
La radice del male sta in Inghilterra
di Riccardo Cascioli (Lanuovabq)
«Che vantaggio trae l’umanità dalle migliaia di disgraziati che ogni anno vengono al mondo, dai sordi e dai muti, dagli idioti e dagli affetti da malattie ereditarie incurabili, tenuti in vita artificialmente fino a raggiungere l’età adulta? …Quale immenso grumo di sofferenza e dolore tale squallore comporta per gli stessi sfortunati malati, quale incalcolabile somma di preoccupazione e dolore per le loro famiglie, quale perdita in termini di risorse private e costi per lo Stato a scapito dei sani! Quante sofferenze e quante di queste perdite potrebbero venire evitate se si decidesse finalmente di liberare i totalmente incurabili dalle loro indescrivibili sofferenze con una dose di morfina».
Qualcuno potrebbe pensare che queste parole siano state pronunciate da qualche gerarca nazista. E invece no, risalgono a ben prima del nazismo: si trovano nel libro “L’enigma della vita”, scritto nel 1904 da Ernst Haeckel. Conosciuto come il fondatore dell’ecologia, Haeckel è soprattutto un entusiasta discepolo di Charles Darwin e delle sue teorie sulla selezione naturale. E quindi di Francis Galton (1822-1911), cugino di Darwin e padre della Eugenetica. Galton porta alle estreme conseguenze la teoria darwiniana sulla selezione naturale: poggiandosi anche sulla recente scoperta dell’ereditarietà dei geni si pone la domanda sul come “guidare” questa selezione in modo da migliorare la razza umana.
Qualcuno potrebbe pensare che queste parole siano state pronunciate da qualche gerarca nazista. E invece no, risalgono a ben prima del nazismo: si trovano nel libro “L’enigma della vita”, scritto nel 1904 da Ernst Haeckel. Conosciuto come il fondatore dell’ecologia, Haeckel è soprattutto un entusiasta discepolo di Charles Darwin e delle sue teorie sulla selezione naturale. E quindi di Francis Galton (1822-1911), cugino di Darwin e padre della Eugenetica. Galton porta alle estreme conseguenze la teoria darwiniana sulla selezione naturale: poggiandosi anche sulla recente scoperta dell’ereditarietà dei geni si pone la domanda sul come “guidare” questa selezione in modo da migliorare la razza umana.
Nascono così le Società di Eugenetica nei primissimi anni del ‘900. All’inizio si parlava soprattutto di Eugenetica “positiva”, ovvero attraverso matrimoni selettivi privilegiando quelli tra i migliori elementi della società. Ma ben presto si passa a quella “negativa”, cioè il divieto ai deboli di riprodursi. Non per niente leggi eugenetiche (con sterilizzazioni forzate dei “non adatti”) tra il 1910 e il 1925 vengono approvate e applicate in diversi paesi nord-europei e in gran parte degli stati degli USA.
È un quadro che aiuta meglio a inquadrare quanto sta avvenendo all’ospedale Alder Hey Liverpool dove il piccolo Alfie Evans viene trattato come uno “scarto” da eliminare.
Molti in questi giorni, leggendo anche le agghiaccianti sentenze dei giudici britannici, hanno rievocato le leggi naziste sulla selezione della razza.
Se il regime tedesco ebbe certamente la possibilità di applicare certe idee, è riduttivo e alla fine fuorviante ridurre la mentalità eugenetica al nazismo. Al contrario, è proprio la Gran Bretagna di fine ‘800-inizio ‘900 all’origine di quel movimento razzista e di quella “cultura dello scarto” (come direbbe papa Francesco) che ebbe poi massimo fulgore nel Terzo Reich. E la Germania nazista forse non avrebbe avuto la possibilità di implementare certi programmi se non fosse stato per i generosi finanziamenti delle grandi fondazioni americane e britanniche e per il grande consenso che riscuotevano in Europa. Il professore Ernst Rudin, psichiatra nazista e teorico delle leggi razziali, potè aprire il suo Istituto Kaiser Guglielmo per l’Antropologia, l’Eugenetica e la Genetica Umana (Monaco, 1927) grazie ai fondi della famiglia Rockefeller. E del resto Hitler poteva contare sull’amicizia e sulla solidarietà di altri capi di governo, anch’essi appartenenti alle Società Eugenetiche, come ad esempio il premier britannico Arthur Neville Chamberlain e il primo ministro collaborazionista francese Henri-Philippe Pétain.
Molti in questi giorni, leggendo anche le agghiaccianti sentenze dei giudici britannici, hanno rievocato le leggi naziste sulla selezione della razza.
Se il regime tedesco ebbe certamente la possibilità di applicare certe idee, è riduttivo e alla fine fuorviante ridurre la mentalità eugenetica al nazismo. Al contrario, è proprio la Gran Bretagna di fine ‘800-inizio ‘900 all’origine di quel movimento razzista e di quella “cultura dello scarto” (come direbbe papa Francesco) che ebbe poi massimo fulgore nel Terzo Reich. E la Germania nazista forse non avrebbe avuto la possibilità di implementare certi programmi se non fosse stato per i generosi finanziamenti delle grandi fondazioni americane e britanniche e per il grande consenso che riscuotevano in Europa. Il professore Ernst Rudin, psichiatra nazista e teorico delle leggi razziali, potè aprire il suo Istituto Kaiser Guglielmo per l’Antropologia, l’Eugenetica e la Genetica Umana (Monaco, 1927) grazie ai fondi della famiglia Rockefeller. E del resto Hitler poteva contare sull’amicizia e sulla solidarietà di altri capi di governo, anch’essi appartenenti alle Società Eugenetiche, come ad esempio il premier britannico Arthur Neville Chamberlain e il primo ministro collaborazionista francese Henri-Philippe Pétain.
Dunque non è la Germania nazista l’origine del problema ma proprio quella Gran Bretagna liberale che oggi ci fa inorridire.
Non è corretto neanche parlare di un “ritorno”. In realtà il movimento eugenetico non se ne è mai andato; si è solo trasformato perché alla fine della Seconda Guerra Mondiale e a causa di quanto avvenuto in Germania, la parola “eugenetica” non godeva più di buona fama. Così pian piano le Società di Eugenetica si trasformano, anzitutto in società di ricerca genetica o di biologia, ma anche semplicemente cambiano nome per rendersi più presentabili.
È il caso della Società di Eugenetica britannica: non ha mai smesso la sua attività, semplicemente oggi si chiama Galton Institute e soprattutto attraverso la sua annuale “Galton Lecture” valorizza gli studi sulla genetica che vanno nella direzione della costruzione dell’uomo “su misura”. Tanto per fare un esempio, la Galton Lecture 2018 vedrà protagonista la professoressa Jennyfer Doudna, autrice di una ricerca – eticamente molto controversa – sull’editing del genoma. Scopo di tanti studi del Galton Institute è quello di arrivare alla “costruzione” di individui con le caratteristiche volute, fisiche e morali.
È il caso della Società di Eugenetica britannica: non ha mai smesso la sua attività, semplicemente oggi si chiama Galton Institute e soprattutto attraverso la sua annuale “Galton Lecture” valorizza gli studi sulla genetica che vanno nella direzione della costruzione dell’uomo “su misura”. Tanto per fare un esempio, la Galton Lecture 2018 vedrà protagonista la professoressa Jennyfer Doudna, autrice di una ricerca – eticamente molto controversa – sull’editing del genoma. Scopo di tanti studi del Galton Institute è quello di arrivare alla “costruzione” di individui con le caratteristiche volute, fisiche e morali.
Quello che attribuiamo al nazismo, dunque, è in realtà una cultura ben radicata nel Regno Unito (e non solo), tuttora molto seguita. Anzi, come dimostra il caso di Alfie Evans, essa viene ormai apertamente praticata negli ospedali e proclamata nelle aule di tribunale senza che nessun settore della società muova un dito, faccia un sobbalzo o almeno trovi qualcosa di sinistro in tutto ciò.
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Alfie Evans / Giornali e tv sperano che muoia per non rispondere alle sue domande
Il Sussidiario
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Alfie Evans / Giornali e tv sperano che muoia per non rispondere alle sue domande
Il Sussidiario
(Monica Mondo) Alfie Evans non sa che c'è chi conta le ore e pregando spera ancora in un miracolo. Non sa di essere pietra d'inciampo, scandalo che separa la verità dalla menzogna, i giusti dagli ingiusti. Non sa di essere così prezioso e insieme così scomodo. La sua presenza infastidisce, perché obbliga a pensare, prendere posizione e c'è chi non vede l'ora che tutto finisca, che una pietra tombale aiuti a placare, dimenticare, andare avanti. (...)
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Il caso. Alfie, alle 14 si "stacca la spina"? Mariella Enoc a Liverpool
Avvenire
Avvenire
(Francesco Ognibene) Una manifestazione spontanea si sta radunando davanti all’Alder Hey Children’s Hospital di Liverpool, dov’è ricoverato Alfie Evans, il bambino di poco meno di due anni affetto da una malattia neurodegenerativa grave ma ancora non diagnosticata, che attende con i suoi genitori Tom e Kate che i medici attivino la procedura per il distacco del respiratore, sotto sedazione. (...)
Papa Francesco: “Dio è un poeta"
SIR
Sarà in libreria per Rizzoli, dal 24 aprile, “Dio è un poeta. Un dialogo inedito sulla politica e la società”, il libro di Papa Francesco con Dominique Wolton (pag. 270, euro 19; traduzione di Elena Sacchini e Andrea Zucchetti). Nel corso di un intero anno, Dominique Wolton, sociologo francese, è stato ricevuto dodici volte dal Papa. Il risultato di questi incontri è un’intervista in cui Francesco affronta i temi cruciali del nostro tempo e del suo pontificato: la pace e la guerra, la politica con la P maiuscola (“una delle più alte forme di carità”), la globalizzazione e la diversità culturale, il fondamentalismo e la “sana laicità”, le disuguaglianze economiche e la mancanza di lavoro e prospettive per i giovani, la “follia” del dominio assoluto del “dio denaro” e la necessità di un’economia “concreta” incentrata sul benessere delle persone, l’Europa e i migranti, la tutela dell’ambiente, il dialogo fra i cristiani, fra le religioni, fra atei e credenti… Per gentile concessione di Rizzoli pubblichiamo un estratto del secondo capitolo titolato “Religioni e politiche”.
Giugno 2016. Il tempo è decisamente migliorato. A Roma è arrivata la primavera, con la sua luce e il suo tepore. Altra atmosfera ma stesso posto. Papa Francesco arriva con la stessa semplicità della prima volta. Senza scorta. Ci mettiamo subito al lavoro. I temi centrali sono il ritorno delle religioni, la laicità e il fondamentalismo. Ritrovo il nostro dialogo vivace e l’impressione di avere tutto il tempo di questo mondo… Tutto è tranquillo. Il contrasto è forte quando usciamo e ritroviamo il vocio di piazza San Pietro: il sagrato è rumoroso e pieno di gente. A pochi metri dalla folla, io intervisto il Santo Padre in un’atmosfera di pace e fiducia. Affrontiamo argomenti importanti. Strani paradossi dello sfasamento temporale e dell’esperienza del tempo. Cammino in silenzio, con in testa le sue parole. Una grande libertà. Nessun protocollo.
* * *
Oggi come oggi, come potrebbe contribuire la Chiesa alla globalizzazione?
Con il dialogo. Sono convinto che ai giorni nostri niente sia possibile senza dialogo. A patto che si tratti di un dialogo sincero, anche se bisogna dirsi in faccia cose sgradevoli. Sincero: non un dialogo del tipo «va bene, siamo d’accordo», e poi dietro le spalle si afferma tutto il contrario.
Credo che la Chiesa debba contribuire costruendo dei ponti. E il dialogo è il «grande ponte» tra le culture. Ieri, per esempio, ho parlato per cinquanta minuti con Shimon Peres, novantatré anni. È un uomo che ha una visione, e per tutto il nostro dialogo non abbiamo fatto altro che costruire ponti qua e là. Mi sentivo davvero di fronte a un grande, uno che condivide questa idea che la Chiesa debba costruire ponti, ponti e ancora ponti…
Con il dialogo. Sono convinto che ai giorni nostri niente sia possibile senza dialogo. A patto che si tratti di un dialogo sincero, anche se bisogna dirsi in faccia cose sgradevoli. Sincero: non un dialogo del tipo «va bene, siamo d’accordo», e poi dietro le spalle si afferma tutto il contrario.
Credo che la Chiesa debba contribuire costruendo dei ponti. E il dialogo è il «grande ponte» tra le culture. Ieri, per esempio, ho parlato per cinquanta minuti con Shimon Peres, novantatré anni. È un uomo che ha una visione, e per tutto il nostro dialogo non abbiamo fatto altro che costruire ponti qua e là. Mi sentivo davvero di fronte a un grande, uno che condivide questa idea che la Chiesa debba costruire ponti, ponti e ancora ponti…
Per la pace nel mondo, che cosa potrebbe fare la Chiesa più dell’ONU?
So che l’ONU fa molte cose buone. Sento anche le critiche, le critiche di fondo che rivolgono contro se stessi. In questa assemblea, che tra poco deve eleggere il prossimo segretario o la prossima segretaria generale,(1) c’è una corrente di sana autocritica che sostiene la necessità di «parlare meno e agire di più». Infatti il pericolo, tanto per la Chiesa che per l’ONU, è quello del nominalismo:(2) accontentarsi di dire «bisogna fare questo e quello», poi avere la coscienza tranquilla e fare poco e niente.
Resta il fatto che l’ONU e la Chiesa sono due cose diverse. L’ONU dovrebbe avere più autorità, globale e fisica. La Chiesa è solo ed esclusivamente un’autorità morale. E l’autorità morale della Chiesa dipende dalla testimonianza dei suoi membri, dei cristiani. Se i cristiani non danno testimonianza, se i preti diventano degli affaristi e degli arrivisti, se i vescovi fanno altrettanto… o ancora se i cristiani cercano sempre di sfruttare il prossimo, se pagano «in nero» e non si preoccupano della giustizia sociale, non si comportano da fedeli. Dare testimonianza è un atto necessario in entrambe le istituzioni, ma soprattutto nella Chiesa. L’ONU deve prendere delle decisioni, elaborare un piano valido e metterlo in atto. E non semplicemente annunciarlo. Ma in effetti tutte e due corrono il rischio del nominalismo. Platone, nel Gorgia, parlando dell’informazione, dei sofisti, disse più o meno questo: «I discorsi dei sofisti stanno alla politica come il trucco sta alla salute»… Platone!(3)
So che l’ONU fa molte cose buone. Sento anche le critiche, le critiche di fondo che rivolgono contro se stessi. In questa assemblea, che tra poco deve eleggere il prossimo segretario o la prossima segretaria generale,(1) c’è una corrente di sana autocritica che sostiene la necessità di «parlare meno e agire di più». Infatti il pericolo, tanto per la Chiesa che per l’ONU, è quello del nominalismo:(2) accontentarsi di dire «bisogna fare questo e quello», poi avere la coscienza tranquilla e fare poco e niente.
Resta il fatto che l’ONU e la Chiesa sono due cose diverse. L’ONU dovrebbe avere più autorità, globale e fisica. La Chiesa è solo ed esclusivamente un’autorità morale. E l’autorità morale della Chiesa dipende dalla testimonianza dei suoi membri, dei cristiani. Se i cristiani non danno testimonianza, se i preti diventano degli affaristi e degli arrivisti, se i vescovi fanno altrettanto… o ancora se i cristiani cercano sempre di sfruttare il prossimo, se pagano «in nero» e non si preoccupano della giustizia sociale, non si comportano da fedeli. Dare testimonianza è un atto necessario in entrambe le istituzioni, ma soprattutto nella Chiesa. L’ONU deve prendere delle decisioni, elaborare un piano valido e metterlo in atto. E non semplicemente annunciarlo. Ma in effetti tutte e due corrono il rischio del nominalismo. Platone, nel Gorgia, parlando dell’informazione, dei sofisti, disse più o meno questo: «I discorsi dei sofisti stanno alla politica come il trucco sta alla salute»… Platone!(3)
Dov’è Dio nella globalizzazione?
Nella globalizzazione, così come la intendo io (quella a forma di poliedro), Dio è ovunque, in tutte le cose. In ogni persona che dà qualcosa di sé e porta un contributo al tutto. In ogni Paese e nel tutto. La sua, tuttavia (e qui parlo in quanto cattolico), è una domanda che si rivolge a san Basilio di Cesarea(4) e va al di là di san Basilio. Chi è che fa l’unità della Chiesa e chi è che ne fa le differenze? Lo Spirito Santo. Il Dio che instaura le differenze, cioè le singolarità, questa varietà così grande e bella, è lo stesso che stabilisce poi l’armonia. Ecco perché san Basilio dice dello Spirito Santo che è l’armonia. Dio crea l’armonia nella globalizzazione.
Nella globalizzazione, così come la intendo io (quella a forma di poliedro), Dio è ovunque, in tutte le cose. In ogni persona che dà qualcosa di sé e porta un contributo al tutto. In ogni Paese e nel tutto. La sua, tuttavia (e qui parlo in quanto cattolico), è una domanda che si rivolge a san Basilio di Cesarea(4) e va al di là di san Basilio. Chi è che fa l’unità della Chiesa e chi è che ne fa le differenze? Lo Spirito Santo. Il Dio che instaura le differenze, cioè le singolarità, questa varietà così grande e bella, è lo stesso che stabilisce poi l’armonia. Ecco perché san Basilio dice dello Spirito Santo che è l’armonia. Dio crea l’armonia nella globalizzazione.
Come conciliare diplomazia ed evangelizzazione?
L’evangelizzazione è un mandato di Gesù Cristo, mentre la diplomazia è un comportamento, un mestiere nobile. Le due cose non sono allo stesso livello.
L’evangelizzazione è un mandato di Gesù Cristo, mentre la diplomazia è un comportamento, un mestiere nobile. Le due cose non sono allo stesso livello.
Vuol dire che la diplomazia è fatta di rapporti di forza, mentre l’evangelizzazione di rapporti di uguaglianza?
No, non credo che sia proprio così. Perché anche nella diplomazia ci sono rapporti di fraternità. Ci sono relazioni basate sul «cercare qualcosa insieme», c’è un dialogo; la diplomazia intelligente esiste eccome. D’altro canto, anche i metodi di evangelizzazione possono essere sbagliati.
No, non credo che sia proprio così. Perché anche nella diplomazia ci sono rapporti di fraternità. Ci sono relazioni basate sul «cercare qualcosa insieme», c’è un dialogo; la diplomazia intelligente esiste eccome. D’altro canto, anche i metodi di evangelizzazione possono essere sbagliati.
Spesso si rimprovera alla Chiesa di condannare con più fermezza la violenza rispetto alle disuguaglianze. Di usare due pesi e due misure.
Può darsi, ma per quanto mi riguarda parlo chiaramente e con forza dell’una e delle altre.
Può darsi, ma per quanto mi riguarda parlo chiaramente e con forza dell’una e delle altre.
Ciò non toglie che, storicamente, la Chiesa si sia mostrata più indulgente con i governi conservatori e più preoccupata di fronte ai governi di sinistra. O progressisti, se vogliamo…
Tutti e due hanno fatto cose buone, così come hanno fatto i loro sbagli. Ma il Vangelo parla chiaro: siamo tutti figli di Dio, e chi si credeva il meno giusto è diventato il più giusto. Il più grande dei peccatori, Gesù lo porta verso l’alto. Ristabilisce l’uguaglianza fin da principio.
Per quanto riguarda la violenza… pensiamo alle grandi dittature del secolo scorso. In Germania c’erano cristiani che non vedevano di cattivo occhio Hitler, ma ce n’erano altri che sapevano benissimo che razza di persona era. Stessa cosa qui in Italia. E se parliamo della violenza delle dittature… le violenze sono tante. Io però ho più paura della violenza in guanti bianchi che di quella diretta. La violenza di tutti i giorni, quella fatta ai domestici, per esempio!
Tutti e due hanno fatto cose buone, così come hanno fatto i loro sbagli. Ma il Vangelo parla chiaro: siamo tutti figli di Dio, e chi si credeva il meno giusto è diventato il più giusto. Il più grande dei peccatori, Gesù lo porta verso l’alto. Ristabilisce l’uguaglianza fin da principio.
Per quanto riguarda la violenza… pensiamo alle grandi dittature del secolo scorso. In Germania c’erano cristiani che non vedevano di cattivo occhio Hitler, ma ce n’erano altri che sapevano benissimo che razza di persona era. Stessa cosa qui in Italia. E se parliamo della violenza delle dittature… le violenze sono tante. Io però ho più paura della violenza in guanti bianchi che di quella diretta. La violenza di tutti i giorni, quella fatta ai domestici, per esempio!
Come evitare che la globalizzazione diventi sinonimo di disuguaglianza e aumento delle ricchezze solo per alcuni?
Nel mondo di oggi, 62 super-ricchi possiedono la stessa ricchezza di 3,5 miliardi di poveri. Nel mondo di oggi ci sono 871 milioni di affamati. E 250 milioni di migranti che non hanno nessun posto dove andare, che non hanno niente.
Il traffico di droga oggi ha un giro d’affari di circa 300 miliardi di dollari. E secondo le stime ci sono 2400 miliardi di dollari che «svolazzano» nei paradisi fiscali, circolando da un posto all’altro.
Nel mondo di oggi, 62 super-ricchi possiedono la stessa ricchezza di 3,5 miliardi di poveri. Nel mondo di oggi ci sono 871 milioni di affamati. E 250 milioni di migranti che non hanno nessun posto dove andare, che non hanno niente.
Il traffico di droga oggi ha un giro d’affari di circa 300 miliardi di dollari. E secondo le stime ci sono 2400 miliardi di dollari che «svolazzano» nei paradisi fiscali, circolando da un posto all’altro.
La Chiesa condanna da tempo il capitalismo selvaggio, ci sono testi e dichiarazioni che lo dimostrano. Perché nel mondo questo messaggio rimane perlopiù inascoltato? La gente non sa o si rifiuta di ascoltare e di capire? Cosa si dovrebbe fare per condannare il dilagare del capitalismo selvaggio, accelerato dalla globalizzazione?
Pensi agli attuali movimenti dei lavoratori. Nel mondo intero c’è un risveglio dei movimenti popolari. Alcuni di loro vengono piantati in asso perfino dai sindacalisti, perché i sindacalisti possono provenire dalle classi dominanti, o perlomeno dalle classi medie superiori. Si tratta di un movimento forte che reclama i propri diritti. In certi Paesi però deve scontrarsi con una repressione brutale, al punto che, a farsi sentire troppo, si rischia la vita. Una delle dirigenti di un movimento popolare, che ha partecipato al primo movimento popolare che si è espresso in Vaticano, è stata uccisa in America centrale…
È difficile, ecco perché, quando i poveri si uniscono, insieme hanno una grande forza. Una forza anche religiosa.
Pensi agli attuali movimenti dei lavoratori. Nel mondo intero c’è un risveglio dei movimenti popolari. Alcuni di loro vengono piantati in asso perfino dai sindacalisti, perché i sindacalisti possono provenire dalle classi dominanti, o perlomeno dalle classi medie superiori. Si tratta di un movimento forte che reclama i propri diritti. In certi Paesi però deve scontrarsi con una repressione brutale, al punto che, a farsi sentire troppo, si rischia la vita. Una delle dirigenti di un movimento popolare, che ha partecipato al primo movimento popolare che si è espresso in Vaticano, è stata uccisa in America centrale…
È difficile, ecco perché, quando i poveri si uniscono, insieme hanno una grande forza. Una forza anche religiosa.
Pensa che la crescita delle disuguaglianze nel contesto della globalizzazione possa favorire un ritorno della teologia della liberazione?
Preferirei non parlare della teologia della liberazione degli anni Settanta, perché è un fenomeno caratteristico dell’America latina. In ogni teologia vera e giusta, comunque, c’è sempre una dimensione di liberazione; la memoria del popolo di Israele comincia con la liberazione dall’Egitto, no? La liberazione dalla schiavitù. La storia della Chiesa, e non solo della Chiesa ma dell’umanità intera, è piena di oppressori, di una minoranza che domina.
Preferirei non parlare della teologia della liberazione degli anni Settanta, perché è un fenomeno caratteristico dell’America latina. In ogni teologia vera e giusta, comunque, c’è sempre una dimensione di liberazione; la memoria del popolo di Israele comincia con la liberazione dall’Egitto, no? La liberazione dalla schiavitù. La storia della Chiesa, e non solo della Chiesa ma dell’umanità intera, è piena di oppressori, di una minoranza che domina.
Verissimo, ma ora, con la globalizzazione e la globalizzazione dell’informazione, possono vederlo tutti ogni giorno. Nella Storia non era mai successo niente di simile.
Questa è una faccenda di peccato… E in questo caso dobbiamo risalire all’origine della facoltà di peccare o alla radice del peccato insito in tutti noi. Senza cadere nel pessimismo perché c’è stata la redenzione di Gesù Cristo, la quale è appunto trionfo sul peccato, l’origine è lì, la ferita è lì, la possibilità è lì. Se tu sei povero e io sono ricco e voglio dominare ogni cosa, ti corrompo, e attraverso la tua corruzione ti domino.
Sono convinto che la corruzione sia il metodo utilizzato da una minoranza in possesso della forza e del denaro per colpire la maggioranza.
Questa è una faccenda di peccato… E in questo caso dobbiamo risalire all’origine della facoltà di peccare o alla radice del peccato insito in tutti noi. Senza cadere nel pessimismo perché c’è stata la redenzione di Gesù Cristo, la quale è appunto trionfo sul peccato, l’origine è lì, la ferita è lì, la possibilità è lì. Se tu sei povero e io sono ricco e voglio dominare ogni cosa, ti corrompo, e attraverso la tua corruzione ti domino.
Sono convinto che la corruzione sia il metodo utilizzato da una minoranza in possesso della forza e del denaro per colpire la maggioranza.
A proposito della misericordia, lei ha detto una frase molto bella: «La misericordia è un viaggio dal cuore alle mani».
È verissimo. Credo che la misericordia(5) sia al centro del Vangelo. Qual è il consiglio che ci dà Gesù? «Siate misericordiosi come il Padre». Ma per fare questo viaggio il cuore deve lasciarsi toccare dalla compassione, dalla miseria umana e da qualsiasi forma di miseria. È solo così che può cominciare il suo viaggio.
È verissimo. Credo che la misericordia(5) sia al centro del Vangelo. Qual è il consiglio che ci dà Gesù? «Siate misericordiosi come il Padre». Ma per fare questo viaggio il cuore deve lasciarsi toccare dalla compassione, dalla miseria umana e da qualsiasi forma di miseria. È solo così che può cominciare il suo viaggio.
In che modo la misericordia può aprire un nuovo cammino in questo mondo di competizione e violenza?
Parliamo au niveau de la simplicité, al livello della semplicità: la cosa importante, mi sembra, sono le opere. In questo mondo di violenza, per esempio, ci sono tante donne e tanti uomini, preti, suore e religiose che si dedicano agli ospedali, alle scuole… Ci sono così tante persone perbene, e tutte loro sono uno schiaffo in faccia alla società. La loro è una forma di testimonianza: «Io consumo la mia vita». Quando andiamo nei cimiteri africani e vediamo tutti quei morti, quei missionari, soprattutto francesi, morti giovani, a quarant’anni, perché contraevano la malaria… La ricchezza della misericordia commuove. E le persone, quando ne ricevono testimonianza, capiscono e cambiano. Vogliono essere migliori… oppure uccidono colui che dà testimonianza! Perché vengono travolti dall’odio. Testimoniare comporta questo rischio.
Le ho raccontato cosa ho visto in Africa centrale? Una suora, che avrà avuto ottantatré o ottantaquattro anni, con una bambina di cinque anni. L’ho salutata: «Di dove sei?». «Abito laggiù, sono venuta stamattina in canoa.» A ottantatré, ottantaquattro anni! «Vengo ogni settimana per fare la spesa. Vivo qui da quando ho ventitré anni (era di Brescia), sono infermiera e ho fatto nascere 2300 bambini. La madre di questa povera piccola è morta di parto, lei non aveva nemmeno il padre, così l’ho adottata legalmente. Mi chiama mamma.» Questa è tenerezza allo stato puro. Dedizione. Una vita intera! Le opere dei misericordiosi. Per me, far visita ai malati, andare nelle prigioni e far sentire ai carcerati che possono sperare di reinserirsi nella società, è questa la predicazione della Chiesa. La Chiesa predica più con le mani che con le parole.
Parliamo au niveau de la simplicité, al livello della semplicità: la cosa importante, mi sembra, sono le opere. In questo mondo di violenza, per esempio, ci sono tante donne e tanti uomini, preti, suore e religiose che si dedicano agli ospedali, alle scuole… Ci sono così tante persone perbene, e tutte loro sono uno schiaffo in faccia alla società. La loro è una forma di testimonianza: «Io consumo la mia vita». Quando andiamo nei cimiteri africani e vediamo tutti quei morti, quei missionari, soprattutto francesi, morti giovani, a quarant’anni, perché contraevano la malaria… La ricchezza della misericordia commuove. E le persone, quando ne ricevono testimonianza, capiscono e cambiano. Vogliono essere migliori… oppure uccidono colui che dà testimonianza! Perché vengono travolti dall’odio. Testimoniare comporta questo rischio.
Le ho raccontato cosa ho visto in Africa centrale? Una suora, che avrà avuto ottantatré o ottantaquattro anni, con una bambina di cinque anni. L’ho salutata: «Di dove sei?». «Abito laggiù, sono venuta stamattina in canoa.» A ottantatré, ottantaquattro anni! «Vengo ogni settimana per fare la spesa. Vivo qui da quando ho ventitré anni (era di Brescia), sono infermiera e ho fatto nascere 2300 bambini. La madre di questa povera piccola è morta di parto, lei non aveva nemmeno il padre, così l’ho adottata legalmente. Mi chiama mamma.» Questa è tenerezza allo stato puro. Dedizione. Una vita intera! Le opere dei misericordiosi. Per me, far visita ai malati, andare nelle prigioni e far sentire ai carcerati che possono sperare di reinserirsi nella società, è questa la predicazione della Chiesa. La Chiesa predica più con le mani che con le parole.
1. Il portoghese António Guterres sarebbe stato eletto segretario generale delle Nazioni Unite il 13 ottobre 2016.
2. Dottrina secondo cui le idee generali o i concetti esistono esclusivamente nelle parole che servono a esprimerli.
3. Gorgia 465: «Il saper vestire sta alla ginnastica come la sofistica sta alla legislazione, e la culinaria sta alla medicina come la retorica sta all’amministrazione della giustizia» (Platone, Opere complete, V, Laterza, Roma-Bari 1996, p. 165).
4. Basilio Magno (329-379), vescovo di Cesarea, dottore della Chiesa e autore di trattati sullo Spirito Santo.
5. Per i cristiani, la compassione per la sofferenza altrui è una forma di bontà che incita all’indulgenza e al perdono verso chi ha commesso un peccato e si pente. La misericordia divina è la bontà con cui Dio perdona i peccati dell’uomo. Quando Dio concede la sua misericordia agli uomini, non dà loro quel che meriterebbero (la sua collera), ma al contrario accorda loro la sua grazia, cioè la vita eterna. È misericordioso verso l’uomo affinché costui lo sia nella sua vita quotidiana: «Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro» (Mt 5,48).
2. Dottrina secondo cui le idee generali o i concetti esistono esclusivamente nelle parole che servono a esprimerli.
3. Gorgia 465: «Il saper vestire sta alla ginnastica come la sofistica sta alla legislazione, e la culinaria sta alla medicina come la retorica sta all’amministrazione della giustizia» (Platone, Opere complete, V, Laterza, Roma-Bari 1996, p. 165).
4. Basilio Magno (329-379), vescovo di Cesarea, dottore della Chiesa e autore di trattati sullo Spirito Santo.
5. Per i cristiani, la compassione per la sofferenza altrui è una forma di bontà che incita all’indulgenza e al perdono verso chi ha commesso un peccato e si pente. La misericordia divina è la bontà con cui Dio perdona i peccati dell’uomo. Quando Dio concede la sua misericordia agli uomini, non dà loro quel che meriterebbero (la sua collera), ma al contrario accorda loro la sua grazia, cioè la vita eterna. È misericordioso verso l’uomo affinché costui lo sia nella sua vita quotidiana: «Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro» (Mt 5,48).
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© 2017 Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano
© Éditions de l’Observatoire / Humensis, 2017
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