giovedì 26 aprile 2018

«Frutti»





«Frutti» è il titolo del terzo seminario internazionale pensato per elaborare «una teologia intrinsecamente femminile» che si tiene dal 27 al 29 aprile a Roma nella sede della Pontificia università Urbaniana grazie all’impulso di Lucinda M. Vardey. Rispondendo all’invito più volte ripetuto da Papa Francesco di elaborare «una profonda teologia delle donne», l’iniziativa si è articolata in tre convegni, tenutisi tutti in coincidenza del 29 aprile, festa di santa Caterina. Dopo «Lacrime» (2016) e «Cuore» (2017), l’incontro di quest’anno prevede interventi di Caterina 
(Anne-Marie Pelletier) Attraverso il lavoro condotto in questi tre anni nel quadro dei nostri incontri, è stato proprio il contributo delle donne al nostro mondo contemporaneo l’oggetto delle nostre indagini sulla singolarità dell’esperienza femminile in materia sia antropologica sia spirituale. 
Il tema della fecondità affrontato quest’anno dovrebbe offrirci l’occasione di progredire ulteriormente nel nostro cammino. Il termine implica subito una connotazione femminile, rinviando in particolare al rapporto che le donne intrattengono con la vita, attraverso il loro corpo che ne accoglie un altro e lo fa crescere nella maternità. Al tempo stesso, questa realtà suscita un proliferare di fantasie che si estende attraverso i millenni fino al tempo presente. Le realtà della gestazione, processo fino a poco tempo fa misterioso, che si dispiega nell’intimità del corpo femminile, sembra attirare e affascinare in maniera immemorabile lo sguardo maschile. Ne sono prova le statue di donne incinte, quelle Veneri dalle forme oltraggiose che si moltiplicarono sia nel paleolitico che nel neolitico, testimoniando una fissazione dell’immaginario sulla sessualità femminile, che rimanda in modo provocatorio, in epoca moderna, al celebre quadro di Courbet, dal titolo L’origine del mondo, interamente occupato dalla raffigurazione di un sesso femminile. Il che attesta un interesse transculturale, fatto di attrazione e di paure arcaiche dinanzi al mistero della vita nella sua origine, che sembra essere un segreto di donne e che tiene gli uomini a distanza. I rapporti tra erotismo e sacralità hanno certamente a che fare con tutto ciò. Ma s’intuisce anche quella che può essere la diffidenza della tradizione biblica rispetto a questo immaginario che reca così facilmente il sigillo del paganesimo che circonda Israele. Il mio obiettivo sarà proprio di apprezzare il modo in cui la Bibbia affronta la generazione materna e, più in generale, la fecondità. Una volta mostrato come essa si affranca dagli ammalianti sortilegi del sacro, si vedrà come restituisce alla fecondità una dimensione d’interiorità ignorata dal paganesimo. Si vedrà, in particolare, come consente di riconoscere un certo ritmo dell’agire fecondo al femminile che, in modo sorprendente, si ritrova a caratterizzare il discorso biblico su Dio e sul suo modo di presenza e d’intervento nella storia. Si dovrebbe così poter valutare l’importanza e il prezzo di questa esperienza femminile della fecondità in un mondo trascinato oggi nelle esaltazioni di un’accelerazione generalizzata. 
Cominciamo con una costatazione: la sola evocazione a livello dei due Testamenti di una fecondità genesica, collegata a un vitalismo naturalista, s’iscrive, trasversalmente e in modo molto polemico, nella menzione dell’Artemide degli efesini nel capitolo 19 del libro degli Atti degli apostoli. Si ricorderà che quest’ultima è raffigurata sotto forma di una dea dal cui petto proliferano pesanti grappoli di seni. Ispirata forse dalle dee-madri dell’Anatolia, questa raffigurazione strana, tipica di un immaginario pagano affascinato e incontrollato, è all’origine della sommossa che suscita, nell’ambiente degli orafi e dei commercianti che gravitano attorno al tempio di Efeso, la predicazione di Paolo che minaccia il loro commercio. Così questa raffigurazione di una femminilità identificata con un’esuberanza sessuale non può che rispuntare, implicitamente, all’interno del corpo biblico. Si esprime qui una chiara condivisione tra Israele e i paganesimi circostanti.
Non che il mondo biblico si distaccasse dalle culture umane, identificando così costantemente le donne con la loro funzione di genitrici e di madri. Siamo in realtà in un universo patriarcale che deputa le donne anzitutto alla procreazione e dove la sterilità costituisce un disonore che destina all’ignominia. Così la condizione delle donne, qui come altrove, associa l’esercizio della maternità, appannaggio femminile, a un’identità ontologicamente inferiore, che si traduce in una condizione subalterna. È d’altra parte proprio lo schema che si ritrova nelle parole della prima lettera a Timoteo, testo alquanto misogino, che imputa la colpa originale alla donna prima di concludere che «essa potrà essere salvata partorendo figli» (2, 15).
Ciò premesso, la Bibbia resta fondamentalmente sobria in merito alla generazione e al parto. Questa realtà è forse troppo banale agli occhi degli autori biblici per essere oggetto di sviluppi particolari? Ma non è certo che non ve ne siano. Di fatto non si può non constatare che essa è evocata con la stessa sorprendente neutralità che contraddistingue la menzione della morte. Al «si addormentò con i padri» per indicare la fine di una vita, sembrano fare eco le laconiche menzioni delle unioni da cui nascono le generazioni d’Israele: quell’uomo “conobbe” quella donna, che partorì. Come se l’espressione osservasse una stessa ascesi per evocare l’inizio e la fine della vita, questi due momenti tanto propizi agli straripamenti dell’immaginario. In ogni caso, la sobrietà del testo riguardo alla prima consegna ricevuta dall’umanità in Genesi 1, 28 («siate fecondi, moltiplicatevi»), ha come effetto quello di favorire il dispiegarsi di una dimensione d’interiorità, sulla quale vorrei soffermarmi. 
Questa nota d’interiorità caratterizza proprio uno dei rari commenti biblici sulla gestazione e il parto. Non è irrilevante che sia stato messo sulla bocca di una donna. Mi riferisco alle parole della madre dei sette fratelli, nel secondo libro dei Maccabei. Esortando i suoi figli a non rinnegarsi trasgredendo la legge, invoca la potenza di Dio capace di ridare loro la vita al di là della morte, ricordando il modo in cui hanno preso forma nella sua carne: «Non so come siate apparsi nel mio seno; non io vi ho dato lo spirito e la vita, né io ho dato forma alle membra di ciascuno di voi» (7, 22). Così il mistero della vita trasmessa e ricevuta non è espresso qui dalla fantasia maschile, ma suggerito discretamente, come un enigma che si sottrae alla donna stessa e che questa può nominare rinviando al segreto della vita di Dio. Così è anche la dimensione che la maternità assume attraverso il racconto patriarcale che ricorda le matriarche sterili che hanno ricevuto da Dio la capacità di partorire, dando così consistenza e futuro alla promessa. L’esperienza del “nulla è impossibile a Dio”, che si vive in questi parti miracolosi della storia d’Israele, entra singolarmente in risonanza con l’esperienza della maternità esplorata con grande intensità da Carla Canullo nel suo libro Essere madre (2009). Esperienza della «vita sorpresa» che si rinnova nell’emozione assoluta che produce la venuta dell’altro portato nell’intimità della carne. Presenza inedita, sconosciuta, donata e affidata con il suo carico di oneri, derivanti da un’alterità che sconvolge la carne e la vita che l’accolgono.
Un’altra indicazione è data nel Salmo 139. Parole di un uomo, questa volta, che ricorda la sua stessa vita come un mistero nascosto in Dio, ancor prima della sua nascita: «Sei tu che hai formato le mie reni, che mi hai intessuto nel seno di mia madre… Le mie ossa non ti erano nascoste, quando fui formato in segreto e intessuto nelle profondità della terra. I tuoi occhi videro la massa informe del mio corpo» (13-16). La stessa allusione a una tessitura di vita si ritrova sulla bocca di Giobbe che si rivolge a Dio come colui che l’ha «rivestito di pelle e di carne» (10, 11). L’espressione va tenuta presente in quanto contiene un prezioso suggerimento. Tessere, in effetti, è un’attività silenziosa, un gesto laborioso, fedelmente ed efficacemente ripetitivo, che si compie nel tempo. E che manifesta la fecondità della pazienza del tempo, quando appare nella sua compiutezza il disegno di un tessuto o la solidità di una tela. Lo stesso vale per l’umano generato dal lavoro nascosto, invisibile ma attivamente fecondo, che si opera nel ventre materno. 
Il racconto della Visitazione in Luca s’iscrive in modo singolare nel registro di questa vita nascosta che cresce e da cui si origina la storia delle generazioni e del mondo intero. Il dipinto di Pontormo che accompagna il nostro convegno ne è testimonianza. Due donne s’incontrano, entrambe portatrici, ognuna a suo modo, della “vita sorpresa” di cui Dio ha l’iniziativa nella loro carne. C’è molto silenzio in questa scena densa di riconoscenza che ha una naturalezza e una grazia di pericoresi. Due volti di donna figurano in secondo piano, una giovane e una anziana, come se insieme ricoprissero tutto lo spettro della vita al femminile. Il segreto scambiato tra Maria ed Elisabetta non è forse prima di tutto un segreto di donne, al quale tuttavia accede il bambino — la cui esistenza si sta tessendo — che Dio ha donato alla vecchiaia di Zaccaria e di Elisabetta e che sussulta in seno alla madre alla presenza di Maria? La gioia di quel sussulto, che solo la carne materna percepisce, è una risonanza silenziosa e decisiva dell’opera divina che sta prendendo forma nel corpo di Maria. E tutto ciò avviene al ritmo congiunto della vita di due donne e del calendario della storia divina che s’iscrive in quei giorni: durante il sesto mese di Elisabetta, precisa il testo, Maria riceve la visita dell’angelo di Dio; dopo aver accompagnato gli ultimi tre mesi di gravidanza della parente, Maria giunge lei stessa al giorno della nascita di Gesù. Nessuna urgenza, se non quella di affrettare l’ora della salvezza, può stravolgere le scadenze della maternità. 
«Occorrono nove mesi per fare un uomo e un solo giorno per ucciderlo», Si sarebbe tentati di riconoscere in questa frase di La condizione umana di Malraux il suggerimento di due temporalità. Una è quella degli eventi nel presente immediato, dove la decisione è posta nell’istante e dove l’atto s’iscrive in un mondo di azione senza indugio. Temporalità che è in affinità con la mascolinità, e che comporta la terribile efficacia, secondo Malraux, di poter tagliare il filo di una vita, nell’istante di un gesto omicida. Al contrario, la temporalità femminile costruisce nella pazienza del tempo, edifica la vita e la storia al ritmo lento di una crescita interiore. È esemplarmente quella dell’attesa che caratterizza la tessitura della gestazione. 
È però ben lungi dall’essere solamente l’esperienza di un tempo che cesserebbe con la nascita. Poiché è allora, sottolinea Claudia Canullo, che l’attesa si rivela come modalità della vita intera, e non solo di uno dei suoi momenti. Pazientemente, si tratta ora di lasciare esistere l’altro nel tempo, dove diviene se stesso giorno dopo giorno, affermandosi nella sua diversità. In realtà, questo ritmo lento della pazienza e dell’attesa qualifica la vita e permea i gesti delle donne. Si ritrova come inciso nell’essere-donna, persino al di là dell’esperienza carnale della maternità. Per istinto, le donne sanno che la vita ha come condizione il consenso all’attesa, che la fecondità vuole la pazienza che permette la maturazione, la fiducia che ha valore al di là dei limiti dell’istante presente. Ci si ricorderà così di come, nella storia degli inizi dell’Europa cristiana — mentre alcuni sovrani battezzavano in tutta fretta eserciti e intere popolazioni — furono delle donne a ricordare la necessità di rispettare le scadenze di una vera evangelizzazione. Parimenti, le donne sanno durare in una perseveranza che non cede mai, persino quando l’irreparabile è stato commesso. Tutto ciò è stato ricordato proprio qui, lo scorso anno, rievocando la resistenza femminile in America latina. C’è un modo femminile di confrontarsi con il tempo, di farne un alleato per riparare, consolare, ricostruire e contrapporre la fedeltà della memoria — memoria combattente se necessario — al disonore o alla perdita. 
È evidente, la fede e la vita spirituale sono intrinsecamente coinvolte in un ritmo singolare che implica la pazienza del tempo, la resistenza della speranza e il consenso a una storia profonda che non coincide con il ritmo del tempo immediato, quello della visibilità mondana degli eventi. Ebbene, si deve ammettere che tra queste due temporalità il divario è oggi aumentato in modo inedito. Il sociologo Hartmunt Rosa, in effetti, fa dell’accelerazione una delle caratteristiche principali della tarda modernità in cui viviamo. Molto più decisiva, sostiene, dell’espansione sfrenata dei processi di razionalizzazione e d‘individualizzazione. Nel suo famoso libro Accelerazione e alienazione. Per una teoria critica del tempo nella tarda modernità elenca le modalità di questa accelerazione, che rimodella le relazioni sociali, permea la vita economica e culturale, modifica profondamente il rapporto soggettivo con se stessi nelle società contemporanee. Così viviamo sempre più in un mondo d’identità instabili, in un tempo dominato dalle scadenze, dall’instaurazione di una inter-comunicazione istantanea, dove l’uomo è sradicato e trascinato alla cieca in un futuro immaginario. Questa logica ha innegabilmente una connotazione più maschile che femminile. Il che significa anche che l’esperienza delle donne potrebbe e dovrebbe essere più che mai antidoto vitale a un mondo di visibilità senza ombra, di fuga in un’accelerazione generalizzata, diventando sempre più straniero al ritmo profondo della vita spirituale. Hartmunt Rosa si dichiara pessimista nella sua ricerca di pratiche di decelerazione che possano salvarci dalle esaltazioni suicide della cultura contemporanea. Forse sarebbe meno disincantato se si ricordasse che la parte femminile della nostra umanità custodisce, per sé e per tutti, questo segreto vitale di un tempo diverso da quello che le nostre tecniche strumentalizzano. 
«Occorrono nove mesi per fare un uomo», il che è vero ancora oggi. Questa banalità antropologica — che resiste in un’epoca di discutibili manipolazioni della procreazione o della pratica delle madri surrogate — resta un baluardo a protezione della nostra umanità. Questa esperienza propria della vita delle donne è direttamente coinvolta nella lotta contro le tentazioni disumanizzanti che assillano le nostre società.

L'Osservatore Romano