martedì 28 agosto 2018

Spiegazione del dipinto del Giudizio Universale di Kiko Arguello

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Premessa generale
La pittura di Kiko Argüello, iniziatore insieme a Carmen Hernandez del Cammino Neocatecumenale, si inserisce nella tradizione dell’iconografia orientale. Si tratta di una tradizione che l’Occidente ha perduto, e che è importante recuperare in questo momento di profonda crisi estetica nell’arte sacra occidentale.
In Oriente l’iconografia non è un elemento accessorio, un ornamento fine a sé stesso, ma è parte integrante e essenziale della liturgia: è un annuncio, l’annuncio di Gesù Cristo. Tutte le grandi chiese orientali sono ricche di icone, e all’inizio di ogni “divina liturgia”, cioè dell’eucarestia, c’è l’incensazione delle icone, le quali sono l’annuncio della realtà del cielo. L’oro che abbonda nelle icone, nello sfondo, nelle decorazioni, nelle immagini, significa l’annuncio di una realtà celeste. Il pittore dunque non può fare quello che vuole, sbizzarrirsi come crede, magari in nome di una presunta autonomia di una verità dell’arte, come affermano alcuni artisti. Ogni tema sacro (p. es. l’annunciazione) per il pittore orientale è caratterizzato da una composizione, da una serie di immagini prestabilita, tradizionale, già fissata in una sorta di canone. Per dipingere egli deve avere in primo luogo un mandato da parte del vescovo. Poi occorre una preparazione spirituale seria: il pittore prega, digiuna, si confessa, si comunica, vive insomma con grande intensità questo periodo. In Oriente ci sono moltissimi santi che hanno dipinto icone. Infine il pittore non dipinge il tema a lui affidato come vuole, ma riceve dalla tradizione iconografica e fa proprii tutta una serie di elementi già fissati, canonici. In cosa consisterà allora la sua arte? Consisterà nella forma che egli dà a quella composizione, p. es. nella scelta e distribuzione dei colori, caldi e freddi, nel disegno dei volti, in tutto quello insomma che egli può mettere di suo all’interno di queste linee tradizionali. Questo punto è essenziale.
Si accennava prima alla crisi molto seria che caratterizza l’Occidente anche per quanto riguarda l’estetica. Questo riguarda sia l’iconografia sia l’architettura sacra. Anche in quest’ultimo campo ognuno tende a fare quello che vuole, senza tenere conto, nella costruzione di una chiesa, di come deve stare la gente in quella chiesa, di che cosa sia una assemblea del popolo di Dio. Kiko Argüello ha dunque sentito la necessità di rifarsi alla tradizione orientale, che è la più antica nell’ambito dell'iconografia. Qui tutta l’arte è al servizio del popolo di Dio, che è il Corpo di Cristo. Questo si vede anche nella prospettiva. In accordo con la prospettiva classica, il punto di convergenza dell’iconografia orientale non è all’interno del quadro, ma in chi sta guardando. Il dipinto converge fuori da sé, annunzia qualcosa a chi lo guarda, lo interroga, lo interpella. C’è una forte valenza kerigmatica, di annuncio. Il dipinto è un annuncio che raggiunge chi lo guarda, che arriva a chi si pone davanti ad esso.
L'arte occidentale, per lo meno già a partire da Giotto, ha conosciuto un progressivo allontanamento dai modelli comuni a quella orientale, una sorta di graduale separazione. Ciò ha tra l’altro portato nel tempo a un cambio di prospettiva, all’introduzione cioè di una prospettiva geometrica e scientifica, che ha il suo punto di convergenza all’interno del quadro. In questo modo chi osserva viene come introdotto all’interno del quadro o dell’affresco, che raffigura quindi un evento passato, concluso, mitico o storico che sia. Si crea una cesura tra la vita di chi guarda e l’immagine rappresentata. C’è insomma un’attitudine che potremmo chiamare quasi archeologica, nel senso che l’immagine viene in certo modo relegata in un passato conchiuso e distinto. Nella tradizione orientale invece il pittore ha un atteggiamento del tutto opposto: attraverso una prospettiva che ha il suo punto di convergenza al di fuori del quadro, l’immagine raggiunge chi guarda, lo interpella, gli fa un annuncio forte, lo raggiunge qui e oggi, parla alla sua vita.
Spiegazione del dipinto.
Veniamo al tema del dipinto. La scelta del tema del Giudizio Universale è molto importante. Siamo infatti sul Monte delle Beatitudini, e in questo monte Gesù Cristo non soltanto ha pronunciato il Sermone della Montagna, ma secondo alcuni esegeti della Sacra Scrittura ha anche fatto l’invio degli apostoli dalla Galilea a tutto il mondo: “Andate dunque e ammaestrate tutte le genti, battezzandole nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Matteo 28, 19-20), cioè fino a quando Cristo ritornerà. Gesù Cristo dunque non soltanto ha inviato gli apostoli da qui ai quattro angoli della terra, ma li riunirà alla fine dei tempi. Noi infatti crediamo che ci sarà un giudizio: questo è un dogma, una verità di fede professata anche nel Credo (Cristo “verrà a giudicare i vivi e i morti, e il Suo regno non avrà fine”). L’invio fatto da Cristo sul Monte delle Beatitudini è dunque molto importante perché già gli apostoli portano agli estremi confini della terra un giudizio. E’ un giudizio nel quale siamo in parte passati anche noi, perché quando a ognuno di noi è arrivato l’annuncio del Vangelo, questa Buona Notizia ha fatto un giudizio sulla nostra vita, ci ha messo nella verità. Questo giudizio è consistito nel manifestare tutto quello che c’era dentro di noi, tutto quello che era riposto e nascosto nelle pieghe più contorte: ipocrisie, inganni, illusioni, tutto è venuto fuori a poco a poco, con un combattimento, ma anche in qualche modo con un giudizio. E il giudizio di Dio su questa vita concreta è stato un giudizio di misericordia.
Per dipingere questo giudizio universale Kiko Argüello ha studiato molte antiche icone orientali con questo tema, per cogliere gli elementi essenziali, le linee compositive fissate nella tradizione. Alla fine la scelta è caduta su un’icona del secolo XVI, esempio tipico della tradizione russa, che presenta il giudizio nell’ultima ora dell’umanità senza lasciare trasparire alcuna inquietudine o timore che possano prevalere le forze del male. Questo dipinto è il frutto di un lavoro incessante di Kiko, assieme a un gruppo di fratelli, durato due settimane, giorno e notte, ed è una sintesi catechetica profondissima, integralmente fondata sulla Sacra Scrittura. Vediamone i singoli elementi.
Le figure sono rigorosamente distribuite in varii ordini, in base alla loro importanza e al loro significato. Elemento centrale della composizione è la mardorla di Dio Padre, verso cui convergono tutti gli altri piani. Lo spazio infatti non è diviso in fasce orizzontali, come normalmente avviene nelle icone, ma in fasce ricurve, che sottolineano la tensione verso Dio. Il Padre è raffigurato come un anziano con la veste candida e candidi capelli, ed è coronato da una doppia aureola blu scuro e verde chiaro (segno dell’inaccessibilità della divinità). Questa a sua volta è circondata da tre cerchi che indicano i varii cieli, al cui interno sono raffigurate, in alcuni medaglioni, le gerarchie celesti. Nel cerchio più esterno, sulla sinistra, c’è una figura umana con un rotolo aperto. Si tratta del profeta Daniele. Il riferimento è al capitolo 7 del libro del profeta Daniele, nel quale il profeta ha la visione di un vegliardo: “la sua veste –dice Daniele- era candida come la neve e i capelli del suo capo erano candidi come la lana” (7, 9); davanti a questa figura “ecco apparire, sulle nubi del cielo, uno simile a un figlio dell’uomo” (7, 13). I Vangeli mostrano come Gesù Cristo applicherà a sé stesso questa figura, per certi aspetti misteriosa, di cui parla il profeta Daniele: Cristo chiamerà sé stesso il “Figlio dell’uomo”, assumendo questa figura e realtà profetica dell’Antico Testamento, e presentandosi al popolo di Israele anche per questo aspetto come Colui che porta a compimento la Legge e i Profeti.
Sopra l’immagine del Padre c’è un’aureola con all’interno un calice a tre piedi, ricolmo di un liquido dal colore rosso sangue. Forse si tratta, nell’icona originale, di un’allusione alla coppa di Salomone, che prefigura la coppa eucaristica, il sangue di Cristo che ha redento il mondo: in questo modo il mistero dell’Incarnazione, dell’amore di Dio per l’uomo, viene a trovarsi al vertice della visione celeste. Questa coppa è però anche il calice della giustizia di Dio. Nel libro del profeta Geremia, profeta che vive in un periodo turbolento e terribile, si parla spesso del calice della giustizia di Dio, della collera di Dio, calice che Dio darà da bere alle nazioni. Di questo calice si parla nel vangelo: “Padre mio, se e’ possibile passi da me questo calice! Pero’ non come voglio, ma come vuoi tu!” (Mt 26,39) Il calice è presente anche architettonicamente nella costruzione di sette metri di altezza che si trova al di fuori della Domus Galilaeae. Il rosso di questo calice domina tutto il dipinto, circondando il Padre, il Figlio, e aprendosi al centro in una sorta di fiume rosso impetuoso, che corre giù sino all’Inferno. La giustizia di Dio infatti arriva dal cielo fino alla terra.
Dio ha creato l’universo e la terra con immenso amore e con grande armonia. C’è un equilibrio sapiente e profondo che abbraccia tutto, a cominciare dai colori (a ogni rosso per esempio corrisponde un tipo di verde complementare), sicché ogni cosa rinvia a un’altra, in una policromia e polifonia meravigliosa: il cielo azzurro, il verde delle fronde degli alberi, le montagne rugose e impervie, tutto canta e proclama la bellezza dell’opera di Dio. Ma questa bellezza è anche segno di un amore immenso di Dio, della sua infinita bontà per l’uomo (universalia in unum convertuntur). Questo amore di Dio per l’uomo si esprime dunque anche in una bellezza armoniosa, ha una profonda valenza estetica, perché Dio, che è Amore, vuole anche dare piacere all’uomo nella natura, nel cibo, nell’unione fisica tra l’uomo e la donna. Ma la libertà, anch’essa dono dell’amore di Dio, consente all’uomo di rinnegare tutto questo, di disprezzarlo e di tentare di sfigurare e distruggere la creazione. Dio però verrà a fare giustizia sulla terra di tutto questo e la Sua giustizia va intesa anche come ricostruzione dell’universo.
Alla destra del Padre abbiamo l’immagine del Paradiso, della Gerusalemme celeste. Le immagini dei santi con le vesti bianche sono sempre presenti nelle icone del Giudizio Universale. Al riguardo ci sono due tradizioni. Il cielo infatti può essere fatto presente sia attraverso il battesimo sia attraverso l’eucarestia. Qui al centro della composizione abbiamo un battistero, a forma di croce, con all’interno disegnati, in forma di grappoli, i frutti del battesimo: il battesimo infatti ci porta nella terra promessa, ci dona la vita eterna, ci rende figli di Dio, innesta in noi la natura divina. In altre icone c'è un'altra rappresentazione: i santi del Paradiso sono disegnati in gruppi, in mezzo a ognuno dei quali c’è la mensa con il pane e il vino. Così abbiamo quattro gruppi, quattro eucarestie celebrate nello stesso tempo (così come fanno le comunità nel Cammino Neocatecumenale, nel solco di una tradizione già presente in icone antichissime).
C’è poi la schiera degli apostoli, che sono stati mandati a portare il giudizio di Dio, giudizio di misericordia, mediante l’annuncio del Vangelo a tutte le genti, e che saranno presenti anche nel giudizio finale. Al di sotto di ciò c’è l’immagine della Nikopeia, la “Tutta Santa”, Maria inizio della Chiesa, che ci ha preceduto nei Cieli e che i Cristiani appunto cantano e pregano come “Regina dei Cieli”. Accanto a essa appaino, quali testimoni, due angeli del Paradiso e quel Buon Ladrone, al quale Cristo, sulla croce, aveva detto: “Oggi sarai con me in Paradiso” (Luca 23, 43). Un altro elemento importante del Paradiso è quello che Israele chiama il seno di Abramo. Questo vale per Israele, ma vale anche per la Chiesa (pensiamo alla parabola del ricco Epulone che vede Lazzaro nel seno di Abramo, in Luca 16, 19-31; o a quando Gesù, in Matteo 8, 11, dice che “molti verranno dall’Oriente e dall’Occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei Cieli”). In questo dipinto il seno di Abramo è presente nei tre patriarchi (Abramo, Isacco e Giacobbe), che sono l’immagine del Paradiso in tutta la tradizione di Israele e della Chiesa. Al di sotto dei Patriarchi c’è l’immagine di alcuni monaci, che sono vicini al Paradiso perché già vivono una vita di rinuncia al mondo. Sono raffigurati con le ali, come angeli, seguendo le indicazioni del loro fondatore (S. Antonio Abate o un altro) e volano verso il Paradiso, quasi tuffandosi in esso. L’ingresso del Paradiso è la Santa Porta, accanto alla quale è posto S. Pietro, munito di chiave, che accoglie un gruppo in processione, nel quale si riconoscono Davide, gli apostoli, S. Paolo e alcuni santi.
Nella parte opposta del dipinto c’è il contrario del Paradiso, la zona del combattimento e della lotta contro Dio. C’è il combattimento nella storia, un combattimento con gli idoli rappresentati nella luna, nel sole e nelle stelle, raffigurati nel rotolo aperto da due angeli. Questo combattimento è cominciato già in seno a Dio, quando alcuni angeli disobbedienti si sono opposti e sono stati cacciati dagli arcangeli. Questi ultimi sono rappresentati in un cerchio verde e blu, mentre respingono con le loro lance gli angeli ribelli nel cerchio nero che contiene gli esseri privi della luce di Dio. Tra il peccato degli angeli e il cielo sta la croce, simbolo della redenzione, che ha interrotto la logica fatale del peccato e ha aperto le porte del Paradiso. In questo combattimento viene dunque annunciato Gesù Cristo, Colui che dominerà il mondo, e il cui regno non avrà fine. Egli poggia con i piedi su una tavola quadrata: anticamente infatti si pensava che la terra avesse una forma quadrata, sicché questa immagine indica la signoria di Cristo sulla storia e sulla terra.
Al fianco di Cristo tre angeli portano in mano i segni della Passione: il calice, le spine e i chiodi. Accanto alle tre croci, ci sono la spugna e la lancia. Sotto c’è poi un’immagine assai incisiva e moderna della resurrezione dei morti. S. Paolo, nella Prima Lettera ai Corinzi (15, 52), afferma che “suonerà la tromba e i morti risusciteranno incorruttibili e noi saremo trasformati”. Così qui al suono delle trombe del giudizio i morti avvolti in bende bianche stanno risorgendo: le tombe infatti si apriranno e anche il mare restituirà tutti gli annegati.
A questo giudizio finale saranno convocate tutte le nazioni della terra, come già profetizzato nell’Antico Testamento. Abbiamo quindi Mosè, con le tavole della Legge, che sta indicando il Messia ai popoli. I primi a passare nel giudizio saranno gli Ebrei, che portano nel loro capo il tallit e sulla fronte l'astuccio con lo shemà, poi i musulmani, indicati con il turbante nel capo, e quindi via via tutti gli altri.
Scendiamo così all’ultima parte del dipinto, in basso, dove è rappresentato l’Inferno: giacché se esiste il Paradiso, esiste anche l’Inferno. C’è un demonio alato orrendo, tutto nero, che tiene sulle ginocchia il figlio della perdizione, Giuda Iscariota (secondo quanto dice tutta la Chiesa orientale). I quadrati accanto a lui indicano in forma simbolica e astratta le pene per i sette peccati capitali. In altri dipinti raffiguranti il Giudizio Universale viene indicata una pena eterna specifica e terribile per ogni peccato: p. es. i lussuriosi, che in tutta la loro vita hanno cercato il piacere del corpo, sono immersi in un paiolo di pece bollente, mentre l’avaro è attaccato a un macigno.
Nella parte centrale del dipinto domina il Cristo Pantokrator. Accanto a lui ci sono i due testimoni di Cristo presenti in tutte le icone orientali: la Madonna, in piedi, che è stata testimone di Cristo in quanto lo ha tenuto nel suo seno, e S. Giovanni Battista, che lo ha annunciato e ne è stato il precursore. Ma ci sono anche altri due personaggi che, consapevoli di essere all’origine dell’ingresso del peccato nella storia, stanno intercedendo per le anime in questo giudizio: si tratta di Adamo e di Eva. Quest’ultima, che ha toccato il frutto dell’albero della vita, non ha più le mani. Sotto di loro ci sono tutti gli elementi del giudizio. L’anima, in primo luogo. Due angeli srotolano tutti i fatti della sua vita, tutto il bene e tutto il male che essa ha compiuto: ogni fatto sarà portato al cospetto di Dio. Il giudizio di ciascuna vita sarà sul Vangelo, qui posto al di sopra dell’arca dell’alleanza, di fronte ai segni della Passione. In questo giudizio ci sarà un combattimento forte tra il nostro angelo custode e il demonio. Sia Israele sia l’Oriente danno molta importanza all’angelo custode, che invece la nostra cultura occidentale, vittima di una mentalità empirica e razionalistica, ha accantonato con sufficienza. Ma la Chiesa crede fermamente nell’esistenza degli angeli custodi così come degli arcangeli, e dedica a loro due feste importanti. La festa degli angeli custodi e quella degli arcangeli non sono infatti invenzioni ad libitum, ma segno concreto di ciò in cui la Chiesa crede. Lex orandi, lex credendi: tutto ciò che la Chiesa crede, la Chiesa anche lo prega. Dice un teologo orientale che l’angelo custode vuole un bene immenso all’anima, che è come un compagno, ha una connaturalità con lei, la difende, le parla senza stancarsi. Anche alla fine dei giorni della nostra vita l’angelo custode ci difenderà, si batterà con noi e per noi. In questo dipinto c’è una bilancia: il demonio vuole fare pendere la bilancia dalla sua parte per portare l'anima all'inferno, mentre l'angelo custode con un tridente caccia il demonio e difende l'anima.
Altri elementi vanno considerati. Una grande mano fa presente la destra potente di Dio, cantata nel cantico di Mosè e in ogni notte di Pasqua. E’ il braccio potente di Dio che farà giustizia, e che qui ha in mano gli innocenti, raffigurati come dei bambini. Dio infatti si metterà sempre dalla parte degli innocenti, degli ultimi, di quelli che non si possono difendere, farà loro giustizia. Gli ultimi sono i beati del Sermone della Montagna, che è la proclamazione della verità, come ognuno è chiamato a vedere nella propria vita. Questa giustizia che Dio renderà loro indica il profondo senso escatologico che anima la Chiesa. La mano di Dio sostiene in questo dipinto gli indifesi, i bambini vittime degli aborti, quanti hanno pagato le conseguenze dei mali della storia, p. es. nei campi di concentramento. Sopra si vede anche un’ampolla, che raccoglie tutte le lacrime degli uomini. Isaia dice: “Eliminerà la morte per sempre, il Signore asciugherà le lacrime su ogni volto” (Is. 25, 8).
C’è infine una figura che è forse la più interessante di tutta l’opera, una figura che è come una chiave per entrare in questo dipinto. Si tratta di un uomo legato a una colonna: figura presente in moltissime icone e affreschi orientali, e che può rappresentare la chiave dell’atteggiamento umano di fronte alla Verità. Esso personifica il tipo medio, limitato, predominante nell’umanità, al quale sono ugualmente estranei la profondità celeste e l’abisso satanico. Il critico orientale Trubeckoj ha scritto pagine importanti su questo personaggio legato a una colonna nella parte bassa della composizione, al confine tra Paradiso e Inferno. E’ un uomo tiepido, mediocre, legato al lavoro, alla famiglia, ai suoi piccoli problemi, pensando che in ciò si esaurisca la vita, che questa sia la verità. E’ una persona che si è adattata al proprio posticino, che ha ridotto la sua esistenza a un tentativo di fuga dalla sofferenza, che cerca di avere tutto assicurato, di non complicarsi la vita. A quest’uomo di Dio e della Madonna non importa né punto né poco: la verità per lui è ciò che egli può toccare, possedere, ciò a cui si è vincolato. Al di fuori di questo orizzonte limitato non esiste altro, né quest’uomo pensa che dovrà morire e lasciare tutto ciò a cui si sta aggrappando. Ma la profonda catechesi di questo dipinto proclama e confessa che la Verità non è questa colonna a cui la figura è legata, bensì tutta la composizione nel suo insieme. La Verità è che la vita è un combattimento nel cuore della storia tra due realtà contrapposte: il Paradiso e l’Inferno, la Vita e la Morte. Questa è la Verità: che Morte e Vita si sono affrontate in un prodigioso duello, e il Signore della vita, che era morto, è ora risorto (Sequenza di Pasqua). La Chiesa ci ricorda che nessuno ha alcunché assicurato, per quante buone opere egli creda di aver compiuto fin qui. Le nostre piccole sicurezze, la colonna alla quale eravamo o siamo incatenati (i soldi, gli affetti, il lavoro, la casa, ecc.) non sono affatto sicure, garantite, e i fatti della nostra vita si stanno incaricando di mostrarcelo concretamente. La Chiesa quindi ci invita mistagogicamente a metterci in cammino verso la Porta del Paradiso, perché è al Cielo che siamo chiamati. Questo dipinto è dunque una apocalisse, una rivelazione del senso profondo della storia di ogni uomo, anzi dell’umanità tutta intera, del mondo tutto. Per questo in un medaglione presso i piedi del Cristo sono raffigurate anche quattro bestie, le bestie di cui parlano il libro del profeta Daniele e quello dell’Apocalisse, le bestie che si affacciano nella storia e la dominano per un certo periodo. Sono gli imperi che si succedono, secondo una concezione della storia universale sia biblica sia greco-romana: impero assiro, impero babilonese, impero persiano, impero macedone, impero romano ecc. Ognuno di questi imperi che di volta in volta hanno dominato il mondo, sono arrivati a pensare di essere gli unici, di avere il controllo totale della storia, di dominare il mondo per sempre. Ma tutti gli imperi, anche quelli dei nostri giorni, sono immancabilmente destinati a declinare e cadere, per sottomettersi finalmente a Cristo, unico Signore della storia.