martedì 24 aprile 2018

LO SPIRITO CREATORE E LA MISERICORDIA DIVINA

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P. Raniero Cantalamessa, ofmcap. 

LO SPIRITO CREATORE E LA MISERICORDIA DIVINA

 Novara, Cattedrale 4 Marzo 2016 

Guardando con attenzione la locandina con il programma degli eventi quaresimali della vostra diocesi, mi è sembrato di capire che il tema di fondo è quello scritto a lettere cubitali nel frontespizio: “Veni creator Spiritus”. Una riflessione dunque sullo Spirito Santo creatore; ma una riflessione che si svolge nell’anno della misericordia e che non vuole prescindere da questo contesto. Questo, penso, vuol significare l’immagine del ritorno del figliol prodigo di Marc Chagall riprodotta nella stessa locandina. Mi sforzerò di rispondere a questa duplice attesa svolgendo con voi una riflessione prima sullo Spirito Santo come creatore e poi sulla sua relazione con la misericordia. Con ciò spero di rispondere, indirettamente, anche al titolo specifico dato a questo incontro: “Va’ e ripara la mia Chiesa”.

1. L’esperienza dello Spirito come creatore Il testo da cui partire per una riflessione sullo Spirito creatore è Genesi 1, 1-3: “In principio Dio creò il cielo e la terra. La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l'abisso e lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque. Dio disse: Sia la luce! E la luce fu”. A proposito di questo testo, Sant’Ambrogio fa questa osservazione illuminante: “Quando lo Spirito cominciò ad aleggiare su di esso, il creato non aveva ancora alcuna bellezza. Invece, quando la creazione ricevette l’operazione dello Spirito, ottenne tutto questo splendore di bellezza che la fece rifulgere come ‘mondo’ ”1 . In altre parole, il creato era vuoto, tenebra, caos, finché lo Spirito di Dio non cominciò ad aleggiare su di esso. È solo grazie a lui che tutto prende forma e la confusione cede il posto all’armonia e all’ordine: la luce è distinta dalle tenebre, l’acqua dalla terra ferma, e così via. L’azione creatrice dello Spirito è all’origine dunque della perfezione del creato; egli non è tanto colui che fa passare il mondo dal nulla all’essere, quanto colui che lo fa passare dall’essere informe all’essere formato e perfetto. In altre parole, lo Spirito Santo è colui che fa passare il creato, dal caos, al cosmo, che fa di esso qualcosa di bello, di ordinato, pulito: un “mondo” appunto, secondo il significato originario di questa parola e della parola greca cosmo. Questo non vuol dire che Dio Padre aveva creato un mondo caotico che aveva bisogno di essere corretto, perché, spiegava già san Basilio nel IV secolo, era proprio questa la volontà del Padre e cioè creare il mondo per mezzo del Figlio e portarlo alla perfezione mediante lo Spirito Santo2 . Ora la conseguenza pratica di tutto ciò. Noi sappiamo che l’azione creatrice di Dio non è limitata all’istante iniziale, come si pensava nella visione deista o meccanicista dell’universo. Dio non “è stato” una volta, ma sempre “è” creatore. E non solo nel senso debole che “conserva” l’essere e che governa con la sua Provvidenza il mondo, ma anche nel senso forte che sostiene, comunica continuamente essere ed energia, spinge, anima e rinnova la creazione. “Creare è fare continuamente nuovo”3 . Che significa tutto ciò applicato allo Spirito Santo? Significa che egli è sempre colui che fa passare dal caos al cosmo, cioè: dal disordine all’ordine, dalla confusione all’armonia, dalla deformità alla bellezza, dalla vetustà alla novità. Non, s’intende, meccanicamente e di colpo, ma nel senso che è all’opera e guida a un fine preciso la sua stessa evoluzione del cosmo. “La creazione –scrive san Paolo - è stata sottoposta alla caducità - non per sua volontà, ma per volontà di colui che l'ha sottoposta - nella speranza che anche la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo infatti che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi” (Rom 8, 20-22).

La scelta del titolo di creatore permette così di dare oggi un fondamento, non solo strategico e morale, ma squisitamente teologico e spirituale, al problema dell’ecologia e della salvaguardia del creato che papa Francesco ha proposto all’attenzione del mondo con la sua enciclica “Laudato si”. Il creato, ci dice, è l’opera dello Spirito creatore; deturparlo, è offendere e contristare il suo autore. Il salmo che canta gli splendori della creazione (del mare, dei monti, delle sorgenti) e che assegna a ogni creatura il suo posto e il suo spazio, è anche quello che attribuisce tutto questo allo Spirito Santo, con le parole: “Se togli loro il tuo spirito, muoiono, e ritornano alla loro polvere. Mandi il tuo Spirito, sono creati, e rinnovi la faccia della terra” (Sal 104, 29 s.). Quello che avviene nel macrocosmo, avviene anche nel microcosmo che è ogni singolo uomo. Applichiamo infatti tutto questo al “piccolo mondo” che è il nostro stesso cuore. “Le tenebre - si legge in Genesi- ricoprivano l’abisso” (Gen 1,2). Ma anche il cuore dell’uomo, dice la Scrittura, è un “baratro e un abisso” (cf. Sal 64, 7). C’è un caos esteriore e un caos interiore. Il nostro caos è quello del buio che c’è in noi; dei desideri, progetti, propositi, rimpianti contrastanti e in lotta tra di loro. Un autore spirituale del medio evo descriveva in questi termini il suo stato spirituale (e si tratta di un monaco certosino che viveva nella più alta contemplazione!): “Mi accorgo, Signore, che la terra del mio spirito è ancora inconsistente e vuota, che le tenebre ricoprono la superficie dell’abisso...Essa è infatti nella confusione come in una specie di caos spaventoso e oscuro, ignorando sia il suo fine che la sua origine e il modo della sua natura... Così è la mia anima, Dio mio, così è la mia anima. Una terra deserta e vuota, invisibile e informe, e le tenebre sono sulla superficie dell’abisso...Ma l’abisso del mio

Lo Spirito di Dio, che era in azione sopra e dentro il caos primordiale, è ancora operante nel mondo. Intonando il Veni creator, noi diciamo: “Vieni, Spirito Santo, aleggia e soffia anche sul mio caos, rischiara le mie tenebre (cf. Sal 18, 29), fa anche di me davvero un microcosmo, un piccolo mondo, una cosa bella, armoniosa, pura: una nuova creazione”. Noi portiamo in noi stessi un vestigio del caos primordiale: il nostro inconscio. Quello che la psicanalisi moderna ha espresso come passaggio dall’inconscio alla coscienza, dall’”Es” al “Super io”, è un aspetto di questa creazione che deve continuare a compiersi in noi, del passaggio dall’informe al formato. Lo Spirito Santo vuole aleggiare anche sul caos del nostro inconscio in cui si agitano forze oscure, impulsi contrastanti, in cui si annidano angosce e nevrosi, ma anche possibilità inesplorate. “Lo Spirito scruta ogni cosa...” (1 Cor 2, 10). A chi ha problemi con il proprio inconscio (e chi non ne ha?) non si può dare migliore consiglio che quello di coltivare una particolare devozione allo Spirito Santo e di invocarlo spesso nella sua qualità di creatore. Egli è il migliore psicanalista e psichiatra del mondo. La devozione allo Spirito Santo non induce necessariamente a far meno degli aiuti umani in tale campo, ma certamente li completa e li sorpassa. Prima di passare alla seconda parte, cantiamo la prima strofa del Veni creator, ora che abbiamo intravisto la sua ricchezza e profondità di significato.

2. Lo Spirito Santo e la misericordia Dopo aver riflettuto sullo Spirito Santo e la creazione, passiamo ora, come promesso, a riflettere sul rapporto tra lo Spirito Santo e la misericordia divina. Lo Spirito Santo appare inseparabilmente unito al tema della misericordia fin dall’inizio del ministero pubblico di Gesú. Tornato nella sua patria, a Nazareth, dopo il battesimo nel Giordano, Gesù applicò solennemente a se stesso le parole di Isaia 61,1-2: “Lo Spirito del Signore è sopra di me, perciò mi ha unto per evangelizzare i poveri; mi ha mandato per annunciare la liberazione ai prigionieri e il ricupero della vista ai ciechi; per rimettere in libertà gli oppressi, per proclamare l'anno di grazia del Signore” (Lc 4,18-19). Era grazie all’unzione dello Spirito Santo che Gesù predicava la buona novella, guariva i malati, consolava gli afflitti, e compiva tutte le sue opere di misericordia. “Lo Spirito Santo, scrive san Basilio, fu il compagno inseparabile di Gesù in tutte le sue opere” 5 . Lo Spirito Santo, che nella Trinità è l’amore personificato, è anche la misericordia di Dio personificata; è il “contenuto” stesso della misericordia divina. Senza lo Spirito Santo, misericordia sarebbe una parola vuota. Il nome di Paraclito lo indica chiaramente. Gesù annunciando la sua venuta, dice: “Il Padre vi darà un altro Consolatore che sarà con voi per sempre” (Gv 14, 16): “un altro”, s’intende, dopo avervi dato me. Lo Spirito Santo è dunque colui attraverso il quale Gesù continua, da risorto, la sua opera di “passare beneficando e risanando tutti” (At 10, 38). Le parole: “Egli (il Paraclito) prenderà del mio e ve lo annunzierà” (Gv 16, 14) si applicano anche alla misericordia: lo Spirito Santo aprirà ai credenti di tutti i tempi i tesori della misericordia di Gesù. Farà che la misericordia di Gesù non sia soltanto ricordata, ma anche sperimentata.

Il Paraclito è all’opera, anzitutto, nel sacramento della misericordia che è la confessione. “Lui stesso è la remissione di tutti i peccati”, dice una preghiera della Chiesa 6 . Per questo, prima di conferire l’assoluzione al penitente, il confessore pronuncia le parole: “Dio, Padre di misericordia, che ha riconciliato a sé il mondo nella morte e risurrezione del suo Figlio, e ha effuso lo Spirito Santo per la remissione dei peccati, ti conceda, mediante il ministero della Chiesa, il perdono e la pace”. Un’opera essenziale dello Spirito Santo nei confronti della misericordia è anche quella di cambiare, nel cuore degli uomini, l’immagine che essi hanno di Dio, in seguito al peccato. Una delle cause, forse la principale, dell’alienazione dell’uomo moderno dalla religione e dalla fede, dicevo sopra, è l’immagine distorta che esso ha di Dio. Questa è anche la causa di un cristianesimo spento, senza slancio e senza gioia, vissuto più come dovere che come dono, per costrizione, anziché per attrazione.

Qual è infatti l’immagine “predefinita” di Dio nell’inconscio umano collettivo, che opera automaticamente (nel linguaggio dei computer, si direbbe come default)? Basta, per scoprirlo, porsi questa domanda: “Quali idee, quali parole, quali sentimenti sorgono spontaneamente in te, prima di ogni riflessione, quando, nella recita del Padre nostro, arrivi alle parole: “sia fatta la tua volontà”? In genere, chi lo dice china interiormente la testa rassegnato, come preparandosi al peggio. Inconsciamente, si collega la volontà di Dio a tutto ciò che è spiacevole, doloroso, a ciò che, in un modo o nell’altro, può essere visto come mutilante la libertà e lo sviluppo individuali. È un po’ come se Dio fosse il nemico di ogni festa, gioia, piacere. Non si pensa che la volontà di Dio è chiamata nel Nuovo Testamento eudokia (Ef 1,9; Lc 2, 14), cioè volontà buona, benevolenza, per cui dire “sia fatta la tua volontà” è come dire: “si compia in me, o Padre, il tuo disegno d’amore”. Così Maria disse il suo “fiat” e così lo disse Gesú. Dio è visto in genere come l’Essere supremo, l’Onnipotente, il Signore del tempo e della storia, cioè come un’entità che si impone all'individuo dall'esterno; nessun particolare della vita umana gli sfugge. La trasgressione della Legge, cioè la disobbedienza alla volontà divina, introduce inesorabilmente un disordine nell’ordinamento voluto da Dio da tutta l’eternità. Di conseguenza, l’infinita sua giustizia esige una riparazione: bisognerà dare a Dio qualcosa, al fine di ristabilire, nella creazione, l’ordine perturbato. Questa riparazione sarà costituita da una privazione, un sacrificio. Non potendo però mai avere la certezza che la “soddisfazione” sia adeguata, nasce l’angoscia di trovarsi di fronte alla morte e al giudizio. Dio è un padrone che esige di essere pagato fino in fondo! Certo, non si è mai ignorata la misericordia di Dio! Ma ad essa si è affidata soltanto l’incombenza di moderare gli irrinunciabili rigori della giustizia. Era un correttivo, un’eccezione, non la regola. Anzi, nella pratica, si sono fatti dipendere spesso l’amore e il perdono di Dio dall’amore e dal perdono che si dona agli altri: se perdoni chi ti reca l’offesa, Dio potrà, a sua volta, perdonarti. È venuto fuori con Dio un rapporto di mercanteggiamento. Non si dice che bisogna accumulare meriti per guadagnare il Paradiso? E non si attribuisce grande rilevanza agli sforzi da fare, alle messe da far celebrare, alle candele da accendere, alle novene da fare? Tutto questo, avendo permesso a tanta gente in passato di dimostrare a Dio il proprio amore, non può essere gettato alle ortiche, va rispettato. Dio fa sbocciare i suoi fiori in ogni clima e i suoi santi in ogni stagione. Non si può negare però che c’è il rischio di cadere in una religione utilitaria, del “do ut des”. Alla base di tutto c’è il presupposto che il rapporto con Dio dipenda dall’uomo. L’uomo pretende inconsciamente di “pagare a Dio il suo prezzo” (Sal 48,8), non vuole essere debitore, ma creditore di Dio. Da dove viene questa idea deformata di Dio? Lasciamo da parte i motivi contingenti e individuali dovuti a un cattivo rapporto con il proprio padre terreno che pure incidono, in alcuni casi, sul rapporto con Dio Padre. Il motivo fondamentale che spiega quella terribile immagine “predefinita” di Dio appare chiaramente da quanto si è detto: è la legge. Finché l’uomo vive nel regime di peccato, sotto la legge, Dio gli appare un padrone severo, uno che si oppone al soddisfacimento dei suoi desideri terreni con quei perentori: “Tu devi.., tu non devi” che sono i comandamenti: non devi desiderare la roba d’altri, la donna d’altri...In questo stato l’uomo carnale accumula nel fondo del cuore un sordo rancore contro Dio, lo vede come un avversario della sua felicità e se, dipendesse da lui, sarebbe ben felice che non esistesse 7.

La prima cosa che fa lo Spirito Santo, venendo in noi, è quella di mostrarci un diverso volto di Dio. Ce lo fa scoprire come alleato, amico, come colui che, per noi, “non ha risparmiato il proprio Figlio” (Rom 8, 32); insomma, come Padre tenerissimo che ci ha dato la legge per proteggere, non per soffocare, la nostra libertà. Sboccia allora il sentimento filiale che si traduce spontaneamente nel grido: Abbà, Padre! Come dire: “Io non ti conoscevo, o ti conoscevo solo per sentito dire; ora ti conosco, so chi sei, so che mi vuoi bene davvero, che mi sei favorevole”. Il figlio ha preso il posto dello schiavo, l’amore quello del timore. È così che avviene, sul piano soggettivo ed esistenziale, la “rinascita dallo Spirito” (cf. Gv 3, 5.8). Sarebbe un frutto magnifico dell’anno della misericordia se esso servisse a restituirci la vera immagine di Dio Padre che Gesù è venuto sulla terra a rivelarci. Lo Spirito Santo non ci parla solo della misericordia di Dio verso di noi, ma apre tutto un campo di azione alla misericordia degli uni verso gli altri. Uno dei suoi titoli con cui esso viene promesso da Cristo è il titolo di Paraclito. Paraclito è una parola greca che tradotta nelle nostre lingue vuol dire due cose sempre unite: difensore e consolatore. Questo titolo contiene tutto un programma; è una parenesi, cioè una esortazione. Bisogna, in altre parole, diventare noi stessi dei paracliti! Se è vero che il cristiano deve essere un alter Christus, un altro Cristo, è altrettanto vero che deve essere un “altro Paraclito”. Mediante lo Spirito Santo, è stato effuso nei nostri cuori l’amore di Dio (cf. Rom 5,5); cioè, sia l’amore con cui siamo amati da Dio, sia l’amore con cui siamo resi capaci di amare, a nostra volta, Dio e il prossimo. Applicata alla misericordia -che è la forma che l’amore prende davanti alla sofferenza e al peccato della persona amata-, quella parola dell’Apostolo viene a dirci una cosa importantissima: che il Paraclito non solo ci consola, ma ci spinge a consolare e ci rende capaci di consolare e di essere misericordiosi. San Paolo scrive: “Sia benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione, il quale ci consola in ogni nostra tribolazione perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in qualsiasi genere di afflizione con la consolazione con cui siamo consolati noi stessi da Dio” (2 Cor 1, 2-4). La parola greca da cui deriva il nome Paraclito (parakaleo) ritorna ben cinque volte, ora come verbo ora come sostantivo, in questo testo. Esso contiene l’essenziale per una teologia della consolazione. La consolazione viene da Dio che è il “Padre di ogni consolazione”. Viene su chi è nell’afflizione. Ma non si arresta in lui; il suo scopo ultimo è raggiunto quando chi ha sperimentato la consolazione se ne serve, a sua volta, per consolare altri. Ma consolare come? Qui sta l’importante. Con la consolazione stessa con cui lui è stato consolato da Dio; con una consolazione divina, non umana. Non contentandosi di ripetere sterili parole di circostanza che lasciano il terreno che trovano (“coraggio, non avvilirti; vedrai che tutto si risolverà per il meglio”!), ma trasmettendo l’autentica “consolazione che viene dalle Scritture”, capace di “tener viva la speranza” (cf. Rom 15,4). Così si spiegano i miracoli che una semplice parola o un gesto, posti in clima di preghiera, sono capaci di operare accanto al capezzale di un ammalato. È Dio che sta consolando attraverso di te. In un certo senso, lo Spirito Santo ha bisogno di noi, per essere Paraclito. Egli vuole consolare, difendere, esortare; ma non ha bocca, mani, occhi per “dare corpo” alla sua consolazione. O meglio, ha le nostre mani, i nostri occhi, la nostra bocca. Come l’anima agisce, si muove, sorride, attraverso le membra del nostro corpo, così lo Spirito Santo fa con le membra del “suo” corpo che è la Chiesa e che siamo noi. “Consolatevi a vicenda”, raccomandava san Paolo ai primi cristiani (1 Ts 5,11) e tradotto alla lettera il verbo vuole dire “fatevi paracliti” gli uni degli altri. Se la consolazione e la misericordia che riceviamo dallo Spirito non passa da noi ad altri, se vogliamo trattenerla egoisticamente solo per noi, essa ben presto si corrompe. (I due mari della Palestina).

3. Solo la misericordia può salvare il mondo Sono ben note e spesso ripetute le parole che Dostoevskij pone in bocca a uno dei personaggi a lui più cari, l’Idiota: “Il mondo sarà salvato dalla bellezza”. Ma, a quella affermazione, egli fa seguire subito una domanda: “Quale bellezza salverà il mondo?” 8 . È chiaro, anche per lui, che non ogni bellezza salverà il mondo; c’è una bellezza che può salvare il mondo e una bellezza che può perderlo. Di qui la sua conclusione: “Al mondo esiste un solo essere assolutamente bello, il Cristo, ma l’apparizione di questo essere infinitamente bello è di certo un infinito miracolo”9 . La bellezza di Gesú è la sua misericordia ed è essa che salverà il mondo. “La misericordia, scrive, san Giacomo, avrà la meglio nel giudizio” (Gc 2, 13). Egli parla probabilmente della misericordia praticata dall’uomo, ma la frase è vera a maggior ragione se applicata alla misericordia di Dio. Sarà essa che, alla fine, avrà la meglio su tutte le ingiustizie e le mancanze umane di misericordia. Ma non è solo in questo senso escatologico che la misericordia salverà il mondo. Essa è l’unica cosa che può salvare il mondo presente, sconvolto da tante lotte. Qual è la legge ferrea che regola di fatto i rapporti tra le persone e le nazioni? È ancora quella del taglione: “Occhio per occhio, dente per dente”. Gesú è venuto a spezzare questa catena. Alla regola: “Quello che gli altri fanno a te, tu fallo a loro”, ha sostituito la regola: “Quello che Dio ha fatto a te, tu fallo agli altri”. Gesú, sulla croce, “ha distrutto in se stesso l’inimicizia” (Ef 2, 16): ha distrutto l’inimicizia, non il nemico; l’ha distrutta in se stesso, non negli altri. Ha insegnato che anche noi dobbiamo distruggere l’inimicizia, non il nemico.
È ora di renderci conto che l’opposto della misericordia non è la giustizia, ma è la vendetta. Gesú non ha opposto la misericordia alla giustizia, ma alla legge del taglione: “occhio per occhio, dente per dente”. Dio, perdonando i peccati, non rinuncia alla giustizia, rinuncia alla vendetta, cioè a volere la morte del peccatore. Gesú sulla croce non ha chiesto al Padre di vendicare la sua causa; gli ha chiesto di perdonare i suoi crocifissori. L’appello che dobbiamo lanciare al mondo è: demitizzare la vendetta! La vendetta è diventata un mito pervasivo che contagia tutto e tutti, a cominciare dai bambini. La maggioranza dei film, delle storie portate sullo schermo e dei giochi elettronici esaltano la vendetta, spacciandola per “vittoria del bene” o “trionfo dell’eroe buono”. Metà, se non più, della sofferenza che c’è nel mondo (quando non si tratta di mali naturali) dipende dal desiderio di vendetta. La misericordia che salva il mondo, salva anche la cosa più preziosa e più fragile che c’è in questo momento nel mondo, il matrimonio e la famiglia. Avviene nel matrimonio qualcosa di simile a quello che, abbiamo visto, è avvenuto nei rapporti tra Dio e l’umanità, che la Bibbia descrive infatti con l’immagine di uno sposalizio. All’inizio di tutto, dicevamo, c’è l’amore, non la misericordia; questa interviene soltanto dopo la creazione e la ribellione umana. Così avviene nel matrimonio.

All’inizio non c’è, tra marito e moglie, la misericordia; c’è l’amore e un amore spesso travolgente. Ma poi, dopo anni, o mesi di vita insieme, emergono i limiti reciproci, i problemi, di salute o di finanze, interviene la routine…Quello che può salvare un matrimonio dallo scivolare in una china senza risalita è la misericordia, intesa nel senso biblico che abbiamo visto, e cioè non solo come perdono delle offese, ma anche come compassione e tenerezza. All’eros si aggiunte l’agape, all’amore erotico, l’amore di dedizione e di sofferenza, senza, tuttavia che vada perduto l’eros che dovrebbe perdurare sempre tra gli sposi. Il matrimonio risente oggi della mentalità corrente dell’“usa e getta”. Se un apparecchio o uno strumento subisce qualche danno o una piccola ammaccatura, non si pensa a ripararlo (sono scomparsi ormai quelli che facevano questi mestieri), ma si pensa subito a sostituirlo. Si vuole la cosa nuova di zecca. Applicata al matrimonio, questa mentalità risulta del tutto errata e micidiale. Il matrimonio non è come un vaso di porcellana che si può solo sciupare con il passare del tempo, mai migliorare, e una volta che ha avuto un piccolo screzio, anche se incollato, perde metà del suo pregio. Il matrimonio appartiene all’ambito della vita e ne segue la legge. Come si mantiene e si sviluppa la vita? Forse mantenendola staticamente sotto una campana di vetro, al riparo da urti, cambiamenti e agenti atmosferici? La vita è fatta di continue perdite che l’organismo impara a riparare quotidianamente, di attacchi di agenti e virus di ogni tipo che l’organismo intelligentemente prevede e sconfigge, facendo entrare in azione i propri anticorpi. Almeno finché esso è sano. Il matrimonio dovrebbe essere come il vino che, invecchiando, migliora, non peggiora. Solo la misericordia reciproca è capace di operare questo miracolo. Che cosa suggerire ai coniugi che vorrebbero almeno tentare questa strada? Una cosa semplicissima: riscoprire un’arte dimenticata in cui eccellevano le nostre nonne e mamme: il rammendo! Alla mentalità dell’“usa e getta” bisogna sostituire quella dell’“usa e rammenda”. Non c’è bisogno di spiegare cosa significa rammendare gli strappi nella vita di coppia. San Paolo dava ottimi consigli a questo riguardo: “Non tramonti il sole sopra la vostra ira e non  date occasioni al diavolo”, “sopportatevi a vicenda, perdonandovi se qualcuno abbia di che lamentarsi dell’altro”, “ portate i pesi gli uni degli altri” (cfr. Ef 4, 26-27; Col 3, 13; Gal 6, 2). Non bisogna permettere che il nemico inserisca un cuneo tra sé e l’altro. La cosa importante da capire è che in questo processo di strappi e di ricuciture, di crisi e di superamenti, il matrimonio, non si sciupa, ma cresce, si affina, migliora. Appunto, come la vita. Il segreto è saper ricominciare sempre da capo. Come la vita ricomincia ogni mattina e ad ogni istante. Sapere che nonostante tutto, proprio tutto, è possibile, volendolo insieme tutti e due, ripartire da capo, azzerare il passato, cominciare una storia nuova. Gesù fece il suo primo miracolo, a Cana di Galilea, per salvare la felicità dei due sposi. Cambiò l’acqua in vino, e tutti alla fine si trovarono d’accordo nel dire che il vino servito per ultimo era stato il migliore. Credo che Gesù sia pronto anche oggi, se lo si invita alle proprie nozze, a operare questo miracolo e far sì che il vino ultimo – l’amore e l’unità degli anni della maturità e della vecchiaia – sia migliore di quello della prima ora. Gesú continua a operare il miracolo di Cana attraverso lo Spirito Santo. È lui il vino nuovo che egli offre agli sposi cristiani. L’atto costitutivo del matrimonio è il donarsi reciproco, il fare dono del proprio corpo (cioè, nel linguaggio biblico, di tutta la persona) al coniuge. Ora noi sappiamo che lo Spirito Santo è per sua natura il dono, o meglio il donarsi reciproco del Padre e del Figlio nella Trinità. Egli è il dono fatto persona. Dove arriva lui, rinasce la capacità di farsi dono, rinasce e si rigenera l’amore coniugale. Egli non è presente solo al momento di contrarre le nozze, ma in ogni istante e in ogni gesto di donazione reciproca, compreso il più intimo di essi. Terminiamo recitando la parte finale della preghiera di papa Francesco per il giubileo della misericordia. In essa viene messo in luce proprio quello che ha costituito il tema della nostra catechesi e cioè il rapporto tra lo Spirito Santo e la misericordia:

Manda, Signore, il tuo Spirito e consacraci tutti con la sua unzione perché il Giubileo della Misericordia sia un anno di grazia del Signore e la tua Chiesa, con rinnovato entusiasmo, possa portare ai poveri il lieto messaggio, proclamare ai prigionieri e agli oppressi la libertà e ai ciechi restituire la vista. Lo chiediamo per intercessione di Maria, Madre della Misericordia, a te che vivi e regni con il Padre e lo Spirito Santo per tutti i secoli dei secoli. Amen.

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1 S. Ambrogio, Sullo Spirito Santo, II, 32.

2 S. Basilio, Sullo Spirito Santo, XVI, 38 (PG 32, 136).

3 Lutero, Risoluzioni sulle indulgenze (WA, I, p.563).

4 Guigo II, Meditazione V (SCh 163, pp. 148-150).

5 S. Basilio, Sullo Spirito Santo, XVI, 39 (PG 32, 140)

6 Messale Romano, Martedì dopo la Pentecoste.

7 Cf. Lutero, Sermone di Pentecoste (WA, 12, p. 568 s.).

8 F. Dostoevskij, L’Idiota, parte III, cap.5., Ed. Garzanti Milano 1983, pp. 478-479.

9 Lettera alla nipote Sonja Ivànova, in L’Idiota, ed. cit. p. XII.