venerdì 29 marzo 2019

SERVITEUR D'ESPERANCE!

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«Anche tra i musulmani c'è grande attesa per la visita del Papa. Spero che la sua presenza sia una spinta per il cammino di questa piccola comunità cristiana». Così il vescovo di Rabat, Cristóbal López Romero, alla vigilia dell'arrivo in Marocco di papa Francesco, 34 anni dopo san Giovanni Paolo II, in questa intervista alla Nuova BQ

di Silvia Scaranari
المملكة المغربية‎, al-Mamlaka al-Maghribiyya cioè il Regno del Maghreb, dell’Occidente, oggi Marocco, ospiterà  Papa Francesco il 30 e 31 marzo.
Il Marocco ha circa il 99% degli abitanti musulmani ma anticamente aveva visto il fiorire di una significativa presenza cristiana. L’evangelizzazione dell’area è attestata dal II secolo probabilmente grazie a missionari provenienti dalla Penisola iberica. Il cristianesimo conquistò alcuni berberi ma soprattutto le popolazioni romane tanto che nel 298 è testimoniato il martirio del centurione Marcello. Dopo l’Editto di Costantino del 313, che liberalizzava la professione di fede cristiana, vennero istituite nella zona molte diocesi che rimasero sia durante il dominio dei Vandali, che lo invasero nel 429 provenienti dalla vicina Spagna, sia dopo la riconquista ad opera del generale bizantino Belisario nel 533.
Il comandante arabo ‘Uqba ben Nāfi’ arrivò quasi allo stretto di Gibilterra nel 683, e vi portò l’islam. Dal VII secolo in poi rimasero piccole comunità cristiane insieme a qualche gruppo ebraico. Nel 1219 San Francesco inviò in Marocco alcuni suoi frati perché convertissero le popolazioni locali e nel 1225 il Papa istituì la Diocesi del Marocco ma i successi furono scarsi e molti subirono il martirio. Alla fine del XIX sec. il territorio divenne protettorato di Francia, Spagna e Germania. Il cristianesimo tornò ad essere presente ma legato sostanzialmente agli Europei.

Tornato alla piena indipendenza dopo la II guerra mondiale, oggi è una monarchia costituzionale. Il re Hassan II emanò la prima Costituzione nel 1962. Gli ultimi aggiornamenti sono stati attuati nel 2011 dal figlio, Mohammed VI, che si presenta come un sovrano aperto alle riforme e alle innovazioni moderate, anche in campo religioso.
Lo Stato marocchino garantisce un’ampia libertà di culto ma la Costituzione definisce che “l’Islam è la religione di Stato” (art. 1) e vieta a partiti politici o movimenti di svolgere attività o proporre emendamenti che siano contrari ai precetti della sharī‘a. E’ illegale “scuotere la fede” di un musulmano, cioè cercare di convertirlo, e anche la distribuzione di materiale religioso è controllata. In alcuni casi sono state accusate di velato proselitismo le forme caritative della Chiesa cattolica (asili, orfanotrofi, mense del povero, ricoveri), e per simile reato la pena può variare da sei mesi a tre anni di reclusione (art. 220 Codice penale) oltre al pagamento di una multa in denaro.
E’ lecito convertirsi al cristianesimo in modo autonomo ma le reazioni di disappunto e di ostracismo sociale sono di solito appoggiate e incoraggiate dalle autorità.
Il sovrano, in qualità di “comandante dei fedeli”, presiede il Consiglio superiore degli Ulema che ha il compito di controllare che i verdetti religiosi (fatawa) siano in accordo con i precetti dell’islam. Tuttavia Mohammed VI è oggi anche  «il garante del libero esercizio delle religioni» e quindi della pluralità religiosa nel suo Paese. Un dato positivo, non sempre presente in tanti altri Paesi islamici, è l’abolizione della pena di morte per l’apostata dall’islam e l’introduzione del reato di “offesa a Dio” che si estende a chiunque rechi danno alla sensibilità religiosa altrui.
Questo non significa che il Marocco sia privo di discriminazioni o talora vere persecuzioni nei confronti dei cristiani che, specie se convertiti dall’islam, devono subire diversi divieti. Nel 2017 si è costituita la Coalizione Nazionale dei Cristiani Marocchini che ha presentato al Consiglio Nazionale per i Diritti umani diverse richieste fra cui poter partecipare alle funzioni religiose nelle chiese (è vietato ospitare neo convertiti in luoghi chiusi), poter essere seppelliti nei cimiteri cristiani, e poter decidere liberamente se far frequentare ai propri figli le lezioni di islam nelle scuole. Tuttavia, nel complesso, rispetto a molti altri Stati arabi si respira un clima di tolleranza, come ha evidenziato la Sala Stampa Vaticana che, annunciando il viaggio pontificio, ha messo in evidenza le posizioni di apertura al dialogo del sovrano.
L’invito al Santo Padre infatti è stato rivolto dallo stesso sovrano Mohammed VI, oltre che dai vescovi locali.
È importante sottolineare che quanto avverrà in Marocco sarà un esempio per ampia parte del mondo islamico. La monarchia rivendica, come anche il re di Giordania, la discendenza diretta dal Profeta e questo la investe di una autorevolezza che nessun altro politico possiede. Se i diversi sultani, emiri, presidenti della repubblica sono spesso messi in discussione da movimenti più o meno radicali che non ne riconoscono la legittimità di potere, nessuno avanza simili accuse a Mohammed VI. Il suo agire, le sue riforme, le sue proposte sono oggetto di attento studio da parte di tutto il mondo sunnita.
Questo non vuol dire che tutti lo apprezzino ma certamente il suo regno può essere un punto di riferimento per molti. Il riconoscimento dei cristiani come soggetti giuridici in Marocco e la piena equiparazione ai cittadini musulmani sarebbe un passo molto significativo anche per tutto il resto del mondo islamico.
Sulla visita del Papa abbiamo intervistato il vescovo di Rabat, il salesiano mons. Cristóbal López Romero che oggi ha la cura di una comunità molto “universale”, come lui stesso afferma, in quanto proveniente da diversi Paesi sub sahariani.
Eccellenza, Papa Francesco verrà in Marocco a 34 anni dalla visita di san Giovanni Paolo II. Come è attesa questa visita?
Attendiamo la visita del Papa con grande gioia e soddisfazione. È un onore per noi che venga a visitarci e siamo sicuri che la sua visita sarà un bene sia per il paese, sia per la comunità cattolica. Allo stesso tempo siamo un po’ in ansia perché vorremmo essere all’altezza  ma la nostra chiesa possiede risorse umane e materiali molto limitate...però daremo il meglio di noi stessi.
Cosa è cambiato dalla storica visita di san Giovanni Paolo II?
Il popolo marocchino ha ottenuto notevoli migliorie sia nel campo economico che politico e sociale; abbiamo una nuova Costituzione e diverse leggi importanti che hanno significato un cambiamento notevole. La Chiesa si è trasformata sensibilmente, grazie a molti giovani dell’Africa subsahariana e quindi oggi è una comunità multi-etnica, veramente cattolica, “universale”.
34 anni fa i cristiani erano ancora per la maggioranza francesi o spagnoli. Oggi siamo un territorio di passaggio per migliaia di persone che arrivano in Marocco ma hanno come meta i Paesi dell’Europa.  Molti sono cristiani e noi dobbiamo accogliere, ascoltare, accompagnare questi fratelli nella fede. In conclusione, siamo sempre la stessa Chiesa di 34 anni fa ma allo stesso tempo siamo molto cambiati.
Come si stanno preparando i fedeli?
Con grande entusiasmo. La corale che animerà l’Assemblea sta provando da più di un mese. È composta da più di 500 ragazzi di 18 città differenti!
I gruppi, le famiglie e i movimenti stanno riflettendo su vari temi: la Chiesa e il Papa, come essere strumento della speranza, il dialogo interreligioso a partire dell’incontro di san Francesco di Assisi con il Sultano, la dottrina sociale della Chiesa, etc. Sono stati preparati dei punti da condividere anche a distanza in modo da facilitare a tutti la partecipazione alla riflessione a all’approfondimento.
Anche gli aspetti logistici sono tanti. Abbiamo preparato dei biglietti di accesso in modo da permettere a tutti di prendere parte ai momenti comuni. Inoltre si sono stampate molte magliette, cappellini, e altri oggetti che creano l’atmosfera di attesa. Si stanno preparando anche occasioni di accoglienza e di condivisione con centinaia di giovani universitari provenienti da tutto il Paese.
Cosa si aspettano i fedeli? E Lei cosa spera da questo viaggio papale?
Spero e desidero che la sua presenza sia una spinta per il cammino che questa piccola comunità cristiana sta compiendo da tempo, e che ci spinga a vivere la nostra vita cristiana con maggiore autenticità ed entusiasmo. Spero che il Papa, secondo quanto gli compete, ci confermi nella fede, alimenti la nostra speranza e ravvivi in noi il fuoco dell’amore al Signore Gesù.
Il Papa è atteso dalla gente comune oppure c'è del malumore ? Le autorità saranno certamente onorate ma il popolo?
Non ho incontrato nessuno che abbia un’opinione negativa su questa visita del Santo Padre. Al contrario, ho visto in molti entusiasmo, in altri curiosità, in tutti un atteggiamento positivo. Nessun malumore. Sia il popolo che le autorità percepiscono questa visita pontifica come un grande onore verso il nostro Paese.
Come si prepara la comunità islamica?
Il 5 marzo ho tenuto una conferenza stampa. I mezzi di comunicazione di ogni tipo e orientamento si sono impegnati per dare eco alla notizia, spiegare cosa rappresenta questo incontro con il Papa, quale sarà il programma e cosa ci si aspetta, etc. Le autorità stanno ponendo molta attenzione e cura nel provvedere ai preparativi materiali: aspetti logistici e organizzativi. Ognuno sta facendo del suo meglio con grande dedizione ed entusiasmo

LA IDOLATRIA, ANTITESI DEL DIO VIVENTE - TERZA PREDICA DI QUARESIMA 2019

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di padre Raniero Cantalamessa ofmcapp.


Ogni mattina, al risveglio, noi facciamo un’esperienza singolare, alla quale non facciamo quasi mai caso. Durante la notte, le cose intorno a noi esistevano, erano come le avevamo lasciate la sera prima: il letto, la finestra, la stanza. Forse fuori già splende il sole, ma non lo vediamo perché abbiamo gli occhi chiusi e le tendine abbassate. Solo adesso, al risveglio, le cose cominciano o tornano ad esistere per me, perché ne prendo coscienza, mi accorgo di esse. Prima era come se esse non esistessero, come se io stesso non esistessi.
Avviene la stessa cosa con Dio. Lui c’è sempre; “in lui ci muoviamo, respiriamo e siamo”, diceva Paolo agli ateniesi (Atti 17, 28); ma di solito ciò avviene come nel sonno, senza che ce ne rendiamo conto. Occorre anche per lo spirito un risveglio, un soprassalto di coscienza. Ecco perché la Scrittura ci esorta così spesso a svegliarci dal sonno: “Svegliati tu che dormi, destati dai morti e Cristo ti illuminerà” (Ef 5, 14), “E’ ormai tempo di svegliarvi dal sonno!” (Rom 13, 11).
L’idolatria antica e nuova
Il Dio “vivente” della Bibbia è così definito per distinguerlo dagli idoli che sono cose morte. È la battaglia che accomuna tutti i libri dell’Antico e del Nuovo Testamento. Basta aprire quasi a caso una pagina dei profeti o dei salmi per trovarvi i segni di questa epica lotta in difesa del Dio unico d’Israele. L’idolatria è l’esatta antitesi del Dio vivente. Degli idoli, un salmo dice:
Gli idoli delle genti sono argento e oro,
opera delle mani dell’uomo.
Hanno bocca e non parlano,
hanno occhi e non vedono,
hanno orecchi e non odono,
hanno narici e non odorano.
Hanno mani e non palpano,
hanno piedi e non camminano;
dalla gola non emettono suoni. (Sal 114, 3-7).
Dal contrasto con gli idoli, il Dio vivente appare come un Dio che “opera ciò che vuole”, che parla, che vede, che ode, un Dio “che respira”! Il respiro di Dio ha anche un nome nella Scrittura: si chiama la Ruah Jahwe, lo Spirito di Dio.
La battaglia contro l’idolatria non è purtroppo terminata con la fine del paganesimo storico; è sempre in atto. Gli idoli hanno cambiato nome, ma sono più che mai presenti. Anche dentro ognuno di noi, vedremo, ne esiste uno che è il più temibile di tutti. Vale la pena perciò soffermarci per una volta su questo problema, come problema attuale, e non solo del passato.
Chi ha fatto dell’idolatria l’analisi più lucida e più profonda è l’apostolo Paolo. Da lui ci lasciamo guidare alla scoperta del “vitello d’oro” che si annida dentro ognuno di noi. All’inizio della lettera ai Romani leggiamo queste parole:
“In realtà l’ira di Dio si rivela dal cielo contro ogni empietà e ogni ingiustizia di uomini che soffocano la verità nell’ingiustizia, poiché ciò che di Dio si può conoscere è loro manifesto; Dio stesso lo ha loro manifestato. Infatti, dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l’intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità; essi sono dunque inescusabili, perché, pur conoscendo Dio, non gli hanno dato gloria né gli hanno reso grazie come a Dio, ma hanno vaneggiato nei loro ragionamenti e si è ottenebrata la loro mente ottusa” (Rm 1,18-21).
Nella mente di quelli che hanno studiato teologia, queste parole sono legate quasi esclusivamente alla tesi della conoscibilità naturale dell’esistenza di Dio a partire dalle creature. Perciò, una volta risolto questo problema, o dopo che esso ha cessato di essere attuale come in passato, avviene che molto raramente queste parole vengano ricordate e valorizzate. Ma quello della conoscibilità naturale di Dio è, nel contesto, un problema del tutto marginale. Le parole dell’Apostolo hanno ben altro da dirci; esse contengono uno di quei “tuoni di Dio” capaci di schiantare anche i cedri del Libano.
L’Apostolo è intento a dimostrare qual è la situazione dell’umanità prima di Cristo e fuori di lui; in altre parole, da dove parte il processo della redenzione. Esso non parte da zero, dalla natura, ma da sottozero, dal peccato. Tutti hanno peccato, nessuno escluso. L’Apostolo divide il mondo in due categorie: Greci e Giudei, cioè pagani e credenti, e comincia la sua requisitoria proprio dal peccato dei pagani. Individua il peccato fondamentale del mondo pagano nell’empietà e nella ingiustizia. Dice che esso è un attentato alla verità; non a questa o quella verità, ma alla verità originaria di tutte le cose.
Il peccato fondamentale, l’oggetto primario dell’ira divina, è individuato nell’asebeia, cioè nell’empietà. In che consiste, esattamente, tale empietà, l’Apostolo lo spiega subito, dicendo che essa consiste nel rifiuto di “glorificare” e di “ringraziare” Dio. In altre parole, nel rifiuto di riconoscere Dio come Dio, nel non tributare a lui la considerazione che gli è dovuta. Consiste, potremmo dire, nell’“ignorare” Dio, dove, però, ignorare non significa tanto “non sapere che esiste”, quanto “fare come se non esistesse”.
Nell’Antico Testamento sentiamo Mosè che grida al popolo: “Riconoscete che Dio è Dio!” (cf Dt 7, 9) e un salmista riprende tale grido, dicendo: “Riconoscete che il Signore è Dio: egli ci ha fatti e noi siamo suoi!” (Sal 100, 3). Ridotto al suo nucleo germinativo, il peccato è negare questo “riconoscimento”; è il tentativo, da parte della creatura, di annullare l’infinita differenza qualitativa che c’è tra la creatura e il Creatore, rifiutando di dipendere da lui. Tale rifiuto ha preso corpo, concretamente, nell’idolatria, per la quale si adora la creatura al posto del Creatore (cf Rm 1, 25). I pagani, prosegue l’Apostolo,
“hanno vaneggiato nei loro ragionamenti e si è ottenebrata la loro mente ottusa. Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti e hanno cambiato la gloria dell’incorruttibile Dio con l’immagine e la figura dell’uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e di rettili” (Rm 1,22-23).
L’Apostolo non vuole dire che tutti i pagani, indistintamente, siano vissuti soggettivamente in questo tipo di peccato (più avanti parlerà di pagani che si rendono accetti a Dio seguendo la legge di Dio scritta nei loro cuori, cf Rm 2,14 s); vuole solo dire qual è la situazione oggettiva dell’uomo davanti a Dio dopo il peccato. L’uomo, creato “retto” (nel senso fisico di eretto e in quello morale di giusto), con il peccato è diventato “curvo”, cioè ripiegato su se stesso, e “perverso”, cioè orientato verso se stesso, anziché verso Dio.
Nell’idolatria, l’uomo non “accetta” Dio, ma si fa un dio. Le parti vengono invertite: l’uomo diventa il vasaio e Dio il vaso che egli modella a suo piacimento (cf Rm 9, 20 ss). C’è in tutto ciò un rimando, almeno implicito, al racconto della creazione (cf. Gen 1,26-27). Lì si dice che Dio creò l’uomo a sua immagine e somiglianza; qui si dice che l’uomo ha scambiato per Dio l’immagine e la figura dell’uomo corruttibile. In altre parole, Dio fece l’uomo a sua immagine, ora l’uomo fa Dio a sua immagine. Poiché l’uomo è violento, ecco che farà della violenza un dio, Marte; poiché è lussurioso, farà della lussuria una dea, Venere, e così via. Fa di Dio la proiezione di se stesso.
“Tu sei quell’uomo!”
Sarebbe facile dimostrare che questa è anche la situazione in cui, per certi versi, ci siamo venuti a trovare, in occidente, dal punto di vista religioso e da cui ha preso avvio l’ateismo moderno con la celebre massima di Feuerbach: “Non è Dio che ha creato l’uomo a sua immagine, ma è l’uomo che crea Dio a sua immagine”. In un certo senso bisogna ammettere che questa affermazione è vera! Sì, dio è davvero un prodotto della mente umana. Il problema però è sapere di quale dio si tratta. Non certo del Dio vivente della Bibbia, ma solo di un suo surrogato.
Immaginiamo che oggi uno squilibrato prenda a martellate la statua del David di Michelangelo che si trova all’aperto, davanti al Palazzo della Signoria a Firenze, e poi si metta a gridare con aria di trionfo: “Ho distrutto il David di Michelangelo! Il David non c’è più! Il David non c’è più!”. Non sa, povero illuso, che quello era soltanto un calco, una copia per turisti frettolosi, perché il vero David di Michelangelo, in seguito a un attentato del genere avvenuto in passato, era stato ritirato dalla circolazione e messo al sicuro nella Galleria dell’Accademia. È quello che è successo a Nietzsche quando, per bocca di un suo personaggio, ha proclamato: “Abbiamo ucciso Dio!” . Non si rendeva conto che non aveva ucciso il vero Dio, ma una copia “in gesso” di lui.
Basta una semplice osservazione per convincersi che l’ateismo moderno non ha avuto a che fare con il Dio della fede cristiana, ma con una idea deformata di esso. Se si fosse tenuto viva in teologia l’idea del Dio Uno e Trino (anziché parlare di un vago “Essere supremo”) non sarebbe stato tanto facile per Feuerbach far trionfare la sua tesi che Dio è una proiezione che l’uomo fa di se stesso e della propria essenza. Che bisogno avrebbe l’uomo di scindersi in tre: in Padre, Figlio e Spirito Santo? È il vago deismo che è demolito dall’ateismo moderno, non la fede in Dio uno e trino.
Ma passiamo ad altro. Noi non siamo qui per confutare l’ateismo moderno o per un corso di teologia pastorale; siamo qui per fare un cammino di conversione personale. Che parte abbiamo noi – intendo adesso “noi” nel senso di noi che siamo qui, di noi credenti -, nella tremenda requisitoria della Bibbia contro l’idolatria? Stando a quanto detto fin qui, sembrerebbe, infatti, che noi abbiamo, più che altro, un ruolo di accusatori. Ma ascoltiamo bene ciò che segue nella Lettera di Paolo ai Romani. Dopo aver strappato la maschera dal volto del mondo, in essa l’Apostolo strappa la maschera anche dal nostro volto e vediamo come.
“Sei dunque inescusabile chiunque tu sia, o uomo che giudichi, perché mentre giudichi gli altri condanni te stesso; infatti tu che giudichi fai le medesime cose. Eppure noi sappiamo che il giudizio di Dio è secondo verità contro quelli che commettono tali cose. Pensi, forse, o uomo che giudichi quelli che commettono tali azioni e intanto le fai tu stesso, di sfuggire al giudizio di Dio?” (Rm 2,1-3).
La Bibbia narra questa storia. Il re David aveva commesso un adulterio; per coprirlo aveva fatto morire in guerra il marito della donna, sicché, a quel punto, il prendersela per moglie poteva apparire addirittura un atto di generosità, da parte del re, nei confronti del soldato morto combattendo per lui. Una vera catena di peccati. Venne allora da lui il profeta Natan, mandato da Dio, e gli narrò una parabola (ma il re non sapeva che era una parabola). C’era – disse –, in città, un uomo ricchissimo che aveva greggi di pecore e c’era anche un poveretto che aveva una sola pecorella a lui molto cara, dalla quale traeva il suo sostentamento e che dormiva con lui. Arrivò al ricco un ospite ed egli, risparmiando le sue pecore, prese per sé la pecorella del povero e la fece uccidere per imbandire la mensa all’ospite. All’udire questa storia, l’ira di David si scatenò contro quell’uomo e disse: “Chi ha fatto questo merita la morte!”. Allora Natan, abbandonando di colpo la parabola e puntando il dito contro di lui, disse a David: “Tu sei quell’uomo!” (cf 2 Sam 12, 1 ss).
È ciò che fa con noi l’apostolo Paolo. Dopo averci trascinato dietro di sé in un giusto sdegno e orrore per l’empietà del mondo, passando dal capitolo primo al capitolo secondo della sua Lettera, come se si volgesse di colpo verso di noi, egli ci ripete: “Tu sei quell’uomo!”. La ricomparsa, a questo punto, del termine “inescusabile” (anapologetos), usato sopra per i pagani, non lascia dubbi sulle intenzioni di Paolo. Mentre giudicavi gli altri – egli viene a dire –, tu condannavi te stesso. L’orrore che hai concepito per l’idolatria è ora di rivolgerlo contro di te.
Il “giudicante”, nel corso del capitolo secondo, si rivela essere il giudeo che qui, però, è preso, più che altro, come tipo. “Giudeo” è il non-greco, il non-pagano (cf Rm 2, 9-10); è l’uomo pio e credente che, forte dei suoi principi e in possesso di una morale rivelata, giudica il resto del mondo e, giudicando, si sente al sicuro. “Giudeo” è, in questo senso, ognuno di noi. Origene diceva addirittura che, nella Chiesa, a essere presi di mira da queste parole dell’Apostolo sono i vescovi, i presbiteri e i diaconi, cioè le guide, i maestri .
Paolo ha sperimentato egli stesso questo shock, quando, da fariseo, divenne cristiano, e perciò può ora parlare con tanta sicurezza e additare ai credenti la strada per uscire dal fariseismo. Egli smaschera la strana e frequente illusione delle persone pie e religiose di ritenersi al riparo dalla collera di Dio, solo perché hanno una chiara idea del bene e del male, conoscono la legge e, all’occasione, la sanno applicare agli altri, mentre, quanto a se stessi, essi pensano che il privilegio di stare dalla parte di Dio o, comunque, la “bontà” e la “pazienza” di Dio, che conoscono bene, faranno un’eccezione per loro.
Immaginiamo questa scena. Un padre sta rimproverando uno dei suoi figli per qualche trasgressione; un altro figlio, che ha commesso la stessa colpa, credendo di accattivarsi la simpatia del padre e sfuggire al rimprovero, si mette a sgridare anche lui, ad alta voce, il fratello, mentre il padre si aspettava tutt’altra cosa e cioè che, sentendolo rimproverare il fratello e vedendo la sua bontà e pazienza verso di lui, egli corresse a gettarglisi ai piedi, confessando di essere reo anche lui della stessa colpa e promettendogli di emendarsi.
“O ti prendi gioco della ricchezza della sua bontà, della sua tolleranza e della sua pazienza, senza riconoscere che la bontà di Dio ti spinge alla conversione? Tu, però, con la tua durezza e il tuo cuore impenitente, accumuli collera su di te per il giorno dell’ira e della rivelazione del giusto giudizio di Dio” (Rm 2, 4-5).
Che terremoto il giorno che ti accorgi che la parola di Dio sta parlando in questo modo proprio a te e che quel “tu” sei proprio tu! Avviene come quando un giurista è tutto intento ad analizzare una famosa sentenza di condanna emessa in passato e che fa testo, quando, improvvisamente, osservando meglio, si accorge che quella sentenza si applica anche a lui ed è tuttora in pieno vigore: cambia di colpo lo stato d’animo e il cuore cessa di essere sicuro di sé. Qui la parola di Dio è impegnata in un vero e proprio tour de force; essa deve capovolgere la situazione di colui che la sta trattando. Qui non c’è scampo: bisogna “crollare” e dire come David: “Ho peccato!” (2 Sam 12, 13), oppure avviene un ulteriore indurimento del cuore e si rafforza la impenitenza. Dall’ascolto di questa parola di Paolo si esce o convertiti o induriti.
Ma qual è l’accusa specifica che l’Apostolo muove contro i “pii”? Quella – dice – di fare “le medesime cose” che giudicano negli altri. In che senso “le medesime cose”? Nel senso di materialmente le stesse? Anche questo (cf Rm 2, 21-24); ma soprattutto le medesime cose, quanto alla sostanza, che è l’empietà e l’idolatria. L’Apostolo lo mette meglio in luce nel corso del resto della sua Lettera, quando denuncia la pretesa di salvarsi con le proprie opere e così fare di se stessi i creditori e di Dio il debitore. Se tu, viene a dire, osservi la legge e fai ogni sorta di opere buone, ma per affermare la tua giustizia, tu metti te stesso al posto di Dio. Paolo non fa che ripetere con altre parole quello che Gesú, nel Vangelo, aveva cercato di dire con la parabola del fariseo e del pubblicano al tempio e in infiniti altri modi.
Applichiamo il tutto a noi cristiani, visto che, come dicevamo, il bersaglio di Paolo non sono tanto gli ebrei come popolo, quanto l’uomo religioso in genere e nel caso specifico i cosiddetti “giudeo-cristiani”. C’è un’idolatria nascosta che insidia l’uomo religioso. Se idolatria è “adorare l’opera delle proprie mani” (cf Is 2, 8; Os 14, 4), se idolatria è “mettere la creatura al posto del Creatore”, io sono idolatra quando metto la creatura – la mia creatura, l’opera delle mie mani – al posto del Creatore. La mia creatura può essere la casa o la chiesa che costruisco, la famiglia che creo, il figlio che ho messo al mondo (quante mamme, anche cristiane, senza rendersene conto, fanno del loro figlio, specie se unico, il loro dio!); può essere l’istituto religioso che ho fondato, l’ufficio che ricopro, il lavoro che compio, la scuola che dirigo. Per me che vi parlo, questa stessa predica che sto facendo a voi!
Al fondo di ogni idolatria c’è l’autolatria, il culto di sé, l’amor proprio, il mettere se stesso al centro e al primo posto nell’universo, sacrificando a esso tutto il resto. Basta che impariamo ad ascoltarci mentre parliamo per scoprire come si chiama il nostro idolo, poiché, come dice Gesú, “la bocca parla di ciò che abbonda nel cuore” (Mt 12, 34). Ci accorgeremmo di quante nostre frasi cominciano con la parola “io”.
Il risultato è sempre l’empietà, il non glorificare Dio, ma sempre e solo se stessi, il far servire anche il bene, anche il servizio che prestiamo a Dio – anche Dio! –, alla propria riuscita e alla propria affermazione personale. Molti alberi di alto fusto hanno il fittone, una radice madre che scende a perpendicolo sotto il fusto e rende la pianta salda e irremovibile. Finché non si mette la scure a quella radice, si possono recidere tutte le radici laterali, ma l’albero non cade. Quel posto è molto stretto, non c’è posto per due: o c’è il mio io, o c’è Cristo.
Forse, rientrando in me stesso, io sono pronto, a questo punto, a riconoscere la verità e cioè che finora, almeno in qualche misura, ho vissuto “per me stesso”, che sono anch’io coinvolto nel mistero dell’empietà. Lo Spirito Santo mi ha “convinto di peccato”. Comincia per me il miracolo sempre nuovo della conversione. Se il peccato, come ci ha spiegato Agostino, è consistito in un ripiegamento su se stessi, la conversione più radicale consiste nel “raddrizzarci” e ri-volgerci a Dio. Non possiamo farlo nel corso di una predica, o di una quaresima; possiamo però almeno prendere la decisione seria di farlo, ed è già in qualche modo, per Dio, come averlo fatto.
Se mi schiero con tutto me stesso dalla parte di Dio, contro il mio “io”, divento suo alleato; siamo in due a combattere contro lo stesso nemico e la vittoria è assicurata. Il nostro io, come un pesce tirato fuori dalla sua acqua, può guizzare ancora e dimenarsi per un po’, ma è destinato a morire. Non è però un morire, ma un nascere. “Chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà” (Mt 16, 25). Nella misura che muore l’uomo vecchio, nasce in noi “l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella vera santità” (Ef 4,24). L’uomo o la donna che tutti segretamente vogliamo essere.
Dio ci aiuti a realizzare sempre di nuovo la vera impresa della vita che è la nostra conversione.
1.F. Nietzsche, La gaia scienza, nr. 125.
2.Origene, Commento alla Lettera ai Romani, 2,2 (PG 14. 873).

Testimonio de Pedro y Pilar. Familia en misión del Camino Neocatecumenal en Villa Miseria, Argentina

mercoledì 27 marzo 2019

Carta de un preso a Kiko Argüello




Querido Kiko: ¡que la Paz del Señor resucitado esté siempre contigo!.
Me llamo Pasquale y soy de la primera comunidad neocatecumenal de la cárcel de Poggioreale (Nápoles). Estoy contento de escribirte esta carta porque cuando me mandaron los anuncios de las catequesis fuí a escuchar solo por asuntos personales, porque quería meterme en el bolsillo al sacerdote, porque ya llevaba ocho meses en la cárcel y pensaba que el sacerdote podía hacerme salir de la cárcel. Sin embargo no sabía que el Señor tenía para mí un proyecto bien distinto. Y cuando fuimos a escuchar las catequesis, éramos 80 presos.
Las catequesis hablaban, pero nosotros no las escuchábamos y hablaban de este camino neocatecumenal, hablaban de este español, de este Kiko, hablaban de la Virgen María, pero a mí personalmente no me importaba absolutamente nada, porque solo pensaba en salir de la cárcel.
Pensaba en todos mis problemas de afuera, pensaba en todos los años de cárcel que ya había pasado y nadie me liberó nunca, como podía liberarme Jesucristo, pero los catequistas seguían diciéndonos que el Señor nos libraría de nuestras esclavitudes, aunque yo, sinceramente hablando, no me lo creía, y decía: “no son más que chorradas, ¿qué quieren estos pelmas?…, ellos ahora se van a casa, mientras que nosotros estamos encerrados aquí dentro y nos vienen a decir todas estas chorradas…, pero a mí, ¡qué me importa!”.
Pensaba en todo lo que hacía afuera, pensaba que al salir tenía que vender droga, pensaba robar a la gente para sacar dinero, incluso estaba pensando en meterme en algún clan camorrista, porque quería vengarme de todas las maldades que había recibido.
Pero durante las catequesis estaba naciendo algo dentro de mí, cada catequesis que escuchaba me hacía estar clavado en la silla, ya no era capaz de oir la voz de mis amigos, el Señor quería hacer nacer algo dentro de mí, pero todavía no quería aceptar esa realidad.
Porque el Señor sabía como pillarme, porque El sabía que doy asco, pero el Señor no me abandonó, sabía que yo tenía necesidad de El. El Señor me estuvo realmente cerca porque el sabía que yo era débil, ya sabía de mis perseguidores y no me abandonaba nunca.
Porque luego empezaron las persecuciones, mis amigos empezaron a decirme que era idiota, siempre me decían “pero, ¿cómo consigues estar sentado y escuchar estas bobadas?”…, pero el Señor no me dejaba ir. El sabía que yo tenía necesidad de El, porque en la cárcel es difícil escuchar la Palabra de Dios, porque todos piensan que ir a la iglesia es una vergüenza, porque también yo pensaba todo esto y no estaba confirmado, no había hecho la primera Comunión, no me había confesado en mi vida, es más, los curas y las monjas me eran todos antipáticos e incluso llegué a robarles.
Pero el Señor sabía adonde quería llevarme, a esta nueva vida… Durante la celebración penitencial me encerraba en mí mismo porque tenía miedo de confesarme, de ser juzgado, tenía miedo de la vergüenza, pero algo sucedió dentro de mí durante la celebración, no sé ni como explicarlo, me encontré delante del sacerdote sin ni siquiera darme cuenta.
El Señor quiso llevarme allí, hacerme sentir la alegría dentro de mí, hacerme sentir el amor que El tenía por mí, hacerme sentir que El me quería realmente, que El me estaba perdonando todos mis pecados, porque pensaba que mi vida ya no era nada, que estaba acabada, porque a mi siempre me juzgaron los tribunales y siempre fuí condenado, me dieron siempre años de cárcel.
Pero en aquella penitencial ví cómo el Señor, con todas las maldades, con todo el mal que he hecho a la pobre gente, con toda la droga que vendí a los pobres chavales inocentes, ví que el Señor me perdonó, entonces entendí que había un Dios que no me condenaba, sino que me había perdonado todos los pecados.
Pero la alegría y el amor que el Señor quería darme creía que se acabarían después de la penitencial, pero el Señor, una vez más, se me manifestó en la celebración de la Biblia (de la Palabra -se refiere a la celebración de la entrega solemne de la Biblia por parte de la Iglesia, en el marco de una celebración de la Palabra que tiene lugar en el período de catequesis, una vez realizada la penitencial-) porque después de la celebración volvimos a las celdas y abrí la Biblia al azar y la lectura que salió era precisamente la de “Lázaro, sal fuera!”. Allí el Señor me hizo entender que aquel Lázaro que estaba en el sepulcro era yo, el Señor poco a poco me estaba haciendo entender que quería devolverme la vida. Quería hacerme vivir una alegría todavía más grande, la celebración de la Eucaristía. Allí realmente el Señor estaba comenzando a abrir este camino, porque todo me llamaba la atención: los salmos, los cantos…
…Pero de repente sucedió algo… y empieza también la persecución y el pitorreo, mis compañeros de celda empezaron a decirme “pero, ¿quién te obliga a hacerlo?”… y mes tras mes el Señor estaba realmente haciendo nacer algo dentro de mí, me estaba haciendo entender, a pesar de que yo hubiera ido a las catequesis para meterme en el bolsillo al sacerdote para salir de la cárcel.
Pero el Señor me hacía sentir cada vez más feliz porque seguía en la cárcel, el Señor me estaba liberando de mis maldades, de mis esclavitudes, de la esclavitud de la droga, de la esclavitud del mal, el Señor me estaba haciendo entender que mi vida no era el dinero, sino mi familia. Porque yo pensaba que el dinero lo era todo para mí, el Señor me hacía entender que tenía que ir a trabajar y que no debía robar ni vender droga. Lo más bonito era cuando mi mujer venía a visitarme y yo le hablaba de la comunidad. Mi mujer me veía cambiado pero también decía que estaba loco porque yo le decía que cuando saliera la llevaría a la Iglesia y me casaría con ella, pero ella no se lo creía, hacía diez años que estábamos casados por lo civil, pero ella seguía diciéndome que estaba loco porque yo le decía que tenía que hacer la primera Comunión, pero ella no se lo creía. Realmente estaba creciendo en Jesucristo porque me daba cuenta de que ya no me importaba salir (de la cárcel), el Señor empezaba a hablar dentro de mí, hablaba a mi corazón, lo sentía cada vez más cerca con el canto “Quién nos separará del amor de Dios”, no hacía otra cosa que cantar este canto. …El tiempo pasaba y yo no me daba cuenta… y el Señor una vez más quería hacerme vivir algo precioso, porque el juez me dió ocho dias de permiso, pero esta vez no era como todas las demás veces, porque sentía algo distinto a todas las demás veces que había salido de la cárcel. Las otras veces pensaba enseguida en conseguir dinero, pero esta vez el Señor estaba cambiando realmente mi vida.
Porque el Señor me había puesto ante el camino del bien y del mal… estaba realmente cerca de mí y realmente era El quien me acompañaba de la mano porque me quería mucho y me estaba haciendo salir de una esclavitud de la que nunca nadie pudo hacerme salir, de la esclavitud de la droga. …Estaba muy contento porque sentía que el Señor empezaba a hablar a mi corazón, me daba la alegría de volver a la cárcel porque si no hubiera conocido al Señor seguramente no habría vuelto. Los ocho días de permiso pasados en casa con mi mujer y mis dos hijos fueron muy bonitos porque era muy distinto de las otras veces, porque las otras veces no me importaba nada estar en casa, porque salía corriendo a buscar a mis amigos para ver como debía conseguir dinero, hablando claro, adonde tenía que ir a robar.
Pero luego volví a la cárcel con serenidad y tranquilo… Nuestros catequistas vinieron a vernos y estuvimos celebrando la Eucaristía, y en un momento dado entró una brigada con dos guardias y me llamaron para que saliera porque era libre. Pero yo ya no sentía este deseo de salir y les dije que no me iba hasta que terminara la Eucaristía. El capellán y los catequistas me invitaban a irme porque era libre de salir, pero yo insistía en que quería terminar la Eucaristía. Y los guardias me decían que estaba loco porque nunca habían visto a nadie que no quisiera salir de la cárcel, porque normalmente cuando salen, todos lo dejan todo y se van pitando, pero yo sentía que el Señor hablaba a mi vida. Cuando salí de la cárcel, el Señor me había puesto delante el camino del bien y del mal. He elegido la senda de Jesucristo, la estrecha difícil y cuesta arriba, y empecé a continuar el camino en la décima comunidad de San Giacomo, a pesar de que tenía muchas dificultades porque vivía lejos y no conseguía ir hasta allá porque me faltaba dinero para gasolina, pero el Señor siempre ha estado cerca de mí y así he empezado a experimentar la providencia de Dios y a constatar que El es padre de la vida.
Como primera cosa, quise hacer la Confirmación porque me hacía falta para casarme en la Iglesia y me alegró que uno de los catequistas de la cárcel quisiera ser mi padrino y luego le pedí que también fuera mi padrino de boda y él aceptó. Fué bonito el día de mi boda en la Iglesia, porque realmente sentía que Jesucristo venía a atarme con más fuerza a mi mujer, a la que yo había hecho sufrir tanto, cuando me drogaba y vivía en la muerte, y me daba la posibilidad de tener una familia cristiana en el verdadero sentido de la palabra. Tuve problemas con las personas que estaban a mi alrededor, con los parientes que no creían que yo hubiera cambiado, que no era posible porque siempre que había hecho una promesa, después no la había mantenido nunca, con mis amigos con los que iba a robar y a los cuales les decía que era el Señor quien nos salvaba de nuestras esclavitudes, pero ellos me decían que estaba loco, pero veía lo importante que era hablar de Dios porque el Señor me robustecía, a mí, porque sentía que tenía necesidad de él y he visto cómo el Señor proveyó para mí y para mi familia.
Empecé a trabajar recogiendo la basura por la noche con una empresa privada, haciendo grandes sacrificios porque no quería renunciar a las celebraciones de la comunidad. Luego, cuando la empresa perdió la contrata, me quedé en paro, pero después de poco tiempo Dios proveyó y encontré un puesto de albañil que para mi era agobiante porque tenía que levantarme por la mañana muy temprano y sufría mucho por el cansancio, porque yo nunca había trabajado así, y esto yo no lo aceptaba demasiado bien porque veía que cuando vendía droga trabajaba menos y ganaba mucho más. Pero el Señor me hizo entender poco a poco que solo él era importante y que tenía que trabajar para alimentar a mi familia, y que lo más importante era anunciar su amor a mis compañeros. Lo más bonito para mí es hablar de este Jesucristo resucitado, porque él me ha sacado realmente de lo profundo del abismo, de la oscuridad de la muerte, en donde yo no veía la luz, pero el Señor me ha sacado de nuevo a la luz, me ha devuelto la vida, y por todo eso quiero dar gracias al Señor. Quiero dar gracias al Camino Neocatecumenal, porque si no hubiese conocido el Camino estaría todavía vendiendo droga, estaría todavía haciendo daño a la gente, pero el Señor ha sido realmente bueno, realmente me quiere como un padre. Es el único padre que he tenido en la vida, porque crecí sin padre, es el único padre que me ha querido, con todos mis pecados.
Un día me ocurrió que tuve que ir a un proceso por una vieja historia de droga, y a mí no me importaba nada tener que volver a la cárcel, aunque lo sentía por mi familia y mi comunidad. Y el Señor me mostró su gran paternidad también en este hecho, no dejándome solo, porque al proceso vinieron también los hermanos de mi comunidad, que mientras esperaban se pusieron a rezar conmigo, a pesar de toda la gente que había, y gracias a sus oraciones y a la ayuda del Señor, el juez me dijo que estaba libre y que no tenía que volver a la cárcel. Después de estos años de camino a través de las tribulaciones, las persecuciones, el Señor me está haciendo vivir los días más bonitos de mi vida porque en mi barrio antes se sabía que yo robaba y vendía droga, pero lo más bonito es que ahora solo me ven hablar de Jesucristo.
Querido Kiko, no acabaría nunca de contarte las maravillas que el Señor ha hecho conmigo, me ha hecho experimentar la alegría de tener otro hijo (Emanuele = Dios con nosotros) y un poco después otra hija, de sentirme realmente padre y de hacer entender a mis hijos que siempre me equivoqué en la vida, pero que hoy está Jesucristo, que me ha aceptado con todos mis pecados y con todas las dificultades, que siempre está Dios Padre que provee para nosotros. Yo me maravillo de mí mismo, veo como el Señor se sirve de mí para llevar su Palabra aunque yo no sea digno de hablar de El, pero veo que El se sirve de mí para dar testimonio, de hecho algunos de mis amigos de infancia con los que robaba están viniendo ahora a escuchar las catequesis para poder entrar en comunidades.
Al final de esta carta, la hija de Pasquale quiso añadir:
Querido Kiko, soy una niña de nueve años y también yo he tomado el camino del Señor como ha hecho mi padre que era un drogadicto y un ladrón, pero yo he entendido que lo más importante es tener alegría, amor, fraternidad con Dios y con nuestro prójimo.
El Señor ha cambiado a mi familia y estamos siguiendo siempre a Dios y no lo dejaremos nunca, y siempre le seguiremos a El porque el dinero no hace feliz al hombre, al contrario, le hace infeliz, pero si un hombre sigue el camino del Señor y de la paz, es feliz como mi familia y yo, pues nos ha cambiado y nos ha hecho salir de la tribulación y nos ha hecho felices, alegres y llenos de la luz del Señor, que ha entrado en nuestros corazones.
Del blog Libro de Crónicas al que puedes acceder en el enlace

venerdì 22 marzo 2019

RIENTRA IN TE STESSO! - Seconda Predica di Quaresima 2019




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Il predicatore della Casa Pontificia ha tenuto questa mattina la seconda predica di Quaresima, presso la cappella Redemptoris Mater. Alla presenza del Papa, padre Raniero Cantalmessa ha proseguito le riflessioni sul tema: “In te ipsum redi. Rientra in te stesso”, ripreso dal pensiero di Sant’Agostino. Di seguito il testo.

***


Sant’Agostino ha lanciato un appello che a distanza di tanti secoli conserva intatta la sua attualità: “In teipsum redi. In interiore homine habitat veritas”: “Rientra in te stesso. Nell’uomo interiore abita la verità” . In un discorso al popolo, con insistenza ancora maggiore, esorta:
“Rientrate nel vostro cuore! Dove volete andare lontano da voi? Andando lontano vi perderete. Perché vi mettete su strade deserte? Rientrate dal vostro vagabondaggio che vi ha portato fuori strada; ritornate al Signore. Egli è pronto. Prima rientra nel tuo cuore, tu che sei diventato estraneo a te stesso, a forza di vagabondare fuori: non conosci te stesso, e cerchi colui che ti ha creato! Torna, torna al cuore, distaccati dal corpo… Rientra nel cuore: lì esamina quel che forse percepisci di Dio, perché lì si trova l’immagine di Dio; nell’interiorità dell’uomo abita Cristo, nella tua interiorità tu vieni rinnovato secondo l’immagine di Dio” .
Proseguendo il commento iniziato in Avvento sul versetto del Salmo “L’anima mia ha sete del Dio vivente”, riflettiamo sul “luogo” in cui ognuno di noi entra in contatto con il Dio vivente. In senso universale e sacramentale questo “luogo” è la Chiesa, ma in senso personale ed esistenziale esso è il nostro cuore, quello che la Scrittura chiama “l’uomo interiore”, “l’uomo nascosto nel cuore” . A questa scelta ci spinge anche il tempo liturgico in cui ci troviamo. Gesú in questi quaranta giorni è nel deserto, ed è lì che lo dobbiamo raggiungere. Non tutti possono andare in un deserto esteriore; tutti però possiamo rifugiarci nel deserto interiore che è il nostro cuore. “Nell’interiorità dell’uomo abita Cristo”, ci ha detto Agostino.
Se vogliamo un’immagine plastica o, un simbolo, che ci aiuti ad attuare questa conversione verso l’interno, ce la offre il Vangelo con l’episodio di Zaccheo. Zaccheo è l’uomo che vuol conoscere Gesù e, per farlo, esce di casa, va tra la folla, sale su un albero… Lo cerca fuori. Ma ecco che Gesù passando lo vede e gli dice: “Zaccheo, scendi subito perché oggi devo fermarmi a casa tua” (Lc 19, 5). Gesù riconduce Zaccheo a casa sua e lì, nel segreto, senza testimoni, avviene il miracolo: egli conosce veramente chi è Gesù e trova la salvezza.
Noi somigliamo spesso a Zaccheo. Cerchiamo Gesù e lo cerchiamo fuori, per le strade, tra la folla. Ed è Gesù stesso che ci invita a rientrare in casa nostra nel nostro stesso cuore, dove lui desidera incontrarsi con noi.
Interiorità, un valore in crisi
L’interiorità è un valore in crisi. La “vita interiore” che un tempo era quasi sinonimo di vita spirituale, ora tende invece a essere guardata con sospetto. Ci sono dizionari di spiritualità che omettono del tutto le voci “interiorità” e “raccoglimento” e altri che le portano, ma non senza esprimere qualche riserva. Per esempio, si fa notare che, dopo tutto, non c’è nessun termine biblico che corrisponda esattamente a queste parole; che potrebbe esserci stato, in questo punto, un influsso determinante della filosofia platonica; che esso potrebbe favorire il soggettivismo e così via.
Un sintomo rivelatore di questo calo del gusto e della stima dell’interiorità è la sorte toccata all’Imitazione di Cristo che è una specie di manuale di introduzione alla vita interiore. Da libro più amato tra i cristiani, dopo la Bibbia, esso è passato, in pochi decenni, a essere un libro dimenticato.
Alcune cause di questa crisi sono antiche e inerenti alla nostra stessa natura. La nostra “composizione”, cioè l’essere noi costituiti di carne e spirito, fa sì che siamo come un piano inclinato, inclinato però verso l’esterno, il visibile e il molteplice. Come l’universo, dopo l’esplosione iniziale (il famoso Big bang), anche noi siamo in fase di espansione e di allontanamento dal centro. “Non si sazia l’occhio di guardare, né mai l’orecchio è sazio di udire”, dice la Scrittura (Qo 1, 8). Siamo perennemente “in uscita”, attraverso quelle cinque porte o finestre che sono i nostri sensi.
Altre cause sono invece più specifiche e attuali. Una è l’emergenza del “sociale” che è certamente un valore positivo dei nostri tempi, ma che, se non è riequilibrato, può accentuare la proiezione all’esterno e la spersonalizzazione dell’uomo. Nella cultura secolarizzata e laica dei nostri tempi il ruolo che svolgeva l’interiorità cristiana è stato assunto dalla psicologia e dalla psicoanalisi, le quali si fermano però all’inconscio dell’uomo e comunque alla sua soggettività, prescindendo dal suo intimo legame con Dio.
In campo ecclesiale, l’affermarsi, con il Concilio, dell’idea di una “Chiesa per il mondo” ha fatto sì che all’ideale antico della fuga dal mondo, si sia sostituito talvolta l’ideale della fuga verso il mondo. L’abbandono dell’interiorità e la proiezione all’esterno è un aspetto – e tra i più pericolosi – del fenomeno del secolarismo. C’è stato perfino un tentativo di giustificare teologicamente questo nuovo orientamento che ha preso il nome di teologia della morte di Dio, o della città secolare. Dio – si dice – ci ha dato lui stesso l’esempio. Incarnandosi, egli si è svuotato, è uscito da se stesso, dall’interiorità trinitaria, si è “mondanizzato”, cioè disperso nel profano. È diventato un Dio “fuori di sé”.
L’interiorità nella Bibbia
Come sempre, alla crisi di un valore tradizionale, nel cristianesimo si deve rispondere attuando una ricapitolazione, cioè riprendendo le cose al loro principio per portarle a un nuovo compimento. In altre parole, si tratta di ripartire dalla parola di Dio e, alla sua luce, di ritrovare, nella stessa Tradizione, l’elemento vitale e perenne, liberandolo dagli elementi caduchi di cui si è rivestito lungo i secoli. È quello che il concilio Vaticano II ha seguito come metodo in tutti i suoi lavori. Come in natura, a primavera, si pota l’albero dai rami della precedente stagione per rendere possibile al tronco una nuova fioritura, così bisogna fare anche nella vita della Chiesa.
Già i profeti d’Israele avevano lottato per spostare l’interesse del popolo dalle pratiche esteriori di culto e dal ritualismo, all’interiorità del rapporto con Dio. “Questo popolo – leggiamo in Isaia – si avvicina a me solo a parole e mi onora con le labbra, mentre il suo cuore è lontano da me e il culto che mi rendono è un imparaticcio di usi umani” (Is 29, 13). Il motivo è che “l’uomo guarda le apparenze, ma Dio scruta il cuore” (1 Sam 16, 7). “Laceratevi il cuore, non le vesti, si legge in un altro profeta” (Gl 2, 13).
È il tipo di riforma religiosa che Gesù ha ripreso e portato a compimento. Uno che esamini l’operato di Gesù e le sue parole, fuori da preoccupazioni dogmatiche, da un punto di vista di storia delle religioni, nota anzitutto una cosa: che egli ha voluto rinnovare la religiosità giudaica, finita spesso nelle secche del ritualismo e del legalismo, rimettendo al centro di essa un rapporto intimo e vissuto con Dio. Egli non si stanca di richiamare a quell’ambito “segreto”, il “cuore”, dove si opera il vero contatto con Dio e con la sua vivente volontà e da cui dipende il valore di ogni azione (cf Mt 15, 10 ss). Il richiamo all’interiorità trova la sua motivazione biblica più profonda e oggettiva nella dottrina della inabitazione di Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo, nell’anima del battezzato .
Con il passare del tempo, nella visione biblica dell’interiorità cristiana qualcosa si era offuscato, contribuendo alla crisi di cui ho parlato sopra. In certe correnti spirituali, come in alcuni dei mistici renani, si era offuscato il carattere oggettivo di questa interiorità. Essi insistono sul ritorno al “fondo dell’anima” mediante quella che essi chiamano “introversione”. Ma non sempre appare chiaro se questo “fondo dell’anima” appartiene alla realtà di Dio o a quella dell’io, o, peggio, se esso è tutte e due le cose insieme, panteisticamente fuse.
Negli ultimi secoli l’aspetto del metodo aveva finito per prevalere sul contenuto dell’interiorità cristiana, riducendola talvolta a una specie di tecnica di concentrazione e di meditazione, più che all’incontro con il Cristo vivente nel cuore, anche se non sono mancate in nessuna epoca, splendide realizzazioni dell’interiorità cristiana. La beata Elisabetta della Trinità è nella linea della più pura interiorità oggettiva, quando scrive: “Io ho trovato il paradiso sulla terra, perché il paradiso è Dio e Dio è nel mio cuore” .
Ritorno all’interiorità
Ma torniamo al presente. Perché è urgente tornare a parlare di interiorità e riscoprire il gusto di essa? Viviamo in una civiltà tutta proiettata all’esterno. Avviene nell’ambito spirituale quello che si osserva nell’ambito fisico. L’uomo invia le sue sonde fino alla periferia del sistema solare, fotografa quello che c’è in pianeti lontani; ignora invece quello che si agita poche migliaia di metri sotto la crosta terrestre e non riesce perciò a prevedere terremoti ed eruzioni vulcaniche. Anche noi sappiamo, ormai in tempo reale, quello che avviene all’altro capo del mondo, ma ignoriamo quello che si agita nel fondo del nostro cuore. Viviamo come in una centrifuga in azione a tutta velocità.
Evadere, cioè uscire fuori, è una specie di parola d’ordine. Esiste perfino una letteratura di evasione, spettacoli di evasione. L’evasione è, per così dire, istituzionalizzata. Il silenzio fa paura. Non si riesce a vivere, lavorare, studiare senza qualche voce o musica intorno. C’è una specie di horror vacui, di paura del vuoto, che spinge a stordirsi.
Ho avuto occasione di mettere piede una volta in una discoteca, invitato a parlare ai giovani ivi raccolti. Mi è bastato per farmi un’idea di che cosa vi regna: l’orgia del chiasso, il rumore assordante come droga. Sono state fatte inchieste tra i giovani all’uscita della discoteca e alla domanda: “Perché vi riunite in questo luogo?”, alcuni hanno risposto: “Per non pensare!”. Ma è facile immaginare a quali manipolazioni sono esposti dei giovani che hanno rinunciato ormai a pensare.
“Pesi il lavoro su questi uomini e vi si trovino impegnati, così che non diano retta alle parole di Mosè”, fu l’ordine del Faraone d’Egitto (cf Es 5, 9). L’ordine tacito, ma non meno perentorio, dei faraoni moderni è: “Pesi il chiasso su questi giovani, ne siano storditi, cosicché non pensino, non facciano delle scelte libere, ma seguano la moda che fa comodo a noi, comprino quello che diciamo noi, pensino come vogliamo noi!”. Per un settore molto influente della nostra società, quello dello spettacolo e della pubblicità, gli individui contano solo in quanto sono “spettatori”, numeri che fanno salire la “audience” dei programmi.
Occorre opporsi con un risoluto “no!” a questo svuotamento. I giovani sono anche i più generosi e pronti a ribellarsi alle schiavitù e infatti vi sono schiere di giovani che reagiscono a questo assalto e, anziché fuggire, ricercano luoghi e tempi di silenzio e di contemplazione per ritrovare ogni tanto se stessi e, in se stessi, Dio. Sono in tanti, anche se nessuno ne parla. Alcuni hanno fondato case di preghiera e di adorazione eucaristica continuata e attraverso la Rete danno la possibilità a tanti di unirsi a loro.
L’interiorità è la via a una vita autentica. Si parla tanto oggi di autenticità e se ne fa il criterio di riuscita o meno della vita. Il filosofo forse più noto del secolo scorso, Martin Heidegger, ha posto questo concetto al centro del suo sistema. Per il cristiano l’autenticità vera non si raggiunge se non vivendo “coram Deo”, al cospetto di Dio.
“Un mandriano –scrive Kierkegaard – il quale, se questo fosse possibile, è un io di fronte alle vacche, è un io molto basso; un sovrano che è un io di fronte ai suoi servi, lo stesso. Nessuno dei due è un io; in ambedue i casi manca la misura… Ma che realtà infinita non acquista l’io, acquistando coscienza di esistere davanti a Dio, diventando un io umano, la cui misura è Dio! […] Si parla tanto di vite sprecate. Ma sprecata è soltanto la vita di quell’uomo che mai si rese conto, perché non ebbe mai, nel senso più profondo, l’impressione che esiste un Dio e che egli, proprio egli, il suo io, sta davanti a questo Dio”.
Il Vangelo ci narra la storia di uno di questi “mandriani”. Era fuggito dalla casa paterna e aveva dissipato i suoi beni e la sua giovinezza, vivendo dissolutamente. Ma un giorno “rientrò in se stesso”. Passò in rassegna la sua vita, preparò le parole da dire e si mise in cammino verso la casa paterna (cf Lc 15, 17). La sua conversione si attuò in questo momento, prima di muoversi, mentre era solo in mezzo a una mandria di porci. Si attuò nel momento in cui “rientrò in se stesso”. In seguito non fece che eseguire quello che aveva deliberato. La conversione esterna fu preceduta da quella interiore e ricevette da questa il suo valore. Quanta fecondità in quel “rientrare in se stesso!”.
Non sono solo i giovani a essere travolti dall’ondata di esteriorità. Lo sono anche le persone più impegnate e attive nella Chiesa. Anche i religiosi! Dissipazione è il nome della malattia mortale che ci insidia tutti. Si finisce per essere come un vestito rovesciato, con l’anima esposta ai quattro venti. In un discorso tenuto ai superiori di un ordine religioso contemplativo, san Paolo VI disse:
“Oggi siamo in un mondo che sembra alle prese con una febbre che si infiltra perfino nel santuario e nella solitudine. Rumore e frastuono hanno invaso pressoché ogni cosa. Le persone non riescono più a raccogliersi. In preda a mille distrazioni, esse dissipano abitualmente le loro energie dietro le diverse forme della cultura moderna. Giornali, riviste, libri invadono l’intimità delle nostre case e dei nostri cuori. È più difficile di un tempo trovare l’opportunità per quel raccoglimento nel quale l’anima riesce a essere pienamente occupata in Dio”.
Santa Teresa d’Avila ha scritto un’opera intitolata Il castello interiore che è certamente uno dei frutti più maturi della dottrina cristiana dell’interiorità. Ma esiste, ahimè, anche un “castello esteriore” e oggi constatiamo che è possibile essere chiusi anche in questo castello. Chiusi fuori casa, incapaci di rientrarvi. Prigionieri dell’esteriorità! Sant’Agostino descrive così la sua vita prima della conversione:
“Tu eri dentro di me ed io stavo fuori e ti cercavo quaggiù, gettandomi deforme, sopra queste forme di bellezza che sono creature tue. Tu eri con me, ma io non ero con te. Mi tenevano lontano da te quelle creature che non esisterebbero neppure se non fosse per te che le fai esistere” .
Quanti di noi dovrebbero ripetere questa amara confessione: “Tu eri dentro di me, ma io ero fuori!” Vi sono alcuni che sognano la solitudine, ma la sognano soltanto. La amano, purché resti nel sogno e non si traduca mai nella realtà. Nella realtà, rifuggono da essa, ne hanno paura. La scomparsa del silenzio è un sintomo grave. Sono stati rimossi quasi dappertutto quei tipici cartelli che a ogni corridoio delle case religiose intimavano in latino: Silentium! Io credo che su molti ambienti religiosi incombe il dilemma: O silenzio o morte! O si ritrova un clima e dei tempi di silenzio e d’interiorità oppure è lo svuotamento spirituale progressivo e totale. Gesù chiama l’inferno “le tenebre esteriori” (cf Mt 8, 12) e questa designazione è altamente significativa.
Non bisogna lasciarsi ingannare dall’obiezione solita: ma Dio lo si trova fuori, nei fratelli, nei poveri, nella lotta per la giustizia; lo si trova nell’Eucaristia che è fuori di noi, nella parola di Dio… Tutto vero. Ma dove è che “incontri” veramente il fratello e il povero, se non nel tuo cuore? Se lo incontri solo fuori, non è un io, una persona che incontri, ma una cosa; lo urti più che incontrarlo. Dov’è che incontri il Gesù dell’Eucaristia se non nella fede, cioè dentro di te? Un vero incontro tra persone non può avvenire che tra due coscienze, due libertà, cioè tra due interiorità.
È errato del resto pensare che l’insistenza sull’interiorità possa nuocere all’impegno fattivo per il regno e per la giustizia; pensare, in altre parole, che affermare il primato dell’intenzione possa nuocere all’azione. Interiorità non si oppone all’azione, ma a un certo modo di fare l’azione. Lungi dal diminuire l’importanza dell’agire per Dio, l’interiorità la fonda e la preserva.
L’eremita e il suo eremitaggio
Se vogliamo imitare ciò che Dio ha fatto incarnandosi, imitiamolo davvero fino in fondo. È vero che egli si è svuotato, è uscito da sé, dall’interiorità trinitaria, per venire nel mondo. Sappiamo però come ciò è avvenuto: “Ciò che era rimase, ciò che non era assunse”, dice un antico adagio a proposito dell’incarnazione. Senza abbandonare il seno del Padre, il Verbo venne in mezzo a noi. Anche noi andiamo pure verso il mondo, ma senza uscire mai del tutto da noi stessi. “L’uomo interiore – dice l’Imitazione di Cristo – si raccoglie spontaneamente perché non si disperde mai del tutto nelle cose esterne. A lui non è di pregiudizio l’attività esterna e le occupazioni a suo tempo necessarie, ma sa adattarsi alle circostanze” .
Ma cerchiamo anche di vedere come fare, concretamente, per ritrovare e conservare l’abitudine all’interiorità. Mosè era un uomo attivissimo. Ma si legge che si era fatta costruire una tenda portatile e a ogni tappa dell’esodo fissava la tenda fuori dell’accampamento e regolarmente entrava in essa per consultare il Signore. Lì, il Signore parlava con Mosè “faccia a faccia, come un uomo parla con un altro” (Es 33, 11).
Questo non sempre si può fare. Non sempre ci si può ritirare in una cappella o in un luogo solitario per ritrovare il contatto con Dio. San Francesco d’Assisi suggerisce un altro accorgimento più a portata di mano. Mandando i suoi frati per le strade del mondo, diceva: Noi abbiamo un eremitaggio sempre con noi dovunque andiamo e ogni volta che lo vogliamo possiamo, come eremiti, rientrare in questo eremo. “Fratello corpo è l’eremo e l’anima l’eremita che vi abita dentro per pregare Dio e meditare” .
È la stessa raccomandazione che santa Caterina da Siena esprimeva con l’immagine della “cella interiore” che ognuno porta con sé e in cui è sempre possibile ritirarsi con il pensiero, per riannodare un contatto vivo con la Verità che abita in noi. È a questa cella invisibile, non delimitata da pareti, scrive sant’Ambrogio, che Gesù ci invita con le parole: ”Quando preghi entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto” (Mt 6, 6).
Abbiamo ascoltato all’inizio l’accorato appello di sant’Agostino a rientrare nel cuore, terminiamo ascoltando un altro appello altrettanto accorato nella stessa direzione, quello che sant’Anselmo d’Aosta rivolge al lettore all’inizio del suo Proslogion:
Orsù, omuncolo, abbandona per un momento le tue occupazioni, nasconditi un poco ai tuoi tumultuosi pensieri. Abbandona ora le pesanti preoccupazioni, rimanda i tuoi laboriosi impegni. Per un po’ dedicati a Dio e riposati in Lui. Entra nella camera del tuo spirito, escludi da essa tutto, all’infuori di Dio e di ciò che ti possa giovare a cercarlo, e, chiusa la porta (Mt 6, 6), cercalo. Di’ ora, o mio cuore, nella tua totalità, di’ ora a Dio: ‘Io cerco il tuo volto; il tuo volto, o Signore, io cerco’ (Sal 27, 8).
Con questi desideri e propositi iniziamo la nostra giornata di lavoro, a servizio della Chiesa.
1.S. Agostino, De vera rel. 39, 72 (PL 34, 154).
2.S. Agostino, In Ioh. Ev., 18, 10 (CCL 36, p. 186).
3.Cf Rm 7, 22; 2 Cor 4, 16; 1 Pt 3, 4)
4.Cf. Gv 14, 17.23; Rm 5, 5; Gal 4, 6.
5.S. Elisabetta della Trinità, Lettera 122.
6.S. Kierkagaard, La malattia mortale, II, in Opere, a cura di C. Fabro, Firenze 1972, p. 662-663.
7.S. Agostino, Confessioni, X, 27.
8. Imitazione di Cristo, II, 1.
9.Legenda Perugina, 80 (Fonti Francescane, nr. 1636).
10.S. Ambrogio, Su Caino e Abele, I, 9, 38 (CSEL 32,1, p. 372).

venerdì 15 marzo 2019

Prima Predica di Quaresima 2019: "Beati i puri di cuore perchè vedranno Dio".

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di p. Raniero Cantalamessa
Continuando la riflessione iniziata in Avvento sul versetto del salmo: “L’anima mia ha sete del Dio vivente” (Sal 42, 2), in questa prima predica quaresimale vorrei meditare con voi sulla condizione essenziale per “vedere” Dio. Secondo Gesú, essa è la purezza di cuore: “Beati i puri di cuore perché vedranno Dio” (Mt 5, 8), dice in una delle sue beatitudini.
Sappiamo che puro e purezza hanno nella Bibbia, come del resto nel linguaggio comune, una gamma vastissima di significati. Il Vangelo insiste su due ambiti in particolare: la rettitudine delle intenzioni e la purezza dei costumi. Alla purezza delle intenzioni si oppone l’ipocrisia, alla purezza dei costumi l’abuso della sessualità.
Nell’ambito morale, con la parola “purezza” si designa comunemente un certo comportamento nella sfera della sessualità, improntato al rispetto della volontà del Creatore e della finalità intrinseca della stessa sessualità. Non possiamo entrare in contatto con Dio, che è spirito, altrimenti che mediante il nostro spirito. Ma il disordine o, peggio, le aberrazioni in questo campo hanno l’effetto costatato da tutti di ottenebrare la mente. È come quando si agitano i piedi in uno stagno: il fango, dal fondo, si solleva e intorbida tutta l’acqua. Dio è luce e una tale persona “odia la luce”.
Il peccato impuro non fa vedere il volto di Dio, o, se lo fa vedere, lo fa vedere tutto deformato. Fa di lui, non l’amico, l’alleato e il padre, ma l’antagonista, il nemico. L’uomo carnale è pieno di concupiscenze, desidera la roba d’altri e la donna d’altri. In questa situazione Dio gli appare come colui che sbarra la strada ai suoi desideri cattivi con quei suoi perentori “Tu devi!”, “Tu non devi!” Il peccato suscita nel cuore dell’uomo, un sordo rancore contro Dio, al punto che, se dipendesse da lui, egli vorrebbe che Dio non esistesse affatto.
In questa occasione, tuttavia, più che sulla purezza dei costumi, vorrei insistere sull’altro significato dell’espressione “puri di cuore”, e cioè sulla purezza o rettitudine delle intenzioni, in pratica sulla virtù contraria all’ipocrisia. Ci orienta in questo senso anche il tempo liturgico che stiamo vivendo. Abbiamo iniziato la Quaresima, il Mercoledì delle ceneri, riascoltando le ammonizioni martellanti di Gesú:
“Quando fai l’elemosina, non suonare la tromba davanti a te, come fanno gli ipocriti…Quando pregate non siate simili agli ipocriti…E quando digiunate, non diventate malinconici come gli ipocriti” (Mt 6, 1-18)
È sorprendente quanto il peccato d’ipocrisia – il più denunciato da Gesù nei vangeli-, entri poco nei nostri ordinari esami di coscienza. Non avendo trovato in nessuno di essi la domanda: “Sono stato ipocrita?”, io ho dovuto mettercela per conto mio, e raramente ho potuto passare indenne alla domanda successiva. Il più grande atto di ipocrisia sarebbe nascondere la propria ipocrisia. Nasconderla a se stessi e agli altri, perché a Dio non è possibile. L’ipocrisia è in gran parte vinta, nel momento che è riconosciuta. Ed è quello che ci proponiamo di fare in questa meditazione: riconoscere la parte di ipocrisia, più o meno cosciente, che c’è nelle nostre azioni.
L’uomo –ha scritto Pascal – ha due vite: una è la vita vera, l’altra quella immaginaria che vive nell’opinione, sua o della gente. Noi lavoriamo senza posa ad abbellire e conservare il nostro essere immaginario e trascuriamo quello vero. Se possediamo qualche virtù o merito, ci diamo premura di farlo sapere, in un modo o in un altro, per arricchire di tale virtù o merito il nostro essere immaginario, disposti perfino a farne a meno noi, per aggiungere qualcosa a lui, fino a consentire, talvolta, a essere vigliacchi, pur di sembrare valorosi e a dare anche la vita, purché la gente ne parli .
Cerchiamo di scoprire l’origine e il significato del termine ipocrisia. La parola deriva dal linguaggio teatrale. All’inizio significava semplicemente recitare, rappresentare sulla scena. Agli antichi non sfuggiva l’intrinseco elemento di menzogna che c’è in ogni rappresentazione scenica, nonostante l’alto valore morale e artistico che le viene riconosciuto. Di qui il giudizio negativo che si portava sul mestiere dell’attore, riservato, in certi periodi, agli schiavi e proibito addirittura dagli apologisti cristiani. Il dolore e la gioia ivi rappresentati ed enfatizzati non sono vero dolore e vera gioia, ma parvenza, affettazione. Alle parole e agli atteggiamenti esteriori non corrisponde l’intima realtà dei sentimenti. Quello che è sulla faccia non è quello che c’è nel cuore.
Noi usiamo la parola fiction in senso neutrale o addirittura positivo (è un genere letterario e di spettacolo molto in voga ai nostri giorni!); gli antichi le davano il senso che essa ha in realtà: quello di finzione. Ciò che di negativo c’era nella finzione scenica è passato nella parola ipocrisia. Da parola originariamente neutra, essa è diventata parola esclusivamente negativa, una delle poche parole con significati tutti e solo negativi. C’è chi si vanta di essere orgoglioso o libertino, nessuno di essere ipocrita.
L’origine del termine ci mette sulle tracce per scoprire la natura dell’ipocrisia. Essa è fare della vita un teatro in cui si recita per un pubblico; è indossare una maschera, cessare di essere persona per diventare personaggio. Il personaggio non è altro che la corruzione della persona. La persona è un volto, il personaggio una maschera. La persona è nudità radicale, il personaggio è tutto abbigliamento. La persona ama l’autenticità e l’essenzialità, il personaggio vive di finzione e di artifici. La persona ubbidisce alle proprie convinzioni, il personaggio ubbidisce a un copione. La persona è, umile e leggera, il personaggio è pesante ed ingombrante.
Questa tendenza innata dell’uomo è accresciuta enormemente dalla cultura attuale dominata dall’immagine. Film, televisione, internet: tutto si basa ormai prevalentemente sull’immagine, Cartesio ha detto: “Cogito ergo sum”, penso dunque sono; ma oggi si tende a sostituirlo con “appaio, dunque sono”. Un famoso moralista ha definito l’ipocrisia “il tributo che il vizio paga alla virtù” . Essa insidia soprattutto le persone pie e religiose. Un rabbino del tempo di Cristo diceva che il 90% dell’ipocrisia del mondo si trovava a Gerusalemme . Il motivo è semplice: dove più forte è la stima dei valori dello spirito, della pietà e della virtù, lì è più forte anche la tentazione di affettarle per non sembrarne privi.
Un pericolo viene anche dalla moltitudine dei riti che le persone pie sono solite compiere e delle prescrizioni che sono impegnate a osservare. Se non sono accompagnati da un continuo sforzo di immettere in essi un’anima, mediante l’amore per Dio e per il prossimo, essi diventano gusci vuoti. “Queste cose –dice san Paolo parlando di certi riti e prescrizioni esteriori- hanno una parvenza di sapienza, con la loro affettata religiosità e umiltà e austerità riguardo al corpo, ma in realtà non servono che per soddisfare la carne” (Col 2, 23). In questo caso, le persone conservano, dice l’Apostolo, “la parvenza della pietà, mentre ne hanno rinnegata la forza interiore” (2 Tm 3,5).
Quando l’ipocrisia diventa cronica crea, nel matrimonio e nella vita consacrata, la situazione di “doppia vita”: una pubblica, palese, l’altra nascosta; spesso una diurna, l’altra notturna. È lo stato spirituale più pericoloso per l’anima, dal quale diventa difficilissimo uscire, a meno che non intervenga qualcosa dall’esterno a infrangere il muro dentro cui ci si è chiusi. È lo stadio che Gesú descrive con l’immagine dei sepolcri imbiancati:
“Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che assomigliate a sepolcri imbiancati: all’esterno appaiono belli, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni marciume. Così anche voi: all’esterno apparite giusti davanti alla gente, ma dentro siete pieni di ipocrisia e di iniquità” (Mt 23, 27-28).
Se ci domandiamo perché l’ipocrisia è tanto in abominio davanti a Dio”, la risposta è chiara. L’ipocrisia è menzogna. È occultare la verità. Inoltre nell’ipocrisia l’uomo declassa Dio, lo mette al secondo posto, collocando al primo posto le creature, il pubblico. È come se in presenza del re, uno gli voltasse le spalle per rivolgere la sua attenzione unicamente ai servi. “L’uomo guarda l’apparenza, il Signore guarda il cuore” (1 Sam 16, 7): coltivare l’apparenza più che il cuore, significa automaticamente dare più importanza all’uomo che a Dio.
L’ipocrisia è dunque essenzialmente mancanza di fede, una forma di idolatria in quanto mette le creature al posto del Creatore. Gesù fa derivare da essa l’incapacità dei suoi nemici di credere in lui: “Come potete credere, voi che prendete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene da Dio solo?” (Gv 5, 44). L’ipocrisia manca anche di carità verso il prossimo, perché tende a ridurre gli altri ad ammiratori. Non riconosce loro una dignità propria, ma li vede solo in funzione della propria immagine. Numeri della audience e nulla più.
Una forma derivata di ipocrisia è la doppiezza o l’insincerità. Con l’ipocrisia si cerca di mentire a Dio; con la doppiezza nel pensare e nel parlare si cerca di mentire agli uomini. Doppiezza è dire una cosa e pensarne un’altra; dire bene di una persona in sua presenza e dirne male appena ha voltato le spalle.
Il giudizio di Cristo sull’ipocrisia è come una spada fiammeggiante: “Receperunt mercedem suam”: “hanno ricevuto la loro ricompensa”. Hanno firmato una quietanza, non possono attendersi altro. Una ricompensa, oltretutto, illusoria e controproducente anche sul piano umano, perché è verissimo il detto che “la gloria fugge chi la insegue e insegue chi la fugge”.
È chiaro che la nostra vittoria sull’ipocrisia non sarà mai una vittoria di primo acchito. A meno di essere giunti a un livello altissimo di perfezione, non possiamo evitare di sentire d’istinto il desiderio di apparire in buona luce, di fare bella figura, di piacere agli altri. La nostra arma è la rettificazione dell’intenzione. Alla retta intenzione si giunge mediante la rettificazione costante, giornaliera, della nostra intenzione. L’intenzione della volontà, non il sentimento naturale, è ciò che fa la differenza agli occhi di Dio
Se l’ipocrisia consiste nel mostrare anche il bene che non si fa, un rimedio efficace per contrastare questa tendenza è nascondere anche il bene che si fa. Privilegiare quei gesti nascosti che non saranno sciupati da nessuno sguardo terreno e conserveranno tutto il loro profumo per Dio. “A Dio, dice san Giovanni della croce, piace di più un’azione, per quanto piccola, fatta di nascosto e senza il desiderio che sia conosciuta, che mille altre compiute con il desiderio che siano vedute dagli uomini”. E ancora: “Un’azione fatta interamente e puramente per Dio, con cuore puro, crea tutto un regno per chi la fa” .
Gesù raccomanda con insistenza questo esercizio: “Prega nel segreto, digiuna nel segreto, fa’ l’elemosina in segreto e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà” (cf. Mt 6, 4-18). Sono delicatezze nei confronti di Dio che tonificano l’anima. Non si tratta di fare di ciò una regola fissa. Gesù dice anche: ”Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli” (Mt 5, 16). Si tratta di distinguere quando è bene che gli altri vedano e quando è meglio che non vedano.
La cosa peggiore che si può fare, al termine di una descrizione dell’ipocrisia, è quella di servirsene per giudicare gli altri, per denunciare l’ipocrisia che c’è intorno a noi. È proprio a costoro che Gesù applica il titolo di ipocriti: “Ipocrita, togli prima la trave dal tuo occhio e poi ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello!” (Mt 7,5). Qui è veramente il caso di dire: “Chi di voi è senza peccato scagli la prima pietra” (Gv 8,7). Chi può dire di essere del tutto esente da qualche forma di ipocrisia? di non essere un po’ anche lui un sepolcro imbiancato, diverso all’interno da quello che appare all’esterno? Forse soltanto Gesú e la Madonna sono stati esenti, in modo stabile e assoluto, da ogni forma di ipocrisia. Il fatto consolante è che appena uno dice: “Sono stato ipocrita”, la sua ipocrisia è vinta.
“Se il tuo occhio è semplice”
La parola di Dio non si limita a condannare il vizio dell’ipocrisia; essa ci spinge anche a coltivare la virtù opposta che è la semplicità. “La lampada del corpo è l’occhio; perciò, se il tuo occhio è semplice, tutto il tuo corpo sarà luminoso” (Mt 6,22). La parola “semplicità” può avere –ed ha anche oggi – il senso negativo di dabbenaggine, ingenuità, superficialità e imprudenza. Gesú si preoccupa di escludere questo senso; alla raccomandazione: “Siate semplici come colombe”, fa seguire infatti l’invito a essere anche “prudenti come serpenti” (Mt 10,16).
San Paolo riprende e applica alla vita della comunità cristiana l’insegnamento evangelico sulla semplicità. Nella Lettera ai Romani scrive: “Chi dona, lo faccia con semplicità” (Rom 12, 8). Si riferisce, in primo luogo, a coloro che nella comunità sono preposti a opere di carità, ma la raccomandazione di applica a tutti: non solo a chi dà del proprio denaro, ma anche a chi da del proprio tempo, del proprio lavoro. Il senso è di non far pesare quello che si fa per gli altri o nel proprio ufficio. Alessandro Manzoni che nel suo romanzo “I Promessi sposi” ha incarnato così bene lo spirito del Vangelo, ha una scenetta delicatissima a questo riguardo. Il buon sarto del paese
“Interruppe il discorso da sé, come sorpreso da un pensiero. Stette un momento; poi mise insieme un piatto delle vivande ch’eran sulla tavola, e aggiuntovi un pane, mise il piatto in un tovagliolo, e preso questo per le quattro cocche, disse alla sua bambinetta maggiore: – piglia qui –. Le diede nell’altra mano un fiaschetto di vino, e soggiunse: – va’ qui da Maria vedova; lasciale questa roba, e dille che è per stare un po’ allegra co’ suoi bambini. Ma con buona maniera, ve’; che non paia che tu le faccia l’elemosina” .
L’apostolo Paolo parla di semplicità anche in un altro contesto che ci interessa particolarmente perché attinente alla Pasqua. Scrivendo ai Corinzi dice:
”Togliete via il lievito vecchio, per essere pasta nuova, poiché siete azzimi. E infatti Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato! Celebriamo dunque la festa non con il lievito vecchio, né con lievito di malizia e di perversità, ma con azzimi di sincerità e di verità” (1 Cor 5, 7-8).
La festa che l’Apostolo invita a celebrare non è una festa qualunque, ma la festa per eccellenza, l’unica festa che il cristianesimo conosce e celebra nei primi tre secoli della sua storia, e cioè la Pasqua. La vigilia della Pasqua, il 13 Nisan, il rituale ebraico ordinava che la padrona di casa perlustrasse al lume di candela tutta la casa, rovistando ogni angolo, per far sparire ogni piccolo vestigio di pane fermentato e celebrare così, l’indomani, la Pasqua con solo pane azzimo. Il fermento infatti era per gli ebrei sinonimo di corruzione e il pane azzimo, simbolo di purezza, novità e integrità. In questo senso Gesù chiama l’ipocrisia un fermento, “il fermento dei farisei” (Lc 12, 1).
San Paolo vede nella pratica rituale ebraica una grandiosa metafora della vita cristiana. Cristo è stato immolato; è lui la vera Pasqua di cui quella antica era un’attesa; bisogna dunque perlustrare la casa interiore, il cuore, spogliarsi di tutto ciò che è vecchio e corrotto, per essere “una pasta nuova”; fare, anche dentro di noi, la grande pulizia primaverile. La parola greca heilikrineia che è tradotta con “sincerità” contiene l’idea di splendore solare (helios) e di prova o giudizio (krino) e significa perciò una trasparenza solare, qualcosa che è stato provato contro luce e trovato puro.
La virtù della semplicità ha il modello più sublime che si possa pensare: Dio stesso. Sant’Agostino ha scritto: “Dio è trino, ma non è triplice” . Egli è la stessa semplicità. La Trinità non distrugge la semplicità di Dio, perché la semplicità riguarda la natura e la natura di Dio è una e semplice. San Tommaso raccoglie fedelmente questa eredità, facendo della semplicità il primo degli attributi di Dio .
La Bibbia esprime questa stessa verità in maniera concreta, per mezzo di immagini: ”Dio è luce e in lui non ci sono tenebre” (1 Gv 1, 5). L’assenza di qualsiasi mescolanza è anche uno dei molteplici significati del titolo divino Qadosh, Santo. Pura pienezza, pura semplicità. La grande mistica santa Caterina da Genova designa questo aspetto della natura divina, di cui era innamorata, con netto, nettezza, un termine che indica, insieme, purezza e interezza, pienezza e omogeneità assoluta. Dio è “tutto d’un pezzo”. La semplicità di Dio è “pura pienezza”; a lui, dice la Scrittura, “nulla può essere aggiunto e nulla tolto” (Sir 42, 21). In quanto è somma pienezza, niente gli può essere aggiunto; in quanto è somma purezza, niente gli deve essere tolto. In noi le due cose non sono mai unite; l’una contraddice l’altra. La nostra purezza è ottenuta sempre togliendo qualcosa, purificandoci, “togliendo il male dalle nostre azioni” (cf. Is 1, 16).
Qualunque azione, benché piccola, se compiuta con intenzione pura e semplice, ci fa essere “a immagine e somiglianza di Dio”. L’intenzione pura e semplice raccoglie le forze disperse dell’anima, prepara lo spirito e lo unisce a Dio. Essa è principio, fine e ornamento di tutte le virtù. Tendendo a Dio solo e giudicando le cose in rapporto a lui, la semplicità respinge e debella la finzione, l’ipocrisia e ogni duplicità… Questa intenzione pura e retta è quell’occhio semplice di cui parla Gesù nel Vangelo, che illumina tutto il corpo, cioè tutta la vita e gli atti dell’uomo e li preserva immuni dal peccato.
Quella della semplicità è una delle conquiste più ardue e più belle del cammino spirituale. La semplicità è propria di chi è stato purificato da una vera penitenza, perché è frutto di un totale distacco da se stessi e di un amore disinteressato verso Cristo. La si raggiunge a poco a poco, senza scoraggiarsi per le cadute, ma con ferma determinazione di cercare Dio per lui stesso e non per noi stessi.
Se posso permettermi di suggerire un proposito al termine di questa meditazione, esso è di cercare nel salterio, o nella liturgia delle ore, il salmo 139; recitarlo lentamente e ripetutamente, come se lo leggessimo per la prima volta, anzi come se lo stessimo componendo noi stessi o fossimo i primi a pronunziarlo. Se l’ipocrisia e la doppiezza consistono nel ricercare lo sguardo degli uomini più che quello di Dio, qui troviamo il rimedio più efficace. Recitare questo salmo è come sottoporsi a una specie di radiografia, come esporsi ai raggi X. Ci si sente attraversati da parte a parte dallo sguardo di Dio. Io ricordo sempre l’impressione di quando per la prima volta lo recitai nel modo che ho detto. Comincia così:
“Signore, tu mi scruti e mi conosci,
tu sai quando seggo e quando mi alzo.
Penetri da lontano i miei pensieri,
mi scruti quando cammino e quando riposo.
Ti sono note tutte le mie vie;
la mia parola non è ancora sulla lingua e tu, Signore, gia la conosci tutta…
Dove andare lontano dal tuo spirito, dove fuggire dalla tua presenza?
Se salgo in cielo, là tu sei, se scendo negli inferi, eccoti.
Se prendo le ali dell’aurora per abitare all’estremità del mare,
anche là mi guida la tua mano e mi afferra la tua destra.
Se dico: Almeno l’oscurità mi copra e intorno a me sia la notte;
nemmeno le tenebre per te sono oscure, e la notte è chiara come il giorno;
per te le tenebre sono come luce”.
La cosa meravigliosa è che questa presa di coscienza di essere sotto lo sguardo di Dio non crea un sentimento di vergogna o di disagio, come chi si sente osservato e scoperto nei suoi pensieri più segreti; al contrario, da gioia perché si capisce che è lo sguardo di un padre che ci ama e ci vuole perfetti come lui è perfetto. Il salmista termina infatti la sua preghiera con il grido esultante:
”Scrutami, Dio, e conosci il mio cuore,
provami e conosci i miei pensieri:
vedi se percorro una via di menzogna
e guidami sulla via della vita”.
Sì, vedi, Signore, se seguiamo una via di menzogna e guidaci, in questa Quaresima, sulla via della semplicità e della trasparenza. Amen.
1. Cf. B. Pascal, Pensieri, 147 Br.
2. La Rochefoucauld, Massime 218.
3.Cf. Strack-Billerbeck, I, 718.
4.S. Giovanni della Croce, Massime, 20 e 21.
5.Manzoni, I promessi Sposi, cap. XXIV.
6.S. Agostino, De Trinitate, VI, 7.
7.S. Tommaso d’Aquino, S.Th. I,3,7

giovedì 14 marzo 2019

Come la mattina al risveglio





(Nicola Gori) A un uomo che sembra vivere in una grande «centrifuga lanciata a tutta velocità» verso l’esterno, il grido di sant’Agostino «Rientra in te stesso!» appare come una salutare ancora di salvezza per ritrovare Dio nella propria interiorità. Così il predicatore della Casa Pontificia, il cappuccino Raniero Cantalamessa, spiega a «L’Osservatore Romano» il senso delle prediche che si tengono in Vaticano nei venerdì di Quaresima, a partire dal 15 marzo.
Perché la scelta di questo tema “agostiniano”?
Le prediche di questa Quaresima continuano la riflessione sul versetto del salmo: «L’anima mia ha sete del Dio vivente», iniziata nell’Avvento scorso. Dio c’è sempre; «in lui ci muoviamo, respiriamo e siamo», diceva Paolo agli ateniesi; ma di solito non ce ne rendiamo conto.
Una cosa infatti è sapere che Dio esiste e un’altra cosa accorgerci della sua esistenza, vivere alla sua presenza, «coram Deo» si diceva un tempo. Tra le due cose c’è di mezzo qualcosa che somiglia a ciò che avviene al risveglio mattutino. Durante la notte, le cose intorno a noi esistevano, erano come le avevamo lasciate la sera prima: il letto, la finestra, la stanza. Ma solo adesso, al risveglio, le cose cominciano o tornano a esistere per me, perché ne prendo coscienza, mi accorgo di esse. Prima era come se esse non esistessero. Avviene la stessa cosa con Dio. Occorre un risveglio, un soprassalto di coscienza per accorgersi di Lui. Le prediche quaresimali di quest’anno vorrebbero aiutare a vivere un «risveglio» di questo genere.
C’è un motivo per cui non riusciamo a “vedere” Dio?
C’è un duplice motivo: uno che dipende da Dio e uno che dipende da noi. Il primo consiste nel fatto, spesso ripetuto nella Bibbia, che «non si può vedere Dio e restare in vita». La visione faccia a faccia di Dio annienterebbe la creatura fatta di carne e sangue, a causa della sua trascendenza e maestà. L’altro motivo, dicevo, dipende da noi. Mi spiego. Dio non si può vedere «di faccia», ma si può vedere, dice la Scrittura, «di spalle», cioè di riflesso, «come in uno specchio e in enigma», secondo san Paolo. Se non lo vediamo neppure così, questo sì dipende da noi, dal fatto che non lo cerchiamo.
Esiste un luogo privilegiato dove incontrarlo?
Questa domanda mi permette di approfondire il concetto appena accennato. Ci sono “luoghi”, in cui è possibile “vedere” Dio, nel modo indiretto e mediato che ho appena descritto. Il primo di essi, accessibile a tutti, è il creato. Alcuni versi assai noti di Metastasio dicono: «Ovunque il guardo giro / immenso Dio ti vedo. / Nell’opre tue t’ammiro. / Ti riconosco in me». Di questa conoscenza di Dio attraverso le creature parla la Bibbia quando canta nel salmo: «I cieli narrano la gloria di Dio, l’opera delle sue mani annunzia il firmamento». Ma il luogo privilegiato della conoscenza del Dio vivente è Cristo, il Verbo fatto carne. Per questo l’evangelista Giovanni scrive: «Dio, nessuno lo ha mai visto. L’Unigenito che è nel seno del Padre, lui ce lo ha rivelato». I versi che ho appena citato di Metastasio menzionano alla fine un altro «luogo» in cui si può trovare Dio: «Ti riconosco in me». Ogni conoscenza di Dio — quella a partire dalle creature e quella che parte dal Vangelo — si opera nel cuore dell’uomo, nella sua interiorità. Altrimenti resta una conoscenza teorica, impersonale ed esteriore. Uno può conoscere a memoria il Vangelo ed essere un esperto di cristologia, senza che tra lui e Dio e tra lui e Cristo si stabilisca un vero contatto personale. Proprio per questo ho scelto come titolo dell’intero ciclo di prediche il motto famoso di sant’Agostino: «Rientra in te stesso!». La motivazione che il santo dà del suo invito è: «Perché nell’uomo interiore abita la Verità».
Perché l’uomo è chiamato ad adorare il Signore?
Prima di ogni motivazione remota del dovere dell’adorazione, ci sono le parole della Scrittura. Il primo comandamento di Dio — quello che Gesú oppone al demonio nell’episodio delle tentazioni — dice: «Adorerai il Signore Dio e a lui solo presterai culto». C’è poi la parola di Cristo alla Samaritana: «Dio è spirito e quelli che lo adorano lo devono adorare in spirito e verità. Il Padre cerca tali adoratori». L’essere «eretti», con lo sguardo rivolto in alto, è la caratteristica dell’essere umano, diceva il filosofo Kierkegaard; ma prerogativa ancora più nobile e più degna di lui è «essere curvo», avere lo sguardo rivolto a terra, in adorazione davanti al proprio Creatore. L’uomo, aggiungeva, «ha bisogno di qualcosa di maestoso da adorare», e se questo «qualcosa» o «qualcuno» non è Dio, sarà inevitabilmente qualcosa di molto meno degno di Dio e meno degno dell’uomo. Noi abbiamo svilito la parola adorare; c’è chi adora andare a caccia, chi adora il proprio cane... Ma nella Bibbia l’adorazione è l’unico sentimento riservato solo ed esclusivamente a Dio. Noi veneriamo, preghiamo e amiamo la Madonna, ma non la adoriamo, contrariamente a quanto alcuni pensano di noi cattolici.
Quale significato riveste in particolare l’adorazione della croce?
Ho parlato sopra di Gesù Cristo come del luogo per eccellenza in cui si può incontrare il Dio vivente. Bisogna, a questo proposito, tener conto di due visioni diverse, ma complementari. Nella prospettiva dell’evangelista Giovanni, è soprattutto grazie all’incarnazione che Cristo diventa il supremo rivelatore del Padre; nella prospettiva di Paolo, è soprattutto nel mistero pasquale. Dio infatti è amore e sulla croce si manifesta la vera natura dell’amore di Dio che è un amore di donazione, fino a svuotarsi di sé per le sue creature. Ho dedicato l’ultima predica di Avvento a illustrare la prospettiva di Giovanni; penso di dedicare l’ultima predica di Quaresima a illustrare la prospettiva di Paolo.
È ancora attuale il messaggio di sant’agostino?
Il grido di Agostino «Rientra in te stesso!» (“In te ipsum redi”) non solo è ancora attuale, ma non è stato mai così attuale e necessario come oggi. Viviamo in un’epoca in cui l’uomo, grazie anche agli incredibili progressi nei mezzi di comunicazione, è tutto proiettato all’esterno. Viviamo come in una centrifuga lanciata a tutta velocità. Siamo costantemente “in uscita” attraverso le cinque porte che sono i nostri sensi. E non soltanto i giovani e i ragazzi... C’è un essere “in uscita” che è buono e spesso raccomandato da Papa Francesco, ed è uscire da noi per andare verso il prossimo e portare l’annuncio del Vangelo «alle periferie esistenziali del mondo»; ma c’è un essere “in uscita” deleterio e spersonalizzante ed è quando diventiamo incapaci di sottrarci al chiasso e alla dissipazione per rientrare nel nostro cuore e lì dialogare con Dio. La Quaresima ha lo scopo di aiutarci in questo.
L'Osservatore Romano